L’Ospedale “Umberto Primo” di Montevideo non è più “Italiano” — Lombardi nel Mondo

L’Ospedale “Umberto Primo” di Montevideo non è più “Italiano”

“La storia dell’ospedale italiano cominciò con la costituzione dell’associazione, nel 1853, come detto, che nel 1881 passò a denominarsi “Comunità dell’ospedale italiano Umberto I”. L’edificio storico, progettato dall’ingegnere Luigi Andreoni, fu costruito con la generosità degli italiani di fresca immigrazione e al Regno di Sardegna. Di Silvano Malini

Montevideo – “È ufficiale: da martedì scorso, 21 febbraio, l’ospedale italiano Umberto I di italiano ha ormai solo il nome. Da decenni non aveva soci propri e non compiva la missione di curare la salute degli italiani. Ma almeno aveva una commissione direttiva che cercava di salvare l’istituzione dalla bancarotta per riportarla sui binari della solvenza economica. Ma il 21 febbraio i membri della direttiva si sono visti arrivare nelle loro case la risoluzione del Ministero dell’Educazione e della Cultura (responsabile dell’approvazione e del controllo delle associazioni con personalità giuridica senza fini di lucro) che li rimuove dalle loro funzioni, ovvero che scioglie l’associazione annullandone la personalità giuridica, scrivendo così la parola fine a una storia che comincia nel lontano 1853”. Ad annunciarlo è Silvano Malini dalle pagine de La Gente d’Italia, il quotidiano delle Americhe diretto da Mimmo Porpiglia.

“Ora la parola agli avvocati, che faranno ricorso poiché asseriscono che si tratta di un provvedimento indebito, giustificabile solo in caso di comprovato comportamento fraudolento”, spiega Malini nel suo articolo, che riportiamo di seguito in versione integrale.

“La storia dell’ospedale italiano cominciò con la costituzione dell’associazione, nel 1853, come detto, che nel 1881 passò a denominarsi “Comunità dell’ospedale italiano Umberto I”. L’edificio storico, progettato dall’ingegnere Luigi Andreoni, fu costruito con la generosità degli italiani di fresca immigrazione, insieme ad apporti dell’allora regno di Sardegna. Nel 1920 il re Vittorio Emanuele III promulgò una delega che dava pieni poteri di gestione alla Commissione Direttiva e all’organo sommo dell’associazione: l’assemblea generale dei Soci. Sin da allora l’ospedale italiano fu quindi governato dagli italiani.

Ma dopo l’epoca d’oro delle grandi ondate migratorie e con l’invecchiamento della collettività (che rendeva più necessario che mai un nosocomio deputato all’assistenza di una popolazione con un’età media sempre maggiore), il ruolo della Commissione si affievolì, limitandosi a un paio di riunioni mensili nelle quali la direzione esecutiva dell’ospedale aggiornava circa l’andamento dell’istituzione e faceva firmare documenti legali. La gestione si staccò a tal punto dalla Direttiva, che il presidente non entrava più nell’ospedale, ma firmava i documenti in un bar di fronte, secondo quando ricorda il membro della Commissione Renato Azzoni. Così cominciarono ad accumularsi i debiti, crebbero le rivendicazioni sindacali e l’italiano cominciò a fare acqua.

A partire dalla seconda metà degli anni ’90 le cose cominciarono inesorabilmente a degenerare e, alla fine del 2002, si arrivò a un virtuale fallimento, con l’avviamento di una pratica di concordato di creditori da parte della Liga de Defensa Comercial, a istanza di un laboratorio farmaceutico. Il presidente della direttiva a quell’epoca, Eduardo Rocca Couture, assicurava che l’ospedale aveva le difficoltà che in quei momenti di drammatica crisi economica avevano “tutti”: “ritardi con il personale e passivi con i laboratori, ma siamo arrivati a un accordo con i laboratori”, dichiarava al mattutino El País, “e ne abbiamo un altro con il personale, che determina che appena si concretizzi il negoziato con i laboratori cominci a riscuotere gli stipendi con normalità”.

Intanto, l’allora direttore Luis Fraschini assicurava al sindacato che l’accordo con la camera dei laboratori avrebbe permesso ai funzionari che non prendevano lo stipendio da 8 mesi che tutto si sarebbe aggiustato in gennaio.

Nel febbraio del 2003 un gruppo di persone della collettività (tra cui Bruno Motta, Renato Azzoni, Fiore Lelii, Rodolfo Faccini e Carlo Salvadori), attorno a Fraschini, ex ministro della Salute con esperienza in gestione di strutture sanitarie, decise di tentare di salvare l’istituzione dalla bancarotta, nonostante il passivo fosse molto pesante, anche perchè il sindacato di funzionari cominciava a farsi sentire, poiché i pagamenti degli stipendi erano irregolari.

L’ultima elezione di autorità decretò l’assunzione alla presidenza del dott. Jorge Massa, in quel momento direttore dell’ospedale, e quindi stipendiato, cosa che costituisce un’irregolarità statutaria, giacché nessuna associazione civile può essere diretta solo da soci che svolgano tale funzione in modo onorario.

Si organizzò un concordato di debitori, per poter rinegoziare il pagamento e prolungare la vita dell’ospedale e si cercarono contratti con terzi per assicurare l’operatività della struttura, coprire i costi ed assottigliare il deficit. L’impresa Universal fu per anni (ed è tuttora) la principale compratrice dei servizi, insieme a Cudam, aSSE, Servizio di trapianti renali, Sanatorio americano, Summum e Cosem. Per bonificare il giro di denaro necessario al pagamento degli stipendi, si decise di effettuare una triangolazione di pagamenti tra il Servizio di trapianti renali (Str), che apportava anche due o tre interventi giornalieri, molto importanti in termini economici, e alcuni soci, principalmente Renato Azzoni, attraverso la sua impresa. Il Str infatti pagava le prestazioni attraverso il Fondo Nacional de recursos con buoni che si riscuotevano in modo dilazionato, mentre l’ospedale aveva bisogno di denaro fresco. Azzoni lo metteva a disposizione e riscuoteva poi i buoni che gli girava l’ospedale. Intanto, Mario Bianchi, attraverso la ditta Coniglass, riceveva fondi con i quali pagava BPS e stipendi (ora è indagato dalla giustizia per arricchimento illecito…).

Così si andò avanti fino al 2009, con al massimo un mese di ritardo negli  stipendi. Ma i ritardi nei pagamenti a BPS, intendencia, etc, lievitavano e la situazione divenne insostenibile. Così si pensò di vendere la parte “nuova” e conservare quella storica, di Andreoni.

A questo punto si fece avanti il Ministero di Salute Pubblica, che assicurò che aSSE (amministrazione dei Servizi delle Salute dello Stato) si sarebbe potuto far carico della gestione. Dapprima il ministro Daniel olesker ipotizzò una gestione esclusiva da parte di aSSE, ma ben presto si inclinò decisamente per un’associazione pubblico-privata. I candidati privati erano il Sanatorio americano, il Circolo Cattolico e Universal, che fu scelta come partner dello Stato.

A quel punto il sindacato dei funzionari dell’italiano aveva preso partito decisamente per la soluzione statale, allettato dalla possibilità del personale di diventare impiegati pubblici, o almeno di conservare l’anzianità e i benefici ad essi connessa. Quando sfumò questa possibilità, cominciò la fase intransigente dell’azione sindacale, fino ad arrivare all’occupazione (settembre 2009), alla pressione presso le autorità statali e a manifestazioni pubbliche che gettavano un’ombra sull’Italia stessa, giacché si accusavano le autorità italiane (rappresentanti in Uruguay e governo nazionale) di non interessarsi delle sorti del loro ospedale.

La confusione, economica e giuridica, con vari processi a membri della direttiva, regnò sovrana fino al primo luglio 2010, quando il governo decise il commissariamento (la “intervención”) e nominò tre commissari plenipotenziari: Juan Dati, Francisco Amorena e Ruben Waisrub. Inizialmente, la durata prevista per il provvedimento era di sessanta giorni, implicava l’esborso di uno stipendio di $40.000 per ogni commissario da parte dell’ospedale ed aveva lo scopo di studiare possibilità di uscita dalla crisi. Ma poi il commissariamento durò un anno (si è concluso il 27 giugno scorso). Al momento dell’inizio del provvedimento, i debiti ammontavano a 472 milioni di pesos, l’87% dei quali erano verso organismi dello Stato (Banco de Previsión Social, intendencia e Ministero dell’Economia).

Intanto, il Comites, con l’Ambasciata d’Italia (prima Guido Scalici ed ora Massimo Andrea Leggeri) si muovevano per cercare di “salvare il salvabile” della parte socio-sanitaria, oltre a quella storico-patrimoniale, promuovendo varie riunioni, tra cui una con i commissari, affinché fosse spiegata alla collettività la situazione in modo chiaro ed univoco.

Il governo uruguayano si è mostrato sensibile alla legittima volontà degli italiani di conservare una parte importante del loro patrimonio storico e sociale e si prospetta la possibilità di creare una nuova associazione civile, amplia, secondo quanto hanno spiegato a Gente d’Italia la segretaria del Comites Filomena Narducci e il membro Elena Bravin, che si possa far carico in qualità di comodatario della parte patrimoniale, cioè della facciata che dà su avenida Italia, della cappella, di parte del salone. Così, almeno, questa parte sarebbe salva.

La situazione rimane confusa. Secondo i membri dell’ormai ex commissione direttiva, le cause dell’affondamento dell’istituzione sono da ricercare nella gestione ordinaria e l’unico loro peccato è stato quello di illudersi di poter fare qualcosa. Secondo altri è mancata trasparenza in seno alla direttiva. I giudici stanno indagando: alcuni sono stati già scagionati con formula piena, altri processi sono in corso”.

Di Silvano Malini

Fonte: aise

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