Crisi nel Mediterraneo. Il dubbio amletico sulla no-fly zone
Subito una no-fly zone, anzi, no… È uno dei dubbi amletici che la situazione in Libia suscita in Occidente. Per i meno informati, diciamo subito che per no-fly zone – zona di interdizione al volo – si intende una porzione di cielo sovrastante un territorio che, attraverso un costante pattugliamento aereo (caccia intercettori, ma, in caso di bisogno, anche caccia bombardieri) viene sottratta per un certo tempo al “sovrano territoriale” al fine di impedire qualsiasi attività di volo generata all’interno dell’area sottostante.
Nel caso della Libia servirebbe ad impedire al colonnello Gheddafi l’uso dell’aviazione per reprimere i rivoltosi, distruggere i depositi caduti nelle loro mani e danneggiare le fonti delle risorse petrolifere. Pur senza porre piede sul territorio, si tratterebbe evidentemente di una campagna bellica vera e propria, che richiede di affrontare preliminarmente tutti quegli interrogativi strategici, giuridici e anche etici che, in effetti, sono oggi oggetto di ampio dibattito.
Posizioni non univoche
Le posizioni dei vari leader occidentali e delle organizzazioni internazionali sulla no-fly zone non sono uniformi nel tempo, né brillano per coerenza e continuità. È un’interminabile altalena di affermazioni, smentite e attenuazioni che è invero assai difficile da inventariare. Anche se cambieranno ancora, possiamo tentare di riassumerle.
Il primo ministro britannico David Cameron ha recentemente dichiarato a Westminster che il Regno Unito e gli alleati stavano già pianificando una no-fly zone, all’attivazione della quale, ovviamente, erano favorevoli. Con maggiore cautela, anche l’Unione europea ha timidamente sposato questa esigenza, temperandola con l’affermazione che necessita del benestare dell’Onu. Ma nella risoluzione 1970 – successiva a queste dichiarazioni – il Consiglio di sicurezza si è guardato bene dal farne cenno.
Non stupisce che Cina e Russia, ognuna per timore di future interferenze nei loro confronti, non vedano affatto di buon occhio una no-fly zone sulla Libia. E, senza il loro consenso, una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza sarà impossibile anche in futuro. La Nato, per bocca del Segretario generale Anders Fogh Rasmussen, sembra raccogliere alcuni appelli a favore, ma anch’essa ritiene che, per passare a vie di fatto, serva un’autorizzazione dell’Onu. Di parere identico il neo-ministro degli esteri francese Alain Juppè, disponibile a esaminare tutte le opzioni – no-fly zone compresa – ma non ad intervenire senza mandato.
Anche negli Stati Uniti non sembrano essere tutti della stessa idea. Il generale del Central Command, James Mattis, ritiene che sarebbe un utile strumento di pressione nei confronti di Gheddafi, ma ammonisce che comporterebbe anche operazioni di attacco preventive, per rimuovere le difese. Salendo al livello politico, il severo Segretario di Stato Hillary Clinton e quello alla difesa Robert Gates, pur nella loro determinazione verbale, sembrano su posizioni non interventiste. A smentirli parzialmente è recentemente intervenuto (il 4 marzo) lo stesso Barack Obama, che si è mostrato possibilista anche su questa opzione, non escludendone alcuna altra.
Per quanto riguarda l’Italia, il ministro degli esteri Franco Frattini ha comunicato la volontà di mettere a disposizione le basi italiane per la no-fly zone, “perché non si deve dare tregua al regime di Gheddafi”. Questo, naturalmente, se un’apposita risoluzione viene approvata dal Consiglio di sicurezza, all’interno del quale, tuttavia, “… non c’è ancora una determinazione forte, a partire da Russia e Cina”.
I precedenti dei Balcani e dell’Iraq
Un’occhiata ai precedenti di questo tipo di operazione appare utile, se non altro per consentire un metro di valutazione dell’impegno operativo e del rapporto tra costo ed efficacia.
La prima esperienza di no-fly zone della Nato, tra il ’93 e il ’95, è stata l’operazione “Deny Flight” sulla Bosnia-Herzegovina, durata 983 giorni, che a sua volta era stata preceduta per sei mesi dall’operazione di ricognizione aerea “Sky Flight”, avente lo scopo di monitorare preventivamente il comportamento delle forze filo-serbe sul territorio.
L’operazione, che attraverso un alternarsi di azione aerea militare e di trattativa diplomatica, consentì alla fine la cessazione delle ostilità con la ripartizione del territorio secondo lo schema di Dayton, vide la partecipazione di 12 nazioni della Nato con velivoli schierati su 15 basi italiane, oltre che sulle portaerei. Quattro cacciabombardieri leggeri serbi che avevano cercato di levarsi in volo dal territorio controllato furono subito abbattuti dagli F.16 di Aviano. Nel complesso la missione richiese, nei tre anni, oltre 70 mila sortite aeree, di cui 23 mila dei caccia-intercettori, 27 mila per l’attacco al suolo e 21 mila per radar volanti, aero-rifornitori, trasporti, soppressione delle difese antiaeree e ricognizione.
Stesso sforzo, semmai superiore, fu fatto qualche anno dopo per il Kosovo: con attacchi aerei mirati si ottenne il ritiro delle forze serbe, ma non il collasso della Serbia e la caduta del suo presidente Slobodan Milosevic. A questo provvidero per le vie brevi i suoi connazionali, ma solo dopo qualche tempo.
Analoghe misure furono prese dagli americani dopo la guerra del Golfo del 1991: per oltre 10 anni fu interdetto al volo circa un terzo del territorio e dello spazio aereo iracheno per salvaguardare i curdi dai bombardamenti di Saddam Hussein. I dati, in questo caso, non sono noti. Per far cadere il dittatore iracheno, tuttavia, ci volle poi una guerra vera.
Se vogliamo tentare una misura dello sforzo che sarebbe necessario per la Libia, possiamo osservare quanto segue, lasciando poi al lettore ogni valutazione.
La Bosnia ha un’ampiezza di circa 50 mila chilometri quadrati, e si trova appena al di là dell’Adriatico. L’Iraq ha un’estensione di circa 435 mila chilometri quadrati, di cui solo un terzo (la fascia centrale) era da sorvegliare. La Libia ha una superficie di circa un milione e 750 mila chilometri quadrati, e sta al di là del Mediterraneo. Vogliamo sorvegliare solamente i 2 mila chilometri di costa, per una profondità di almeno un centinaio di chilometri? Allora si tratta solo di 200 mila chilometri quadrati, ma pur sempre quattro volte la Bosnia e un quarto più dell’Iraq. Ognuno faccia i suoi conti.
Che fare?
Quando si tratta di problemi umanitari – ma qui si vorrebbero anche preservare i pozzi di petrolio – le anime candide sono convinte che i costi non contino, ma di fronte a queste dimensioni qualche ragionamento conviene pur sempre farlo, guardando al futuro. La convinzione che Gheddafi fosse sul punto di crollare – in questo caso anche una limitata “spallata” sarebbe stata risolutiva – negli ultimi giorni è venuta meno. Si possono pertanto immaginare almeno due scenari.
Primo scenario: a Est una Cirenaica che, con tutti i suoi pozzi e le sue riserve, riesce ad affrancarsi e crea un proprio governo che viene riconosciuto e, a Ovest, un Gheddafi rinchiuso e vieppiù incattivito nella sua Tripolitania. A questo punto, anche la situazione sul terreno sarebbe chiarita. Secondo scenario: Gheddafi riesce a riprendersi la Cirenaica con tutte le sue risorse e tutto ritorna come prima, ma questa volta per un periodo limitato non solo dall’anagrafe, ma anche dallo stato di salute di un dittatore ormai delegittimato.
Al momento, sino a che non si arriverà a un chiarimento della situazione – che purtroppo costerà altri morti – e a meno di colpi di scena, l’evenienza di una no-fly zone sulla Libia resta assai remota, nonostante tutti, ciascuno con i propri distinguo, formalmente si dichiarino disponibili a sostenerla. Nessuno, per motivazioni diverse – e quelle dell’Italia sono davvero peculiari – al di là delle dichiarazioni ha un vero interesse ad accelerare un intervento militare che presenta troppe incognite.
In attesa di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza in favore della no-fly zone, che probabilmente non verrà mai, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha convocato per l’11 marzo un vertice straordinario dell’Unione “… alla luce dei recenti sviluppi nella regione del nostro vicinato meridionale, e in Libia in particolare”. Rimaniamo in trepida attesa.
Mario Arpino, già capo di Sma e di Smd, è presidente di Vitrociset S.p.A. (tecnologie avanzate, ingegneria logistica, spazio e reti digitali). Giornalista pubblicista, è membro del comitato direttivo dello Iai.
Mario Arpino
07/03/2011
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