L’ITINERARIO IN TERRA TEDESCA DELLO STUCCATORE G. B. CLERICI DI MERIDE – Terza puntata — Lombardi nel Mondo

L’ITINERARIO IN TERRA TEDESCA DELLO STUCCATORE G. B. CLERICI DI MERIDE – Terza puntata

Ai lettori di www.lombardinelmondo.org proponiamo «L’itinerario in terra tedesca dello stuccatore G. B. Clerici di Meride» apparso in «Arte e Artisti dei Laghi Lombardi (gli stuccatori dal Barocco al Rococò)», Como 1964 – Società Archeologica Comense. Grazie alla corrispondenza di G. B. Clerici ci si trova nella quotidianità di questi artigiani e artisti itineranti.
L'ITINERARIO IN TERRA TEDESCA DELLO STUCCATORE  G. B. CLERICI DI MERIDE - Terza puntata

Heidelberg 1620

di Giuseppe Martinola

Dobbiamo saltare fino al 1715 per ritrovarlo a Eidelberga. Non si spingerà più verso il Nord, ma ripercorrerà quella stessa pianura dell’al­to Reno dove aveva incominciato, sia per esser più vicino a casa e farvi una scappata l’inverno, sia perché più frequenti erano le occasioni di la­voro e minore il rischio dell’avventura, e perché infine a conti fatti si gua­dagnava più che al Nord, come avvertiva chiaramente in questo passo: « E’ ben melio lavorar qui vicino che così lontano aver asai e dover far tanti viagi».

Ha con sé due nuovi scolari, sono Lorenzo Andreazzi di Tremona e Alfonso Oldelli appena giunto, al quale si impegna di «insegniarli quel tanto che so» ma l’esperienza lo fa prudente e aggiunge: «pur che la­sciasi insegnare». L’esperienza gli veniva dall’Andreazzi che si era di­chiarato «risolto a voler imparare la professione di stuco» e mostrava «bon genio», ma anche si mostrava «bisbetico» e riottoso e malcontento. Eppure il Clerici, trattandosi di un compaesano e orfano di padre, gli ave­va fatto condizioni di preferenza: come di tenerlo per quattro anni, tanto durava la scuola, «senza donzena», pronto anzi a passargli uno scudo la settimana, bastevole, a saper misurare il passo, ai bisogni indispensa­bili; e solo che mostrasse assiduità e docilità il maestro si impegnava a portarlo «fino all’intalio», nel caso contrario però era ben deciso a non portarlo oltre la «quadretura» cioè a non farlo «avanzare». Tutte cose che mandava a dire chiaramente alla madre dell’Andreazzi facendo a que­sto punto delle considerazioni che pare interessante riferire. Queste. Che i principianti non sapevan più adattarsi alla dura vita degli inizi e subito pretendevan paga da «andar galanti al par degli stucatori», si vergogna­van di mangiare alla tavola separata e pretendevan di seder coi maestri che pagavan due fiorini al giorno sull’osteria, finivan così per indebitarsi e poi riversavano ogni colpa sul padrone che «voleva la loro rovina». Il Clerici si risente, e in altre lettere invitava gli Oldelli a parlar chiaro per lui con chi voleva mettersi all’arte dello stucco: «Sàpino che bisognia star sotoposti e fare quale li vien ordinato e non eser capriciosi, e se si vole .imparare la profesione bisognia stare almeno quatro ani per niente e dico et ripeto acciò non abino poi ocasione di lamentarsi e darmi continui di­sgusti». Per quanto riguardava gli anziani, li rendeva avvertiti che se era vero che in Italia si lavorava «a bon mercato» e che in Germania si gua­dagnava di più, non credessero però di trovare il paradiso in terra: «si guadagnia, ma non al ingrosso come in patria si pensano, non la è così, bisognia anche qui saper sparmiare». E i salari? Il salario di uno stucca­tore finito, «cioè che lavora di tuto», avvertiva a sua volta Stefano Igna­zio Melchioni, era in quegli anni, per una stagione completa, da aprile a San Martino, di 180 talleri, pagabili a rate settimanali; quello di un prin­cipiante, continuava il Clerici, di 30 soldi milanesi giornalieri nella sta­gione buona, 25 nella stagione morta; mentre il salario di un semplice aiuto, lo «squadretore», si aggirava tra un fiorino e un fiorino e mezzo la giornata.

Ma ripigliamo la strada col Clerici, che nel 1715 ha due lavori in cor­so: una sala a Mannheim alla quale attende personalmente e un’altra a Grünstadt alla quale attendono i figli coll’Oldelli e l’Andreazzi che aveva messo la testa a partito.

L’anno dopo è a Strasburgo. Lavora in città nella sala di «un signore» e manda la maestranza a lavorare in un «castello», a due ore di di­stanza. Poi si mette in barca sul Reno, risale a Mannheim e passa a Eidel­berga nella certezza di poter «accordar alcune hopere»: però non può concludere il contratto e ridiscende a Strasburgo dove intanto il figlio è riuscito ad accaparrare lavori «in tre lochi». Per questo s’affretta a chia­mar aiuti dal paese, e invita Francesco Silva di Morbio Inferiore che si porti appresso alcuni giovani «che lavorino bene di scultura», perché lo stuccatore migliore, che ha con sé, non può farsi in quattro. Chi è? Per la prima volta compare qui uno stuccatore ben noto, Gasparo Mola di Col­drerio, che era ancora alle dipendenze del Clerici col quale, ma molto più tardi, farà società anche se non di piena armonia. Ha sempre accanto a sé il maggiore dei figli, Giovan Antonio, malandato in salute, che s’in­dustria a infranciosar alla più bella il suo italiano, cominciando dal nome che diventa Clerisì, ma concediamo alla sua penna di darci qualche no­tizia sul padre che scusa assente: «Li è gionto certe liberté di partirsi su­bito per Mannheim (era il luglio) dove li Calvinis si son resolu di far stu­chare la loro chiesa e sarà di riturno in 15 giorni», per dar subito mano a «un para di stanze che un richo oste vol far fare di stucho», s’intende a Strasburgo.

Accordò il Clerici il lavoro coi “Calvinis”? Non lo sappiamo. Fino al novembre dell’anno dopo, 1716, perdiamo ogni notizia di lui, quando il Mola informa che sta lavorando col padrone a Durlach nella residenza del Principe, e prevede che i lavori dureranno fino all’agosto, come fu, quan­do vennero improvvisamente sospesi. Onde il Clerici: «Se Dio non pro­vede altro saremo presto tuti in patria», anche perché il Principe da un pezzo non si decideva più a pagare. Mezzo disperato infatti il Clerici completava: «Fan presto tre mesi che non si è veduto un soldo». Ma Dio provvide, sia pure in altra direzione, e gli procurò un lavoro di sei settimane a Karlsruhe, da tirare avanti, nell’attesa che il Principe si deci­desse a far il suo dovere e a riprendere i lavori di Durlach, che premevano assai al Clerici che osservava: «Vi saria molto da fare e l’opera è grande».

Ma ogni cosa, ancora una volta, copre un silenzio di quattro anni. Viene il 1721 e il Clerici è a Mannheim, alle prese con un lavoro urgente e un altro imminente, quello di Darmstadt, i cui lavori dovevano inco­minciare subito dopo Pentecoste come all’ordine datogli dal «sig. inge­niere». E quindi impaziente chiamava Pietro Francesco Vassalli di Riva, che non rispondeva; non si faceva vivo neppure il Gorini di Bizzarone, segno che era già «in campagnia», e allora ordinava alla moglie An­gela Maria che reclutasse un paio di giovani esperti e li facesse partire subito, senza star troppo a discutere sul prezzo.

E ormai il Clerici, da Mannheim, per quel che si può ricostruire dalla sua corrispondenza, che registra però ampie lacune, non si allontana più se non per lavori che sembrano minori, maggiore restando quello della residenza del Serenissimo a Schwetzingen e a Mannheim, al cui servizio lo troviamo fino al 1730.

Riferiamo le informazioni dirette.

Nel febbraio del 1725 il Clerici è intento a terminare una sala, a Schwetzingen, che deve consegnare entro la fine di aprile. Scrive al Mola, che è rimpatriato, perché gli dia una mano. Col Mola probabilmente aveva lavorato la stagione prima, se, tornando a Coldrerio, lo stuccatore aveva lasciato il suo «fagoto» a Schwetzingen; e il Clerici, incaricato di man­dar quella roba «a Holmo», forse Ulm, soprassedeva all’invio aspettan­do il compagno. Che non dovette però accogliere l’invito, se il Clerici approfittò del passaggio di Alfonso Oldelli e di un altro stuccatore di quella famiglia, Giovan Antonio Oldelli, del ramo trapiantato a Men­io, per trattenerli. Giovan Antonio aveva già un impegno per Praga e tirò via diritto. Invece, per qualche settimana, si fermò Alfonso.

Intanto il Clerici accordava opere di stucco anche per 1’orangerie, che l’occupò fino alla fine dell’estate, quando i lavori furono interrotti. Ma egli mirava all’impegno più grosso, il «castello» o residenza dell’E­lettore, che i sovraintendenti «signor de Dalenberg, signor de Meieberg e signor de Kagenet», probabilmente l’architetto quest’ultimo, gli avevan promesso fin dal febbraio e comprensibilmente impaziente e preoccupato, sollecitava una visita del primo Ministro del Principe per la firma del contratto. Le notizie che ci vengono dal Clerici a questo proposito sono alquanto frammentarie, e non risulta con certezza se i lavori furono in­cominciati subito e poi sospesi o rimandati ad altra epoca.´

Alla fine del mese di maggio del 1726 il Clerici distacca la sua mae­stranza a Francoforte in Brisgovia, per lavori concordati col de Kagenet, di una durata prevista fino alla chiusura della stagione. Egli non può sovrintendere personalmente a quell’opera e la affida al figlio, che precede di qualche giorno a Francoforte per preparare «i disegni et informarlo di quelo à di fare»; premendogli di ritornare subito a Mannheim e assi­curarsi, o riassicurarsi, i lavori imminenti del castello, contando sulla buona disposizione del Conte Wiser («ora sarà tutto con altra regola») e del nuovo architetto, che nomina: «il signor Fromon di Bona». Ha già pronto i disegni da consegnar al Conte perché li sottoponga all’approva­zione del Serenissimo, fra i quali ci sono anche questi: «della capella che ò fato con quelli della sala, fati di novo a 2 maniere per le muralie, mentre la sofita vien tuta dipinta». Deve però interrompere i lavori dell’Orange­rie che duravano dall’anno prima, ed eccone la ragione: «Qui non posso proseguire 1’orangeria ateso l’hanno di bisogno per l’arivo del Eletore di Colonia, che l’aspetano questa sera (29 maggio del ’26) e sino non sarà partito non si potrà lavorare. Ora lavoriamo nel pavilione che la setimana presente sarà finito». Nell’agosto del ’30 è ancora a Mannheim, di ritorno da Meride, che fu una delle sue più penose trasferte, avendo voluto met­tersi in viaggio che non era ancora guarito. La febbre non l’ha lasciato un momento, ci dice. Giunto a S. Blasi (Skt. Blasien) gli tocca «far disegni e conti con la gente», cioè con la maestranza, e appena può tira diritto per Mannheim dove lo aspetta un gran da fare: «Ho trovato tanto da fare et a pena haveva di scrivere in molte parte per haver gente per il bi­sognio che porta di finir li scaloni et entrada che sono tuti voltati diferenti di quelo che erano, e per aver cominciato tardi era necessario d’aver gente asai, benchè il signor Pocci [Pozzi] habia fato la sua parte per ha­cere l’opera con dire che io era malato e che non poteva venire». E’ una estate bizzarra, che alterna a piogge violente giornate di fuoco e poi venti gelidi, si sente debole nel corpo, la febbre non lo vuol lasciare. «Ancora l’altra sera è tornata, ma non ò tempo d’ascoltarla, se ne torni per li fatti suoi». La colpa sarà della stagione, ma anche degli anni. Non sono molti in verità, ma da certi incomodi che denuncia si direbbe che per lui la vecchiaia sia giunta in anticipo. E’ però sempre un gran lavoratore, rispet­tosissimo degli impegni assunti, il senso del dovere nel vecchio Clerici non piega: anche se con la febbre addosso deve provvedere a un altro la­voro faticoso: «Devo far levare li ponti e far netare per l’arivo in Ma­nheim di S. M. il Re di Prussia con il nostro Serenissimo Elettore, che la città è tutta in arma». Poi riapre la lettera per questa postilla: «Egli è gionto 2 hore avanti mezo giorno a tiro di canoni et de soldati con il suo prencipe ereditario, con grande magnificenza, e tuta la cità li ha fato grandi honori». Ancora aggiunge: «Non ò più tempo». E non ne ri­serba più neppure a noi. Infatti è la sua ultima lettera che possediamo.

 

Fine terza puntata

A cura di L. Rossi (Bochum)

www.luigi-rossi.com

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