Artisti comici birmani, appello a Fo e Benigni — Lombardi nel Mondo

Artisti comici birmani, appello a Fo e Benigni

Due fratelli e un cugino: voilà, i Moustache Brothers, un trio di artisti che si esibisce in clandestinità. Hanno pagato la satira col carcere, ma non hanno perso la voglia di scherzare, parlando di cose serie. Li abbiamo incontrati

Si appellano a Dario Fo e a Roberto Benigni, pregandoli di parlare della loro situazione e di dar voce al dramma del loro popolo. Loro sono i “Moustache Brothers”, due fratelli e un cugino, un trio di artisti che si esibisce in clandestinità a Mandalay, la città teatro della clamorosa protesta dei monaci nel 2007. I tre artisti Hanno pagato la satira col carcere, ma non hanno perso la voglia di scherzare, parlando di cose serie.

Alla giornalista che per conto di “Mondo e Missione” li ha incontrati spiegano: «Il nostro sogno? Che un giorno in Birmania ci sia la democrazia. Che ci sia libertà di parola, di scrittura, di scherzo. Noi non abbiamo fucili, non abbiamo armi, abbiamo solo la bocca. Raccontate tutto questo, raccontatelo».

È buio pesto sulla 39ma. A Mandalay, come pure a Yangon, per non parlare dei centri più piccoli, l’elettricità è un optional; e la sera va e viene, lasciando ampie parti della città immerse nell’oscurità. Alcune insegne luminose, qualche rumoroso generatore gettano bagliori di luce qua e là, e neppure la torcia che ho con me, fondamentale nei frequenti episodi di black out, è di grande aiuto. Sto cercando il numero civico 80/81, dove vivono i Moustache Brothers, nota e coraggiosa compagnia di teatranti messa al bando, ormai da tempo, dalla dittatura birmana.

Non è semplice raccapezzarsi, ma può esser di grande aiuto, in casi come questo, aver presente due elementi: i baffi e qualche rudimento base circa la pronuncia bamar. E infatti, non appena mi fermo a chieder lumi a un gruppetto di persone, un signore mi guarda e sorridendo mi dice qualcosa che suona così: «Papalé?», portandosi intanto la mano destra al viso, sopra la bocca, e mimando il segno dei baffi. Sì, gli rispondo entusiasta, intuendo che si riferisce a Par Par Lay, il Moustache Brother number one. Poco distante, ecco la dimora degli artisti, i più famosi e i più perseguitati del Myanmar; entrando, si accede direttamente a una stanza, preceduta da un lavatoio dove un signore sta sciacquando dei piatti (mi accorgerò dopo che si tratta di Par Par Lay).

A venirmi incontro è un’esile ma scattante figura maschile, che dà subito il benvenuto: si tratta di Lu Maw, il «fratello baffone» numero due. Sono in anticipo per lo spettacolo, e domando se, prima dell’inizio, possiamo far due chiacchiere e se il fotografo con me può realizzare un po’ di scatti; Lu Maw ne è ben felice. L’ambiente in cui ci troviamo non è affatto grande: sulla sinistra una struttura in legno, di poco rialzata da terra, funge da palcoscenico, sulla parete alle spalle una miriade di splendide quanto impolverate marionette tradizionali, strumento dello youq-the pwe, il teatro delle marionette, per l’appunto, una delle forme più espressive dell’arte birmana; attorno alla ribalta, una ventina di sedie di plastica, pronte ad accogliere, più tardi, il pubblico.

Il muro di fronte è un collage multicolore di foto, ritagli di articoli di giornali, manifesti, immagini in bianco e nero e a colori che ritraggono i Moustache con colei che i birmani chiamano the Lady, ossia Aung San Suu Kyi, paladina del popolo birmano, Premio Nobel per la Pace 1991. L’ultima fotografia, in ordine di tempo, risale al 2002, anno in cui la fondatrice e leader della Lega Nazionale per la Democrazia, attualmente ancora agli arresti domiciliari, andò a far visita ai Moustache Brothers, poco dopo la loro liberazione.

Già, perché Par Par Lay e Lu Zaw (che in verità è un cugino), hanno pagato e continuano a pagar caro e in prima persona la loro satira senza peli sulla lingua, come ricorda Lu Maw, l’unico dei tre ad essersi salvato dall’orrore della prigione: 59 anni, una parlata inglese alla quale non è facile star dietro (ma è l’unico a destreggiarsi con la lingua e a fare da ponte con gli stranieri), l’attore ha un’energia incredibile e tanta voglia di raccontare, di far conoscere all’esterno la realtà che lui e i suoi cari hanno vissuto, emblematica della tragedia di un Paese, oppresso da una delle dittature più spietate e rigide al mondo. «La nostra famiglia è sulle scene da oltre quarant’anni – spiega Lu Maw – una passione tramandata da tre generazioni, tutta all’insegna dell’a-nyeint, una forma di teatro tradizionale che ruota intorno alla commedia popolare musicale, ricca di numeri di danza, canto ed elementi farseschi; un tempo (le sorelle dei Moustache e la moglie di Lu Maw sono esperte ballerine, ndr) venivamo chiamati a esibirci a feste, a eventi celebrativi, viaggiavamo per tutto il Paese, e i nostri show andavano avanti tutta la notte».

Frizzi, lazzi, prese in giro dei potenti, dei militari, denuncia delle situazioni di vita della gente che suscitano ilarità nel pubblico, ma non nei governativi. «Nel 1990 il primo arresto di mio fratello – ricorda Lu Maw – che rimane incarcerato per sei mesi; ma è nel 1996 che la situazione precipita». Il 4 gennaio di quell’anno, anniversario della costituzione della Birmania indipendente, Par Par Lay e Lu Zaw si esibiscono a Yangon nel corso di celebrazioni organizzate dall’Nld, nel giardino di casa di Aung San Suu Kyi: «Non appena U Par Par Lay cominciò a parlare, il pubblico capì subito, con sorpresa e piacere, che si sarebbe trattato di un evento come in Birmania non se ne vedevano da parecchi anni – scrive la stessa Su Kyi in Lettere dalla mia Bir¬mania -. Par Par Lay esordì dicendo che avrebbe agito e parlato a suo piacimento, e che era ben consapevole che molto probabilmente una simile audacia gli sarebbe costata la libertà… Il fragoroso applauso che accolse il suo di¬scorso fu il degno preludio a una performance scintillante di parodie, battute a raffica, calembour irresistibili, danze e musiche indiavolate. Il pubblico era pieno d’ammirazione per il coraggio degli attori, che davano finalmente voce a ciò che da tanti anni la gente là riunita avrebbe voluto dire, senza poterlo fare».

«Il 7 gennaio – prosegue Lu Maw – il “Kgb birmano” bussa alla porta e preleva mio fratello e mio cugino. La condanna: sette anni di lavoro forzato. Il 26 marzo vengono spediti nel campo di lavoro di Kyen Kran Ka, nello Stato Kachin, a nord, sopra Myitkyina. Inca¬tenati, costretti a spaccar pietre, a viver di stenti. Tante le persone che hanno visto morire; di fatica, di malaria, di dissenteria. Era la prima volta che due attori venivano condannati ai lavori forzati, ritrovandosi non tra prigionieri politici, ma fra assassini, ladri, trafficanti di droga. Poi sono stati separati: mio fratello nella prigione di Myit¬kyina, Lu Zaw in quella di Katha. Mia cognata, in quegli anni, poteva andare ogni due mesi a trovarlo e a portargli del cibo, ma non sempre era autorizzata a vederlo».

Nel luglio 2001 vengono scarcerati, grazie alla campagna di Amnesty International e ai tanti appelli di personalità note; ma da allora hanno il divieto assoluto di esibirsi per i connazionali; possono fare una «dimostrazione» soltanto per gli stranieri. A settembre 2007 il terzo arresto: «Proprio in occasione della Rivoluzione zafferano – prosegue Lu Maw -. Mio fratello ha appoggiato la protesta dei monaci e ha preso parte ad alcune manifestazioni; per questo è stato imprigionato altre cinque settimane. Un avvertimento… Ci tengono d’occhio in continuazione, lo sappiamo, but we don’t care the government! (ma non c’importa del governo!)». Loro, imperterriti, tengono duro. I turisti, intanto, iniziano ad arrivare, la stanza si riempie velocemente. Lu Maw, col suo inglese, è portavoce e mattatore, e invita il pubblico ad affrontare un breve ma interessante viaggio attraverso la cultura birmana, offrendo, soprattutto, uno spaccato della drammatica realtà attuale, senza risparmiare colpi e stoccate, sempre a suon di battute, naturalmente; sono centinaia i jokes, ossia gli sketch, le barzellette o freddure che questi commedianti hanno in repertorio, e che i vertici al potere mal digeriscono.

Lu Maw, parlando a un gracchiante microfono, parte con uno dei cavalli di battaglia: «Par Par Lay ha mal di denti e va in Thailandia a farsi curare: il dentista, stupito, gli chiede come mai sia andato così lontano: Ma non avete dentisti in Birmania? Oh, sì, certamente dottore, ma in Myan¬mar non pos¬siamo aprire la bocca!». Appoggiati sul palco numerosi cartelli, con i nomi di diversi servizi segreti; i fratelli li tirano fuori e li mostrano, mentre si rivolgono al pubblico: «Di dove siete voi? Israeliani?». Ed eccone apparire uno con la scritta Mossad; «Ita¬liani?». Pronti con Sismi e Sisde. «Te¬deschi?». Non manca neppure la Stasi. E ancora: «Moustache Brothers under surveillance, Par Par Lay three times arrested, jailbird (N.B. sotto sorveglianza, arrestato tre volte, avanzo di galera)», con il baffuto numero uno che mima le catene ai polsi. Agile come un gatto, Lu Maw scatta quindi verso un videoregistratore e ci infila una cassetta vhs: si tratta di una scena del film About a boy, con Hugh Grant, ambientata in un call center di Amnesty, in cui Par Par Lay viene espressamente citato.

Per dare agli spettatori un assaggio delle forme artistiche locali, arrivano sul palco le donne della compagnia, abili danzatrici che, accompagnate dalla musica, si esibiscono in alcune figure tipiche della tradizione, mentre Par Par Lay interpreta vari personaggi, facendo una serie di caricature e insegnando persino come si indossa il longyi, tipico capo d’abbigliamento che somiglia a una gonna lunga. Nuovamente torna in scena Lu Maw, che pungola gli astanti: «Voi pensate di vivere in un Paese benestante? No, non è così, la Bir¬mania è ricca! Voi non avete oppio, eroina, prostituzione, Hiv… Certo, il commercio della droga: il governo si copre gli occhi con una mano… e prende i soldi con l’altra! – racconta mimando la scena – Ma il denaro per il cibo, la scuola, la sanità non c’è. Eh già, in passato i ladri erano chiamati ladri, oggi sono conosciuti come lavoratori del governo!». Non mancano neppure i riferimenti all’attualità internazionale, come quando Lu Maw scherza appellandosi ai pirati somali: «Per favore, venite in Bir¬mania, rapite i nostri generali, ve li diamo come souvenir!». Terminato lo spettacolo, sul palco viene esposta una serie di magliette che raffigurano Par Par Lay; in vendita a cinquemila kyat (5 dollari), servono a far guadagnare ancora qualcosa e a diffondere l’immagine della compagnia.

Quando anche gli ultimi stranieri se ne sono andati, approfitto ancora un po’ di Lu Maw, mentre gli altri iniziano a riordinare; sui loro volti, sempre sorridenti, si scorge un’espressione diversa; nello sguardo si intuisce una stanchezza che non è solo fisica o dovuta all’età. È un velo che fa intuire qualcosa di non detto, di inesprimibile, di doloroso. Lu Maw, con la sua aria da instancabile giullare, mi chiede di fargli arrivare l’articolo tramite qualche straniero. E, sapendo che sono italiana, si appella a Dario Fo e a Roberto Benigni, pregandoli di parlare della loro situazione.

Lu Maw – chiedo prima di salutare – qual è il vostro sogno? «Che un giorno in Birmania ci sia la democrazia. Che ci sia libertà di parola, di scrittura, di scherzo. Noi non abbiamo fucili, non abbiamo armi, abbiamo solo la bocca. Raccontate tutto questo, raccontatelo».

In Myanmar la situazione della democrazia è, se possibile, ogni giorno più critica. Dal 7 maggio scorso la Lega nazionale per la democrazia (Nld) – che, guidata da Aung San Suu Kyi, nel 1990 aveva clamorosamente vinto le elezioni, poi non riconosciute dai militari – è stata ufficialmente sciolta. Il partito (che a lungo ha coagulato l’opposizione politica nel Paese) non esiste più: i suoi leader hanno infatti deciso di boicottare le prossime elezioni per protestare contro le norme «ingiuste e discriminatorie» emanate dalla giunta militare per controllare il voto. Tra queste, la principale (e più grave) è quella che, nei fatti, ha portato all’esclusione dalla competizione elettorale di Aung San Suu Kyi, che non potrà votare né essere eletta perché ha riportato condanne penali.

Alcuni membri del disciolto partito hanno, però, deciso di fondare un nuovo movimento, così da poter partecipare alle elezioni. Than Nyein, già prigioniero politico e figura di primo piano della Nld, ha annunciato che la nuova formazione si chiamerà National Democratic Force. Negando contrasti di sorta con Aung San Suu Kyi, egli ha dichiarato che alla base della decisione assunta «vi è la volontà di continuare le nostre attività politiche». Ma il portavoce della Nld, Nyan Win, ha replicato che la decisione di fondare un nuovo partito è una «scelta personale» dei suoi leader, puntualizzando, con una punta di polemica, che essi avrebbero dovuto obbedire formalmente alla decisione unanime della Lega nazionale per la democrazia. Dopo anni di lotta unitaria, questi ultimi eventi rappresentano dunque un preoccupante segnale, che rivela la spaccatura all’interno dell’opposizione democratica birmana. «Prima ancora del voto – ha scritto l’agenzia AsiaNews, a margine di un lancio sulla notizia – è una vittoria del regime militare che adotta la tattica del “divide et impera” per mantenere il potere».

Le elezioni generali indette dalla giunta per il 2010 dovrebbero svolgersi fra ottobre e novembre, anche se non vi è al momento una data precisa. Con ogni probabilità, il voto andrà a rafforzare lo strapotere della dittatura militare, che ha già «prenotato» per sé un quarto dei seggi nel nuovo Parlamento, per di più – come detto – escludendo dalla competizione elettorale con una scandalosa legge ad personam (che però non ha suscitato nessuna indignazione in casa nostra!) la principale esponente dell’opposizione. Tutto ciò, come rileva un commento sul sito MissiOnLine.org, è avvenuto nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale che non ha levato voci decise di protesta. Anzi, molti Paesi hanno continuato a commerciare con la dittatura incuranti delle sofferenze del popolo birmano.

Il regime militare birmano, intanto, si prepara all’appuntamento elettorale a modo suo. A fine aprile il premier Thein Sein, insieme ad altri venti componenti della giunta, si è dimesso dall’esercito e ha fondato un nuovo partito, Union Solidarity and Development Party (Usdp), che rappresenterà l’ala «civile» della dittatura che continua a mantenere il potere in Myanmar. Ai primi di maggio, secondo le fonti ufficiali, erano 25 partiti che hanno presentato domanda per partecipare al voto; 12 di essi hanno ottenuto il via libera della Commissione elettorale. Per scendere nell’agone politico, stavolta occorevano risorse economiche non indifferenti (stando a quanto dichiarato da fonti della dissidenza): un candidato doveva depositare una cauzione pari a 330 mila euro, un partito 550 mila.

Paola Babich.

http://www.misna.org/

 

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martedì 28 Gennaio, 2020