ITALIANI AGLI STATI UNITI un’epopea raccontata dai documenti del Fondo AMM
L’emigrazione italiana verso l’America del Nord ha assunto, nell’immaginario collettivo, quella patina dolente e allo stesso tempo accattivante di un’epopea fatta di miseria e splendore, di nostalgia e speranza, di rassegnazione e coraggio, che ha segnato la nostra storia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Letteratura e Cinema hanno fatto la loro buona parte nella creazione del mito. Ma fermarsi alle emozioni che ancora oggi suscitano i ritratti dei nostri emigranti passati per Ellis Island oltre cento anni fa, non rende completa giustizia a una vicenda che ha profondamente segnato il nostro modo di sentirci italiani nei confronti del mondo e, nel bene e nel male, ha formato l’immagine che la società contemporanea anglosassone si è fatta di noi.
Il volume dal titolo Italiani agli Stati Uniti – Emigranti e coloni (MnM) presenta al lettore contemporaneo una serie di scritti dell’epoca (1894-1925) scovati nel Fondo dell’Associazione Mantovani nel Mondo (AMM). Testimonianze, idee, atti, relazioni di diplomatici, propositi e considerazioni di chi allora è stato chiamato a occuparsi del problema ; perché lo straordinario esodo è divenuto quasi subito un problema per entrambi i governi, ovviamente più per quello statunitense che per quello italiano (le prime leggi restrittive negli Stati Uniti sono del 1882). Ci si è resi conto di essere di fronte a un fenomeno culturale e sociale, oltre che a una questione di ordine pubblico da gestire con i classici metodi di controllo doganali.
I precedenti riguardavano la tumultuosa, feroce e per molti aspetti tragica emigrazione verso gli Stati dell’America del Sud, in piena espansione all’epoca. L’avventura nordamericana è tutta un’altra cosa. Si ha a che fare con il modello di società destinata, di lì a cinquant’anni, a conquistare e a dominare l’intero Occidente. Un nuovo mondo in tutti i sensi. Ecco allora, che anche la lettura dei due opuscoli di Istruzioni (1913) e Avvertenze (1904) distribuiti gratis a chi intendeva imbarcarsi per gli Stati Uniti e il Canada, diviene una finestra spalancata su quel nuovo mondo che li aspettava; dove anche il semplice elenco dei nomi delle navi transoceaniche sulle quali bisognava salire per emigrare è estremamente evocativo.
L’integrazione dei nostri emigranti nella nuova società anglosassone d’oltreoceano è stata la più tribolata, almeno nei confronti di quella irlandese, inglese, tedesca e scandinava. Solo i cinesi hanno fatto meglio di noi in fatto di chiusura, ma quella cinese è una civiltà millenaria che non ha nulla a che fare con la comune radice umanistica occidentale, e tutto si spiega antropologicamente.
Ben presto l’anomalia italiana è stata indagata e sviscerata, con l’intento di capirne le profonde cause culturali. Si sono poste domande precise sul paradosso italiano. Una su tutte: perché la massa degli emigranti del Sud Italia, in maggioranza agricoltori in patria, si è ammassata nei grandi centri industriali e portuali nordamericani, spesso in condizioni di isolamento e degrado materiale, quanto morale, invece di dirigersi verso la colonizzazione agricola degli ancora ampi spazi coltivabili del continente?
Si sono cercate delle risposte e di conseguenza delle soluzioni alle complesse questioni suscitate da un’emigrazione spesso schizofrenica. Non sono mancati i grandi progetti di colonizzazione agricola, condotti certamente con altro spirito organizzativo rispetto ai precedenti sudamericani, condizionati questa volta dal pragmatismo anglosassone, a volte dalle ambigue conseguenze, almeno negli Stati del sud dell’Unione. E non sono mancate le utili collaborazioni su progetti concreti tra le autorità italiane e quelle d’oltreoceano. In alcuni casi lo sforzo ha dato frutti, in altri è rimasto sterile. Ma è un fatto che si divenne consapevoli del problema e che bisognava affrontarlo; si era anche consapevoli che le istituzioni italiane si stavano muovendo con un ritardo di almeno vent’anni; lo avevano ignorato o sottovalutato al suo nascere, e questo aveva prodotto notevoli danni all’immagine internazionale del Paese. Molti, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento, si impegnarono per recuperare il tempo perduto; ci furono successi e fallimenti, ma almeno ci si mosse.
Alla fine, la Prima guerra mondiale, il successivo sovvertimento sociale e politico italiano, fino all’affermarsi del fascismo, e l’inarrestabile processo d’integrazione delle comunità italiane d’oltreoceano, cambiarono di molto l’approccio al problema, come si può dedurre dalla lettura delle ultime due testimonianze proposte nel volume (1925-26).
(Immagine d’apertura articolo:
Ellis Island, nel porto di New York – Luogo dove sbarcano gli immigrati
tratta dall’opuscolo:
Avvertenze per chi emigra negli Stati uniti e in Canada, 1904)
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© Vittorio Bocchi