1939 – 1945: La resistenza di Giuseppe Barbero prete – terza parte — Lombardi nel Mondo

1939 – 1945: La resistenza di Giuseppe Barbero prete – terza parte

Si è avviato presso il Tribunale di Mantova un procedimento per un processo intentato da 44 IMI, ex schiavi di Hitler. Prosegue la serie documentaria su questa ancora oscura pagina di storia e Resistenza

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Il cappellano militare Giuseppe Barbero ci ha lasciato un toccante memoriale sulla prigionia degli IMI nel Bacino della Ruhr. Ne offriamo alcuni estratti.

 

Nei campi di lavoro

Arrivò finalmente il giorno tanto atteso dello smistamento. Otto cappellani erano stati richiesti a prestare servizio religioso nei campi degli italiani: ero in lista.

Sapevamo di andare nelle zone industriali della Germania, dove non sarebbero mancate le sofferenze e c‘erano i bombardamenti…

Partimmo di buon mattino il giorno 8 dicembre 1943. Eravamo diretti a Dortmund, in Westfalia, nel cuore quasi della Ruhr famosa. A mezzanotte arrivammo alla stazione centrale della città di Dortmund. Tre chilometri ci separavano ancora dallo Stammlager VI D. Dovevamo percorrerli a piedi: ma chi ce la faceva? Indeboliti dal lungo digiuno, quel giorno non avevamo mangiato che un pezzo di pane al mattino. L‘altarino in altri tempi così leggero e che noi avevamo già ridotto allo stretto necessario, pareva pesasse una tonnellata. Ogni dieci passi cascavamo a terra. Finalmente la compassione intenerì quei cuori di pietra; potemmo salire sul tram. Allo Stammlager ci accolsero come cani disturbatori della quiete notturna. Fummo alloggiati in una vecchia e scassata baracca. Nostro giaciglio un tavolaccio, mentre quell‘unica coperta che avevamo, doveva ripararci dal gelido vento invernale, che filtrava da tutte le parti…

Il giorno dopo fummo immatricolati, e così diventammo dei numeri… N. 65345 VI D, era quello assegnato a me.

La Ruhr

Due giorni dopo l‘immatricolamento venne una sentinella a prendermi… Mi condusse a Hagen, al campo di lavoro N. 341, presso le fabbriche della Smidag [Schmiedag]. Trovai colà circa 400 italiani, e un dottore con il quale ci facemmo sempre ottima compagnia.

Hagen, come tutte le altre della Ruhr, è una città industriale, con 150.000 abitanti. Ormai non è che un cumulo di macerie.

Chi non ha visto e visitato la Ruhr non può farsi un‘idea di questa regione: forma un unico distretto industriale intensissimo. Tutto il sottosuolo è carbonifero. Miniere di carbone, fabbriche, ferriere, acciaierie sono agglomerati ovunque in grandi e piccoli centri. Vi sono fabbriche lunghe 15-20 km.: così ad esempio la Krupp di Essen, la Uetenverein [Hüttenverein] e la Sfinx di Dortmund, la fabbrica di benzina sintetica di Castrop, Rauxel, ecc. ecc.

I nostri internati

Rimasi in questo campo di lavoro fino al 20 marzo 1944.

Avevo il compito dell‘assistenza religiosa a ben 20 campi di lavoro, situati nelle vicinanze di Hagen. Pochissime volte però mi era concesso di visitarli, in molti anzi non vi potei mai mettere piede. Una sentinella mi accompagnava in queste visite, ed era armata di fucile con pallottola in canna e baionetta innestata, come se fossi un resto di galera. Proibito severamente camminare su i marciapiedi – i cani devono camminare in mezzo alla strada – eravamo soggetti sovente al motteggio e al disprezzo dei supercivili Tedeschi, che sputavano per terra al nostro passaggio.

Visitando questi campi di lavoro potei rendermi conto della tristissima e miserevolissima condizione toccata ai nostri soldati. Maltrattati, bastonati, disprezzati, dovevano lavorare 10 – 12 ore al giorno, tra la pioggia e il freddo lungo le ferrovie, tra le macerie delle città distrutte, o in fabbriche agli alti forni, al tornio, al trasporto materiale pesante, o nelle miniere, a centinaia di metri sottoterra, dove si respirava più polvere che aria. Mal vestiti, stracciati, la più parte passò tutto l‘inverno 1943 – 44 con una sola camicia indosso. Trecento grammi di pane con un rancio o due al giorno di rape, cavoli o spinaci era il loro vitto quotidiano.

È sera. I soldati sono arrivati stanchi e affamati dal lavoro. Vien distribuito il pane… è un bel filone di pane. Lo guardano, lo palpano, lo divorano con gli occhi. Dovrà però essere diviso in sette parti, e incomincia la difficile operazione. Il povero filone vien misurato, e poi tagliato in fette: le fette vengono pesate; si fa la conta per sapere a chi tocca ogni singola fetta o mucchietto di pane (anche le briciole sono state divise) e si finisce molte volte a pugni o a coltellate.

Morti di fame

Dal mio diario – 7 gennaio 1944: assisto oggi il primo di tutta una lunghissima serie di Italiani morti di fame. È notte, fredda e nuvolosa. Arriva un carretto, spinto da due italiani; sopra vi è il povero Giovanni Davanzo, privo di sensi. È di una magrezza spaventosa, una sola camicia ricopre quel corpo consunto dalla fame, dal lavoro, e dalle bastonate, mentre schiere di pidocchi la fanno da padroni indisturbati…

Arriva dal disgraziato campo di lavoro N. 338 di Kabel, dove tiranneggiano due soldati tedeschi esaltati oltre ogni dire. Da più giorni il Davanzo non si reggeva in piedi, la febbre lo divorava, ma doveva continuare a lavorare sotto i colpi di frusta, finché cadde sfinito sul lavoro. Muore dopo poco tempo fra le mie braccia senza più riacquistare i sensi. Una settimana dopo la stessa sorte tocca a Buchicchio Ramero, poi a Mecca Pietro…

In questo medesimo campo, alcune settimane più tardi, assisto un altro italiano a morire. I due forsennati tedeschi trovano nel portafoglio del morto un biglietto da due lire. Mi mandano a chiamare. „Un delitto. Tutto il denaro doveva essere consegnato.“ Se non mettevo una buona parola, avrebbero ancora sfregiato il cadavere.

Alcune statistiche eloquenti del campo di lavoro O.T.B. I. A dicembre 1943 vi erano 280 italiani. A maggio 1944: 38 erano morti di fame e bastonate; 80 erano tubercolotici; 100 erano malati o invalidi per disgrazie sul lavoro; 2 furono trovati morti in un gabinetto, dove erano stati rinchiusi per punizione.

Alle nostre proteste le autorità tedesche risposero una prima volta. „Voi non siete prigionieri ma internati, e perciò avete tutti i doveri del prigioniero, e nessun diritto del prigioniero.“

Un‘altra volta più gentili ancora: „Voi non siete prigionieri ma traditori.“ Ed io pensavo: „Se è così, che cosa riserverà a voi il Signore, avendo voi rinnegato ogni sentimento di umanità, e tradito Iddio, Gesù Cristo, la vostra religione, per aderire al razzismo?“

Solo i Russi erano trattati peggio di noi.

quarta puntata (Luigi Rossi, Bochum)

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