Prigioniero nella Prima Guerra Mondiale — Lombardi nel Mondo
Prigioniero nella Prima Guerra Mondiale
La storia che qui raccontiamo ha il sapore dei “fioretti” di san Francesco: lo stesso profumo di Vangelo, le stesse “beatitudini” che secondo la logica umana sembrano pazzia, ma nella luce della fede danno serenità, pace e gioia del cuore. Come sono belle, e misteriose, le avventure dello Spirito Santo! Pensate un po’: fratel Felice Tantardini del Pime, classe 1898, titolo di studio terza elementare, morto nel 1991 a 93 anni, 70 dei quali passati nelle foreste e sui monti della Birmania facendo il fabbro, il falegname e mille altri umili mestieri, è sulla via per diventare beato e santo della Chiesa universale.
La gente birmana infatti, poi l’arcivescovo di Taunggyi, mons. Matthias U Shwe, e il superiore generale del Pime, padre Franco Cagnasso, hanno deciso di avviare la sua causa di canonizzazione. Anche il parroco di Introbio (Lecco), don Cesare Luraghi, ha chiesto a nome del suo popolo di iniziare il processo canonico per la canonizzazione di Felice Tantardini. Molti pregano questo umile e grande missionario laico, a Toungoo, Taunggyi, Loikaw, in varie parti della Birmania; come pure a Introbio, nella Valsassina e fra gli amici delle missioni e del Pime. Lo pregano perché per sua intercessione ottengono da Dio le grazie che chiedono.
Il Pime in Birmania ha avuto, dal 1868 ad oggi, circa 150 missionari in grande maggioranza sacerdoti (otto vescovi), fra i quali non pochi si sono distinti per santità, scienza, vari carismi: esploratori, costruttori, portatori di pace fra tribù in guerra, fondatori di Chiese locali, cinque sono stati uccisi e li consideriamo martiri; i vescovi del Pime in Birmania erano figure carismatiche e alcuni di essi ancor oggi considerati santi dalla loro gente: Eugenio Biffi, Tancredi Conti, Rocco Tornatore, Emanuele Sagrada, Alfredo Lanfranconi, Erminio Bonetta, Ferdinando Guercilena, Giovanni Battista Gobbato. Ma per dare alla Birmania un nuovo beato e santo, dopo la causa di canonizzazione di padre Clemente Vismara (iniziata nel 1996), si è scelto fratel Felice: secondo la logica umana l’ultimo o il penultimo dei 150!
Forte educazione cristiana in famiglia
“Nacqui a Introbio, villaggio della provincia di Como (oggi di Lecco, n.d.r.), sesto di otto figli. Mi disse mia madre che, nel mandarmi al battesimo, non sapeva che nome impormi e lo domandò alla levatrice, la quale senz’altro suggerì il nome di Felice. Questo nome mi fu dato e con questo anche oggi tutti mi chiamano… Io sono grato a quella buona donna per un tale nome, che esprime l’ideale della mia vita: sforzarmi di essere felice, sempre e ad ogni costo, ed essere intento a far felici gli altri”.
Così incomincia l’autobiografia di Felice Tantardini, “Il fabbro di Dio”, scritta dallo stesso negli anni cinquanta, per ordine di mons. Alfredo Lanfranconi, suo vescovo a Toungoo (1).
Introbio, principale paese della Valsassina con circa 1500 abitanti, una torre medioevale e tipica produzione di formaggio; a 586 metri sul livello del mare, per il clima è considerato luogo di villeggiatura estiva. Felice era figlio di Battista e Maria Magni. Frequenta la scuola del paese, che allora arrivava solo alla terza elementare, e fu sempre promosso con i massimi voti in tutte le materie. La sorella maggiore e la mamma si prendevano cura di lui anche in questo. Lo seguivano in tutto, persino nella calligrafia. La mamma guardava spesso i quaderni dei figli.
“Finita la terza elementare, la mamma volle che la ripetessi, tanto per farmi acquistare un po’ più di istruzione”.
A 10 anni Felice, terminata la scuola, incomincia a lavorare da fabbro col fratello maggiore per sette anni. Quando ha 13 anni rimane orfano del padre, morto tragicamente in un’alluvione che travolge l’officina elettrica in cui stava lavorando.
“La mamma, “donna forte” – racconta Felice – non si lasciò abbattere dall’inattesa sciagura. A costo di sacrifici che solo il Signore ha potuto registrare nel libro d’oro della sua vita, dimentica di se stessa e sollecita solo di noi suoi figli, ci sorresse e ci temprò con fortezza e amore. Oh quanto ringrazio il Signore di avermi dato una tale madre!”.
Felice racconta lui stesso un caso di come mamma Maria educava i suoi figli. Quando aveva circa 11 anni, tornando dal lavoro e passando di fianco ad un campo di granoturco vede delle belle pannocchie quasi mature e non resiste alla tentazione di prenderne una.
“Arrivato a casa con la mia pannocchia in mano, la mamma mi chiede:
– Dove hai preso quella pannocchia?
– L’ho presa nel campo di…
– Immediatamente vieni con me!
disse la mamma con cipiglio risoluto. E mi condusse dalla famiglia del padrone di
quel campo. C’era in casa solo la moglie.
– Comare, disse la mamma, questa pannocchia appartiene a voi, è stata presa dal vostro campo. Riprendetevela.
Dicendo così, me la tolse di mano e gliela porse. Quella buona donna si schermiva:
– Ma no, Maria, non fa niente. E’ cosa da poco. E poi, si sa, i ragazzi sono sempre ragazzi!
Ma la mamma fu irremovibile:
– Niente affatto. E’ cosa che non si doveva fare. Deve imparare a non rubare!
Oh quanto ringrazio il buon Dio di avermi dato una tal madre!”.
Racconti di questo genere ci riportano alla vita com’era un secolo fa, quando non esistevano tanti divertimenti e distrazioni. Felice racconta:
“Era una vita molto semplice. Lavoro, cena, poi via a giocare sul sagrato della chiesa con i miei coetanei. Sull’imbrunire a casa. La mamma e le quattro sorelle facevano circolo, sedute, attorno alla lampadina elettrica in mezzo alla cucina, chi cuciva a mano e chi sferruzzava. Io dovevo leggere ad alta voce qualche libro: Fabiola, I promessi sposi, Tutto per Gesù, romanzi d’avventure e altri libri, che il parroco di un paese vicino aveva regalato a mio padre, erano la delizia di quelle nostre quiete serate. Quest’abitudine formò in me una bella qualità, l’amore ai libri. Alle 21, recita del rosario in comune. Finito il rosario, a letto.
Non dimenticherò mai la raccomandazione di mia madre: Ricordatevi, figliuoli, di non tralasciare mai le vostre preghiere per quanto brevi e non mettetevi a dormire come i cani”. Quest’esortazione materna mi è sempre risuonata nell’animo, spronandomi ad essere fedele alle preghiere della sera in qualsiasi luogo io fossi, solo o in compagnia, anche durante la vita militare e la prigionia”.
Fame e gelo nel tempo della prigionia
Nel 1915 incomincia la prima guerra mondiale. Felice Tantardini ha 17 anni e trova lavoro a Genova-Sampierdarena, alle tornerie dell’Ansaldo. Richiamato alle armi, viene esonerato dal servizio militare perché dipendente di un’industria a servizio delle forze armate; ma dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917), tutti gli operai della classe 1898 sono arruolati e inviati ai reggimenti nuovi, che si stavano rapidamente costituendo per fermare l’avanzata nemica: “carne da cannone”, come si dice delle truppe mandate allo sbaraglio con la sicurezza di essere sterminate. Infatti, dopo due mesi d’istruzione sommaria, nel gennaio 1918 il fante Tantardini è inviato in prima linea e, dopo soli due giorni,
“con sessanta miei compagni, esposti come esca ai tedeschi per attirarli sotto il fuoco delle nostre artiglierie, fummo fatti facilmente prigionieri”.
Incomincia per Felice la lunga avventura di prigioniero di guerra, una scuola di vita che lo tempra a tutte le privazioni e fatiche. Se ne ricorderà molte volte in Birmania!
Nelle lunghe pagine del suo libro “Il fabbro di Dio”, in cui ricorda l’anno e mezzo di prigionia e di fuga dalla prigionia, il tema quasi unico è il cibo e la fame, i pochi vestiti e il freddo. Felice Tantardini non sa niente della guerra o della politica mondiale, non ha più contatti con i suoi cari, a volte perde la nozione del tempo e del luogo in cui si trova. Cerca solo di sopravvivere, lavorando, pregando, con una grande fiducia nella Provvidenza. Viene spostato da un campo di lavoro all’altro e ovunque le condizioni di vita sono quasi sempre le stesse:
“Vitto giornaliero un piccolo tozzo di pane, tanto per non morire d’inedia… Vi faceva un freddo cane e noi eravamo malvestiti, senza coperte né altro. Avevamo per cibo un mestolo d’acqua calda, sporca di farina, uno al mattino e uno alla sera. A quanto sembrava, eravamo condannati a morire di freddo e di fame”.
Felice se la cava perché “più un ragazzo che un uomo”, scrive, quindi con minori esigenze di altri alti e robusti, e soprattutto perché fortunato, o meglio, protetto dalla Provvidenza di Dio, che egli pregava continuamente. Se avesse trascorso un anno e mezzo di prigionia in quelle condizioni, sarebbe morto di fame. Invece riesce a procurarsi cibo in vari modi, anche rubandolo a rischio di punizioni feroci. Ma la fame fa accettare tutto, pur di procurarsi qualcosa da mangiare.
Bisogna notare che in genere, nella prima guerra mondiale, i prigionieri dei tedeschi e degli austro-ungarici non erano tenuti rinchiusi in campi di concentramento, ma messi al lavoro a servizio dell’esercito, con una certa libertà di movimento: la fame era il destino comune anche per i popoli e i militari del nemico. E’ noto infatti che gli “Imperi centrali” (Germania e Impero austro-ungarico) persero la prima guerra mondiale anche, e forse soprattutto, per l’insufficiente produzione agricola e l’impossibilità di acquistare cibo all’estero. Un esercito e un popolo che mangiano poco e male non possono vincere la guerra!
Tantardini, fatto prigioniero dai tedeschi, è condotto con altri commilitoni a Vittorio Veneto, rinchiusi alcuni giorni in custodia e senza cibo, quindi divisi in vari gruppi; poi viene assegnato alle ferrovie con altri italiani. Vi erano anche soldati russi e non conoscendo la lingua si ingegnavano ad intendersi con la mimica. Quello che colpisce Felice è che questi russi sono molto fedeli alle loro preghiere prima e dopo i pasti, e quando si recano al lavoro. Fa amicizia con uno di loro, che gli procura delle patate: le cuoce in un secchio di ferro sulla forgia, mentre scalda i ferri che deve piegare o battere, e le condivide con i compagni meno fortunati. Dopo alcuni mesi viene trasferito e “finisce la cuccagna”. Va a lavorare con le squadre di prigionieri che dovevano togliere i binari della seconda linea ferroviaria da Conegliano a Udine.
“Bisognava caricare un certo numero di vagoni al giorno di questi ferri, che venivano portati in Germania. Lavoro pesantissimo, aggravato dalla scarsezza di cibo, bastante appena a tenere lontana la morte”.
“Me la sono cavata essendo piccolo e asciutto”
Tantardini e i compagni sono sempre affamati e la necessità aguzza l’ingegno. A Conegliano formano una “compagnia di mutuo soccorso” per procurarsi un po’ di cibo: sono in sedici, Felice, due abruzzesi e gli altri tutti siciliani. Alla sera ritornando dal lavoro, due di loro se la svignavano e durante la notte raccoglievano quello che potevano, poca cosa, qualche pannocchia di granoturco, qualche pugno di farina, e molto raramente un pezzo di pane, e lo scarso bottino veniva consumato in comune, ringraziando il buon Dio della Provvidenza concessa, anche se per così poca cosa rischiavano la pelle.
Incredibile ma vero, un italiano che lavorava in cucina e si nutriva con quanto destinato agli altri poveracci, fa la spia e anche questo misero supplemento finisce; non solo ma i sedici del mutuo soccorso sono trasferiti alla “compagnia di disciplina”, che si trovava nei pressi di Gorizia. Trasportati con il treno, scortati da militari armati di fucili e baionette, a Udine si fanno quattro ore di sosta nella sala d’aspetto della stazione.
Felice non perde tempo, fruga nel mucchietto di stracci che trova in un angolo della sala e ricupera un berretto da capostazione, un po’ logoro e sgualcito, ma ancora in buono stato: una spolverata e se lo mette in testa, va a pennello e da quel momento sostituisce l’elmetto, troppo pesante da portare. A notte inoltrata arrivano a destinazione. Che desolazione! Vengono spinti in uno stanzone a pianterreno, senz’aria né luce, rigurgitante di prigionieri sdraiati per terra, senza materassi o coperte. I nostri restano in piedi per il resto della notte, non osano muoversi per paura di schiacciare qualcuno di quei poveracci. Le guardie chiudono le porte e piantonano l’entrata non permettendo a nessuno di uscire per qualsiasi bisogno.
Nella “compagnia di disciplina” regna una regola ferrea. I due pasti consistevano di un mestolo di barbabietole poco cotte in acqua abbondante. Per ogni minima trasgressione, erano frustate senza misericordia. Per le colpe di un certo rilievo si veniva rinchiusi in piccole celle ricavate nella parete, di 60 cm . per lato, con un’unica apertura di 15 cm . quadrati sbarrati con ferri a croce, tanto per non morire asfissiati. La cella era chiusa da una robusta porta sprangata. Il disgraziato prigioniero doveva rimanervi per due ore di seguito:
“Io essendo piccolo ed asciutto, potevo trovare un qualche sollievo nell’accosciarmi, ma per uno alto e corpulento come i russi, essere relegato là dentro senza potersi muovere né piegare era come essere sepolto vivo”.
Quando uscivano sembravano cadaveri ambulanti, tanto avevano un colorito terreo. Passano 15 giorni in quell’inferno e ormai avevano perso ogni speranza di uscirne vivi, quando gli italiani vengono tirati fuori e scortati dalle guardie si avviano senza sapere dove vanno. Pensavano che li avrebbero fucilati: in quelle condizioni, la morte era sentita quasi come una liberazione. Invece li conducono in un’altra baracca di soli italiani appena catturati, zeppa come sardine in scatola. Al mattino sono intruppati, viene data a loro una pagnottella che avrebbe dovuto durare quattro giorni e caricati su vagoni bestiame diretti a Belgrado.
A Lubiana il treno dei prigionieri si ferma ed è parcheggiato su un binario morto per lasciar libera la linea a un treno militare. Da quest’ultimo scendono i tedeschi che in fila si dirigono alla cucina dove si sta distribuendo il rancio: patate, polenta, carne. Il nostro Felice (come gli altri) ha fame:
“Mi sentivo attanagliato dai crampi della fame. Scorsi il cuciniere che, con un lungo mestolo, stava scodellando ai soldati la fumante polenta e sentii verso di questa una repentina attrazione. Impugnai la gavetta, scesi in fretta, passai sotto il treno militare e in un baleno fui alla cucina. Intrepidamente immersi la gavetta nel pentolone e la ritirai colma della cara polenta. Il cuciniere rimase di stucco davanti a tanta baldanza, per di più in un omino così minuto, e si arrestò con il mestolo per aria, guardandomi in faccia. Senza aspettare che si riavesse dal suo stupore e magari mi infliggesse qualche castigo, me la svignai. Con quanto fiato avevo in corpo, ripassai sotto il treno militare e raggiunsi il mio treno. Mi sedetti trafelato a divorarmi la cara polenta, che tanto mi era costata. La trangugiai ancora scottante e ogni boccone mi scendeva giù come fuoco. Poi cominciai a leccarmi la mano, che aveva riportato una bella scottatura. Riuscii a guarirla in pochi giorni, senza medicine, a furia di leccate”.
Evasione da un campo di concentramento
Dopo alcuni giorni, il treno dei prigionieri sosta ancora su un binario morto, vicino ad un campo di patate, una provvidenza che non si poteva lasciar scappare. Con alcuni compagni Felice tenta il tutto per tutto e si fa una mangiata di patate acerbe e crude.
“Era una notte senza luna, ma la fame aguzza la vista. Mentre le guardie sonnecchiavano, scendemmo furtivamente nel campo e ci demmo a prendere patate. Frugavamo ansiosi sotto le tenere pianticelle, ma ahimè, trovammo solo patatine nascenti, grosse tutt’al più come noci. Pulitele alla meglio e con ancora un po’ di terra attaccata, ce le cacciavamo in bocca, le masticavamo e giù per forza nello stomaco. Più che i dolori viscerali, che ben sapevamo ci avrebbero colti, poteva il lungo estenuante digiuno”.
Si riprende il viaggio e dopo otto giorni i nostri arrivano a Belgrado dove ricevono un trattamento un po’ più umano. Sono impiegati come facchini per il trasporto del grano, che dall’interno della Serbia veniva mandato fin là con dei barconi: doveva essere insaccato e posto nei magazzini. A riempire i sacchi pensavano le ragazze serbe, mentre i prigionieri li trasportavano in magazzino. Ragazzotte ben piantate, che facevano molto presto a riempire i sacchi, non lasciavano un momento di respiro e appena il sacco era pieno bisognava portarlo via. I soldati tedeschi non smettevano di pungolarli senza pietà: parole dure e rimproveri.
In seguito viene mandato, con altri 10 prigionieri, in una fabbrica di botti alla periferia della città, assieme ad una decina di bottai serbi. Impara presto qualcosa della loro lingua, che gli sarà molto utile in seguito. Ogni giorno si recano al posto di lavoro, a circa un chilometro di distanza, sempre accompagnati da una guardia armata. A mezzogiorno ritornano a casa per il rancio, indi di nuovo al lavoro fino a sera. Ai margini della strada, spesso, alcune donne consumavano il loro pranzo, venivano dal mercato e le vivande avevano un certo profumino… il pane bianco poi, fatto in casa, faceva venire l’acquolina in bocca ai nostri prigionieri, che se lo mangiavano con gli occhi. Da mesi non vedevano il pane!
Verso la metà dell’ottobre 1918, circa 150 prigionieri italiani e una cinquantina di soldati turchi vengono spediti a Budapest, dove li mettono in una fabbrica di mattoni abbandonata, circondata da un recinto a doppi reticolati, alti più di tre metri. Vestiti di quattro stracci e senza coperte, faceva un freddo terribile. Per cibo il solito mestolo d’acqua calda sporca di farina due volte al giorno. Tra i due reticolati, vigilavano le guardie e di notte lampadine elettriche rischiaravano il passaggio.
Trascorrono così due settimane: “Solo il buon Dio sa come non ci lasciammo vincere dalla disperazione”. Felice è forse il più depresso di tutti, non ne può proprio più di quel modo di vivere e un giorno decide di fuggire, ad ogni costo. In un angolo del cortile scopre un vecchio condotto di scolo, momentaneamente asciutto e ricoperto di erba secca, ma sufficiente per tentare di attraversarlo strisciandovi dentro come una biscia. Guarda, studia tutte le mosse e si persuade che è possibile fuggire tanto più che la luce delle lampadine non arriva fin là.
“Quando svelai il mio piano ad alcuni miei compagni, le loro facce smunte e le labbra, nelle quali da tempo era fuggito il sorriso, sembrarono rianimarsi. Certo il rischio era grave e tutto faceva prevedere che la nostra fuga sarebbe stata punita con la morte. Ma questa allora ci appariva piuttosto come una liberazione. Sostenuti dal coraggio della disperazione, decidemmo di tentare la fuga…
Poco prima di mezzanotte, lasciai che la guardia si allontanasse e mi infilai dentro lo scolo. Il cuore mi batteva così forte, da farmi pensare che anche la guardia ne sentisse i battiti. Finalmente sgusciai fuori quatto quatto e raggiunsi il platano convenuto. Era una notte buia come una tana di lupi. Attesi a lungo, finché, uno per volta, arrivarono i miei quattro compagni che avevano preso l’appuntamento. Nessun allarme fu dato. Nessuno, grazie a Dio, se ne era accorto. Sulla strada, ogni tanto passavano carrette con soldati, ma nessuno badava a noi”.
In fuga da Jugoslavia e Bulgaria verso la Grecia
Comincia così la seconda parte dell’avventura di Felice Tantardini durante la prima guerra mondiale: fuggiasco attraverso i Balcani, da Budapest a Belgrado, a Sofia e fino in Grecia, sempre col problema prioritario di riempire lo stomaco e trovare un posto dove dormire riparandosi dal gelo notturno. Con momenti difficili per il timore di essere scoperti come prigionieri in fuga, ma tutto sommato senza grandi pericoli.
Camminano a marce forzate verso la Grecia , alleata dell’Italia contro gli Imperi centrali di Germania e Austria. Riescono a fare alcuni tratti di strada su un treno e su un camion. Sopravvivono facendo qualche lavoretto, chiedendo cibo ai contadini che vedono ben disposti, rubando nelle case e nei magazzini, cercando patate o barbabietole sotto terra. Dormono per strada, sotto tettoie, nei fienili, in case abbandonate.
“Ci rimettemmo sulla via, con la speranza di trovare in qualche villaggio qualcosa da mettere sotto i denti. Ci accontentavamo di poco, ma anche questo poco raramente potevamo averlo e spesso dovevamo passare la notte a ventre vuoto. Avevamo anche perso la nozione del tempo, non sapevamo più distinguere i giorni della settimana. Ogni giorno facevamo circa trenta chilometri di cammino”.
Sulla via verso la Grecia incontrano altri prigionieri italiani fuggiaschi: la guerra si avvicinava al termine e i controlli diminuivano. A volte anche i militari nemici che vedono il piccolo gruppo di fuggiaschi in cui era Felice, non si preoccupano di chiedere loro i documenti. Nella gente comune incontrano persone veramente caritatevoli.
“La popolazione ungherese era buona e anche allora la Provvidenza ci venne incontro. Un gruppo di contadini, reduci dai campi, ci raggiunsero vicino alle prime case del villaggio. Uno di loro ci disse, in tedesco, di seguirlo a casa sua. Lo seguimmo benché con una certa apprensione. Entrati in casa egli accese un bel fuoco, scaldò una pentola di latte e ce ne offrì una ciotola per ciascuno, assieme ad un bel pezzo di pane. Credo che nemmeno la Regina d’Inghilterra abbia mai consumato i suoi sontuosi pranzi regali con tanto appetito come noi quel frugale pranzetto. Quel buon uomo ci condusse poi nel suo fienile, ci augurò la buona notte e ci lasciò dormire tranquillamente. Al mattino ci diede ancora pane e latte. Lo ringraziammo e ripartimmo. Ci sentivamo rinfrancati, come se la vita fosse rifluita in noi”.
Le avventure del procurarsi il cibo sono infinite. Ottengono una scatola di marmellata, ma è guasta e procura loro mal di pancia; ricevono in dono uno zaino pieno di zucchero, del pane, una botticella di grappa (e si ubriacano due volte). Felice non manca di notare le circostanze in cui tocca con mano la protezione della Provvidenza. Dopo aver passato la notte in un fienile, gli è rimasto un solo compagno: gli altri erano già partiti nella notte.
“Ci mettemmo in cammino e ci accorgemmo che un magnifico cane pastore ci seguiva a pochi passi, accompagnandoci per circa tre chilometri, quando ci venne incontro un ufficiale serbo, il quale, visto il cane, ci chiese se era nostro. A dire di sì era una bugia lampante. Mi limitai a dire che ci seguiva sempre. Allora ci chiese se volevamo venderlo. Stavolta venne fuori un sì pronto, con una richiesta di cinque dinari (moneta serba). Egli ci diede l’equivalente in corone austriache, per noi ugualmente utili. Strano che il cane si lasciò legare con un fazzoletto al collo e seguì l’ufficiale senza alcuna resistenza. Non potei trattenermi dal vedere in questo incidente la mano della Provvidenza. Arrivati ad un villaggio a sera, potemmo comprarci cinque bei pani d’orzo. Consumatili e cercato un cantuccio al coperto, facemmo appena in tempo a dire qualche Ave Maria, che ci addormentammo.
Il mattino seguente riprendemmo il cammino noi due soli. Non avevamo più cibarie né denaro, ma ciascuno aveva in corpo i due pani e mezzo della sera precedente e con quelli si poteva sperare di fare un’altra giornata di viaggio, senza morire di fame”.
Quando Felice passa il confine tra Serbia e Bulgaria ha un colpo di fortuna: con altri compagni riesce a prendere un treno con due vagoni pieni di pecore: arrivano a Sofia, capitale della Bulgaria, dopo aver dormito al caldo fra quegli animali. Scesi dal treno alla stazione di Sofia, ne trovano un altro che sta partendo per destinazione sconosciuta. Lo prendono e quando scendono, si imbattono in militari italiani che li portano al loro campo, dove hanno pane a sazietà! Il giorno seguente salgono su un camion italiano che va verso la Grecia e li porta a Salonicco.
Come nasce in Felice la vocazione missionaria
Nel dicembre 1918, quando la guerra mondiale è finita da un mese, Felice Tantardini giunge con alcuni compagni in Grecia e viene ospitato a Salonicco in un campo di raccolta per ex-prigionieri italiani. Qui può finalmente mangiare a sufficienza ed essere rivestito e curato. Nel giugno 1919 è imbarcato con altri commilitoni italiani su una nave che li porta a Taranto (“era la prima volta che viaggiavo su un bastimento”) e dopo dieci giorni arriva in treno a Lecco, con una licenza di soli 18 giorni.
“La distanza da Lecco al mio paesello Introbio è di 16 chilometri , non è un gran che. Allora i mezzi di trasporto erano rari anche di giorno, figurarsi poi di notte. E così decisi di proseguire senz’altro a piedi. Divorai la strada, perché il pensiero di rivedere la mamma mi dava le ali ai piedi. Arrivai alle undici di notte”.
Ma il servizio militare per Felice non è finito. Nel breve periodo passato a casa, la mamma si preoccupa perché il figlio faccia una buona confessione, dopo due anni che non vedeva un prete. Felice si prepara con un accurato esame di coscienza, fa la sua confessione e il confessore gli impone come penitenza la recita di tre Ave Maria. Troppo poco, pensa Felice, per uno che non si confessa da due anni: avrà capito bene, il sacerdote? Ritorna da lui e candidamente gli manifesta il suo dubbio. Ma lui risponde: “Ho capito tutto, dì tre Ave Maria e va’ in pace”.
Passati i pochi giorni di licenza, eccolo a Genova col suo reggimento e poi mandato ancora in Grecia, nell’isola di Rodi e poi a quella di Kalimno (le isole del Dodecanneso sotto amministrazione italiana dal 1912), dov’è nominato caporal maggiore, aiutante di un sergente, incaricato delle spese. La sorella minore di Felice (“la mia sorellina”) gli manda un libro che sa essergli gradito, “Tutto per Gesù”: così, nelle ore di libera uscita, rimane in casa a leggere il suo libro, a pregare ed a chiedersi cosa farà quando tornerà a casa. Le sofferenze e l’esperienza della guerra, della fame, dei massacri e crudeltà viste, l’hanno maturato, reso più riflessivo. Intanto si prende l’impegno di fare lo scrivano per i compagni analfabeti, leggere loro le lettere ricevute da casa e poi rispondere sotto loro dettatura.
Felice non ha mai dimenticato, anche nei giorni peggiori della prigionia, di dire le sue preghiere. La lettura di “Tutto per Gesù” lo riporta all’intensità della sua vita religiosa. Ne ha bisogno perché i suoi compagni, che andavano con le ragazze e le donne dell’isola, invitano Felice a seguirli: egli rifiuta con sdegno. Felice racconta:
“Alcuni di loro si misero in testa di volermi attirare nelle loro nefandezze. Non riuscendoci, una volta minacciarono che sarebbero venuti di notte fino al mio letto e mi avrebbero buttato addosso una delle sgualdrine che loro frequentavano. Nonostante che anch’io, come tutti i giovani, mi sentissi ribollire il sangue nelle vene, ebbi però sempre in orrore simili azioni, che, se vi fossi caduto, non avrei poi avuto il coraggio di guardare in faccia la mia cara mamma.
Perciò risposi senz’altro a quella sfrontata minaccia che chiunque avesse tentato di avvicinarmisi di notte, sarebbe stato accolto con la baionetta, che da allora in poi tenevo sotto il cuscino. Per precauzione avvertii di questa mia misura difensiva il tenente della compagnia, il quale, sebbene anche lui non troppo pulito in fatto di donne, l’approvò in pieno. Superfluo dire che non fui più molestato”.
Dopo tre mesi di vita militare a Kalimno e a Rodi, Felice Tantardini è rimpatriato e congedato dal servizio militare. Ha 21 anni, l’età giusta per trovare un lavoro e sposarsi. Ritorna ad Introbio, viene assunto in una officina elettrica, riprende la sua vita in paese, frequenta la chiesa e si accorge di aver maturato un’inquietudine sul suo futuro, che gli impedisce di pensare a formarsi una famiglia. Tutto è oscuro davanti a lui.
“A quel tempo – racconta nel suo “Il fabbro di Dio” – non avevo ancora formato alcun disegno per il mio avvenire. Ma il buon Dio ordiva la sua trama d’amore per me. Leggere mi è sempre piaciuto tanto, ma fino allora avevo letto quasi solo libri di avventure. Esauriti questi, mi posi a leggere i vecchi numeri di “Le Missioni Cattoliche” che la mia sorellina aveva accumulato in un cassetto del comò nella mia stanza. Bastò la lettura di alcuni episodi di vita missionaria per innamorarmi di questo ideale e accendermi in cuore un vivo desiderio di farmi fratello missionario.
In poco tempo lessi tutti i numeri della rivista che trovai nel cassetto. Leggevo con entusiasmo sempre crescente e mi infervoravo sempre più nella brama di volare in terra di missione. Non facevo che sognare le missioni. Quando vedevo un tramonto, pensavo che il sole allora discendeva a illuminare quelle lontane regioni, che già consideravo mia patria d’azione. L’asprezza della vita in missione e le lingue strane di quelle genti, niente mi faceva paura. Avevo già subìto tante privazioni e visto tanti popoli di svariate nazioni e colori, quindi ero già allenato al duro”.
Promesso sposo suo malgrado
Naturalmente, come ogni vocazione alla vita consacrata, anche quella di Felice non si realizza senza difficoltà e tentazioni. Il direttore e proprietario dell’officina in cui lavora intuisce che quel giovanotto serio e onesto è un buon partito per una delle sue tre figlie, la maggiore, una maestra che teneva la contabilità dell’azienda paterna, con la quale Felice aveva frequenti rapporti per motivi di lavoro; notava che quando per lavoro doveva recarsi in casa del direttore, la moglie e le figlie lo accoglievano con simpatia e cordialità e non capiva perché. Infine il direttore gli chiede chiaramente se vuole sposare sua figlia: “era un vero modello di grazia e di modestia”, scrive Felice.
Intanto la mamma, non sapendo ancora della sua “trepidazione” di farsi missionario, “con la delicatezza propria delle mamme buone”, gli dice che la casa paterna è ormai quasi vuota, fratelli e sorelle sono tutti sposati: rimangono solo lei, Felice e la “sorellina” (cinque anni più giovane di lui) che si sposerà qualche anno dopo. Mamma Maria resterà sempre col suo Felice, sia che si sposi, sia che resti scapolo.
“A me rincresceva per lei, ma per il resto nessuna cosa al mondo poteva abbattere la mia risoluzione di essere anch’io un giorno missionario, lontano, tra la povera gente ancora pagana e idolatra. Certo che questa ferma volontà la devo alla cara Madonna che vegliava sulla mia vocazione, altrimenti avrei capitolato”.
Così confida a mamma Maria che sarà missionario; lei gli dice:
“Bada che non sia un fuoco di paglia. Prega e anch’io pregherò per te, che abbia ad assicurarti della chiamata del Signore. Quanto a me, non voglio e non posso negarti il mio consenso”.
Come fare la domanda di ammissione al Pime? La “sorellina” gli consiglia di scrivere ad un sacerdote di sua conoscenza, che era stato missionario nell’Istituto. In pochi giorni riceve risposta positiva dal superiore generale, padre Giuseppe Armanasco.
“Recai la nuova al direttore dell’officina, per dargli tempo di trovarsi uno che prendesse il mio posto. Il buon uomo cascò dalle nuvole a sentire della mia vocazione e per più di due ore mi assalì con argomenti forti, alcuni dei quali mi toccavano sul vivo, cioè che ero crudele a lasciare la mamma sola e che ne avrei affrettato di dieci anni la morte. Non essendo riuscito nel suo intento, ritentò l’assalto con la mia cara mamma, per convincerla a distogliermi. Essa lo lasciò dire, ma non si lasciò vincere. La sua grande fede e il suo amore per il buon Dio ebbero il sopravvento sull’amore materno e su tutte le ragioni umane. Il direttore ritornò alla carica con me e mi disse che, facendomi missionario, mi troncavo una carriera e un avvenire felice, e che potevo avere in sposa la sua figlia. Tutti argomenti che mi cadevano nell’animo come frecce smussate”.
Nel 1956 Felice Tantardini ritorna in Italia dalla Birmania, per curarsi i piedi e per l’unico breve periodo di vacanza in patria in 69 anni di missione. A Introbio gli dicono che la ragazza che avrebbe dovuto sposare è morta da poco e non aveva contratto alcun matrimonio.
A 23 anni Tantardini entra nel Pime (settembre 1921)
Il 20 settembre 1921 Felice Tantardini entra nella casa madre del “Seminario lombardo per le missioni estere” in via Monterosa a Milano (2), accolto dal superiore padre Armanasco con molta cordialità: “Dì un po’, hai pianto stamane nel lasciare la tua mamma, nevvero?”. Dopo due settimane lo trasferisce nel seminario di Monza, dove bisognava fare anche lavori di fabbro. Mancavano però gli arnesi. Felice chiede il permesso di andare a casa per procurarsi i suoi ferri lasciati in officina. Arriva al paese verso sera, proprio mentre la gente usciva di chiesa. “E’ tornato Lice! E’ tornato Lice!” (così lo chiamavano) e la voce corre per tutte le case del paese. Povero novizio! Tutti pensavano che la sua era una vocazione lattemiele, svanita al primo incontro con l’Istituto.
“Forse anche la mamma ha qualche sospetto e mi chiede la ragione di questa improvvisa venuta e se sono contento della scelta fatta”.
Al sentire che il suo Felice non solo è contento ma veramente felice, incomincia a fargli domande, su quello che succede là dentro, che cosa fa, che cosa mangia, ecc. La sorellina pure pone le domande più curiose. Il giorno dopo è domenica, Felice si reca in chiesa per la messa e poi non può sottrarsi alle tante domande curiose con cui l’assalgono. In particolare ragazzi e ragazze insistono per sapere che cosa l’aveva spinto a farsi missionario. Felice semplicemente risponde: “Tale è la volontà del Signore e a Lui bisogna obbedire”.
Il giorno dopo ritorna a Monza con la cassetta degli attrezzi da fabbro e tra un lavoro e l’altro vi resta in tutto 10 mesi. L’unica vera crisi di vocazione che Felice Tantardini ha sperimentato la racconta lui stesso. Il padre spirituale del seminario filosofico, p. Virginio Rivellini (già missionario in Cina), ogni mattina dettava la meditazione ai chierici, ai quali si associava anche Felice. Le prediche erano sempre intonate a rigore e battevano di preferenza sulla vocazione missionaria, che dev’essere sincera e non fittizia.
“Una mattina questo tema toccò il colmo. Senza tanti preamboli, il padre disse chiaro che chi non aveva la vocazione doveva far fagotto e non stare nell’Istituto a mangiare a ufo il pane della carità. Da allora io non ebbi più pace. Il pensiero di ingannare i superiori era per me un delitto imperdonabile. Conclusi che se avessi dovuto lasciar l’Istituto, lo avrei ricompensato con i risparmi del mio lavoro per il vitto che mi aveva dato nel tempo di cui ero stato membro. Comunque, decisi di andare a consultare il detto padre spirituale, che era anche mio confessore.
Appena gli fui davanti mi chiese che cosa volevo. Gli esposi la mia ansietà di sapere se l’avevo o no questa benedetta vocazione missionaria, essendo essa una cosa che non si vede e non si tocca. Lui mi domandò come e quando mi era venuto il pensiero di farmi fratello missionario, e se avessi mai avuto anni addietro qualche velleità di farmi prete o frate. Gli raccontai la semplice storia della mia recente vocazione, senza precedenti di altre velleità. Stette un po’ a riflettere, e mi disse: “Tira avanti, poi vedremo”. Parole che non erano la esplicita e piena assicurazione che mi aspettavo. Ma né allora né poi osai chiedere altro e, nonostante che il mio cuore anelasse con tutta la sua forza a essere missionario, tuttavia dovetti rassegnarmi a restare su questo punto con un’ombra di dubbio.
Dopo sei mesi da quel giorno partii per le missioni e nessuno più mi parlò di vocazione missionaria. Sento però di averla sempre avuta e che, dopo 50 anni di vita missionaria, il buon Dio non me l’ha ancora ritirata la mia bella vocazione, e spero che vorrà lasciarmela fino alla morte”.
Il 24 giugno 1922 riceve dallo stesso superiore generale, padre Giuseppe Armanasco, la veste talare. Felice era contento della cerimonia e di quel segno della sua consacrazione; ma indossare la veste era per lui una vera penitenza, specie salendo e scendendo le scale. Per fortuna la doveva solo portare in chiesa e in comunità, nel lavoro ne poteva fare a meno.
Il padre superiore poi gli dice alla presenza di tutti: “Voglio mandarti presto in missione; quindi scrivi alla mamma che ti prepari un buon corredo”. I chierici protestano in coro: Felice dopo dieci mesi è destinato alle missioni mentre loro devono attendere tanti anni? Padre Armanasco replica: “Fate anche voi il fabbro come fratel Felice e manderò anche voi presto in missione”.
Fratel Tantardini è destinato alla missione di Toungoo in Birmania. Il 15 agosto 1922 si svolge la funzione di partenza e pochi giorni dopo distribuiscono ai partenti i passaporti vidimati con il visto per l’ingresso in Birmania. Ma quello di Felice non si trova: l’hanno perso! Un missionario anziano gli dice:”Buon segno! E’ il diavolo che ci mette la coda per impedirti di partire!”.
Infatti l’incidente si risolve subito. A Felice sono concessi 15 giorni da passare a Introbio, in famiglia, prima della partenza.
“All’ultimo giorno mi levai alle tre del mattino, dovendo trovarmi a Lecco alle sei per prendere il treno. La mia cara mamma volle preparare una tazza di caffè, l’ultima che prendemmo assieme: allora partire per le missioni voleva dire andare e non tornare più. Poi in ginocchio le chiesi la benedizione e dissi con un nodo alla gola: Arrivederci in Paradiso!”. Che momento! Solo il buon Dio può misurare questi dolori. Mio fratello e la mia sorellina mi accompagnarono fino a Lecco e vollero portare loro il pacco dei miei indumenti (andavano a piedi, n.d.r.). Prima di salire sul treno che mi portava a Milano li abbracciai e la ferita al cuore, ancora fresca e sanguinante, ebbe un altro strappo”.
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