Quando le nostre valli erano il “sud” — Lombardi nel Mondo
Quando le nostre valli erano il “sud”
Fra i santi che hanno un particolare legame con la terra lariana e quindi lombarda, pochi sanno che va annoverata – molto insolitamente – una santa che invece non è mai stata tra noi, un’eremita che non si è mai mossa dalla sua grotta del Monte Pellegrino, vicino a Palermo: santa Rosalia.
Eppure è una presenza “di casa” nell’alto Lario, molto cara alla devozione popolare, testimonianza dell’antico legame tra questa zona e la Sicilia – dove molti emigrarono, nei secoli XVI, XVII e XVIII. Al recupero di questo interessante aspetto della fede e della devozione delle nostre genti, sta lavorando da anni un sodalizio comasco, l’Associazione Iubilantes, nell’ambito di un progetto culturale che si avvale del patrocinio e del sostegno della Regione Lombardia e della Provincia di Como nell’ambito delle attività dei rispettivi Assessorati alla Cultura.
Perché Santa Rosalia?
Non sono molte le notizie sulla vita di santa Rosalia, tranne quelle poche trasmesse da antiche e scarne fonti, che risalgono comunque a diversi secoli dopo la sua esistenza terrena. La tradizione vuole che Rosalia Sinibaldi, nata a Palermo e vissuta fra il 1130 e il 1170, abbia dimorato come dama di compagnia alla corte della regina Margherita, moglie del re Guglielmo I di Sicilia. Rosalia fu pertanto spettatrice di tutti gli avvenimenti della Corte, e nel 1161, anche dell’assalto e del saccheggio della reggia, della temporanea cattura del Re e dell’uccisione del piccolo erede Ruggero. Fu probabilmente dopo questo triste avvenimento che Rosalia chiese di essere lasciata libera per ritirarsi nel silenzio e nella preghiera. Altre fonti indicano tra i motivi di tale scelta, la fuga da un matrimonio che il padre le avrebbe imposto e che lei avrebbe rifiutato fuggendo. Ricevuto in dono dalla regina il monte Pellegrino, vi si ritirò a vita eremitica in una grotta presso una antica chiesetta bizantina, dove morì, sempre secondo la tradizione, il 4 settembre del 1170.
Nell’ottobre del 1623, si racconta che santa Rosalia apparve ad una donna gravemente ammalata e, dopo averla guarita, le ordinò di andare in pellegrinaggio alla chiesetta sul monte. La donna vi si recò nel maggio dell’anno successivo e nei pressi della grotta le riapparve la santa che le indicò il luogo preciso della sua sepoltura, assicurandole che, portati in processione i suoi resti mortali per la città, la peste che infuriava a Palermo sarebbe cessata. Il ritrovamento del corpo avvenne il 15 luglio 1624 e l’Arcivescovo della città, Cardinale Giannettino Doria, con una commissione di periti e teologi, si pronunciò per l’autenticità delle reliquie. Il 7 giugno dell’anno successivo i suoi resti furono portati in processione per le vie della città. Il miracolo avvenne: Palermo fu liberata dal contagio e Rosalia da quel momento fu la “Santuzza”, amatissima protettrice della città. Eventi straordinari, cantati recentemente anche da Mario Luzi, poeta di intensa spiritualità, nel suo splendido “Corale della città di Palermo per Santa Rosalia”.
Nel 1630 Urbano VIII, dati i prodigi e i miracoli avvenuti per intercessione della Santa, inserì il nome di Rosalia nel Martirologio Romano. La devozione popolare verso la “Santuzza” non si è mai affievolita e trova la sua massima espressione nell’annuale “Festino”, che inizia il 10 luglio e si protrae per cinque giorni e nel pellegrinaggio al Monte Pellegrino.
Santa Rosalia, protettrice dalla peste, si festeggia il 15 luglio, anniversario del ritrovamento del corpo, e il 4 settembre, giorno tradizionale della Santa. È raffigurata con abiti eremitici, una corona di rose bianche che le cinge il capo, attributo scelto per l’assonanza con il nome, accanto ad un Crocifisso e un teschio, a ricordo della sua vita da penitente.
Chi è stata santa Rosalia, al di là delle leggende che la accompagnano?
Una donna laica, non legata ad alcuna regola monastica, forte e coraggiosa, che non esita a lasciare gli agi della corte per ritirarsi dal mondo, su una montagna che si innalza verso il cielo, tra la natura, per incontrare Dio nella solitudine e nella contemplazione, attraverso il silenzio, la preghiera e la penitenza. Una figura di donna decisamente controcorrente.
Tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XIX, un vasto fenomeno migratorio ha interessato le valli lariane e soprattutto l’Alto Lario occidentale, in particolare la fascia montana delle “Tre Pievi” (Gravedona, Dongo e Sorico) e in parte la Valchiavenna. I migranti erano commercianti o maestranze qualificate, in particolare scalpellini, orefici, filatori e tessitori che si recavano in luoghi lontani per “fare fortuna”. Meta di emigrazione per queste genti fu soprattutto la Sicilia, e in particolare la ricca Palermo. Gli immigrati altolariani, giunti nella città siciliana, nella “regia urbs”, si organizzavano tra loro, stabilendo reciproci legami di carattere economico, legale-amministrativo e solidaristico. In particolare, gli emigrati di ogni paese si riunivano in confraternite laiche dette “scholae” – scuole -, intitolate al santo protettore della loro chiesa lontana, a cui si iscrivevano “per loro devozione, per la maggior gloria di Dio, per la salvezza delle loro anime”, versando una quota in denaro. Queste confraternite, regolate da appositi statuti, funzionavano spesso da “società di mutuo soccorso” per un concreto aiuto agli iscritti in caso di difficoltà e per mantenere viva l’identità e la coesione dei gruppi di emigrati, nonché il legame con la patria lontana. Infatti, coloro che ritornavano nei luoghi di origine, si riunivano a loro volta presso la chiesa del paese in una simile confraternita, significativamente intitolata “Schola Panormi”, Scuola di Palermo, in stretto contatto con quella siciliana, dalla quale spesso riceveva cospicui finanziamenti.
I singoli emigrati, poi, frequentemente mandavano forti somme di denaro alla chiesa o addirittura la beneficiavano con lasciti testamentari per restauri, affreschi, acquisti di terreni e inviavano anche oggetti liturgici e arredi sacri. Questi doni costituiscono una forte testimonianza di una fede profonda e di un forte attaccamento alle proprie origini e nel contempo rappresentano un documento davvero prezioso di un periodo durissimo in cui le popolazioni delle valli lariane potevano migliorare le loro condizioni di vita solo grazie all’emigrazione.
Dopo il miracolo compiuto a Palermo da Santa Rosalia, nel secolo XVII, il culto della vergine palermitana protettrice dalla peste, adottato dagli emigranti lariani in terra di Sicilia, viene trapiantato anche in Alto Lario, dando vita ad un’intensa devozione popolare. Gli emigrati si adoperavano per ottenere reliquie della santa da inviare al paese di origine, perché anch’esso venisse protetto nell’eventualità di un contagio.
Già nel 1626 a Brenzio arriva un pezzo di osso di Rosalia, corredato del suo documento di autenticazione rilasciato dal Vescovo di Palermo e dal re di Sicilia. Vercana, ottiene una simile reliquia nel 1628, Montemezzo nel 1632, Dosso del Liro non molti anni dopo perché il relativo reliquiario porta la data del 1642; in seguito giungono resti della santa anche a Livo, dove il reliquiario è datato 1706, a Germasino, a Caino e a Trezzone.
Molte parrocchie decidevano di celebrare con solennità ogni anno la festa di Rosalia, fissata il 4 di settembre, come Montemezzo, dove tale festività fu però ostacolata dai vescovi di Como perché la processione con i resti della santa si svolgeva, pare, in modo disordinato e disturbata dagli spari dei mortaretti (forse come ricordo delle feste palermitane) e perché in seguito andò perduta l’autenticazione della reliquia.
Un’altra testimonianza della forte devozione verso questa santa subito “adottata” dalle nostre genti è data anche dal vasto patrimonio artistico, costituito sia da opere di maestri locali, sia da un folto numero di opere d’arte di provenienza siciliana, che gli emigranti facevano a gara a donare per arricchire le loro chiese. Tra questi doni, spesso ex-voto, spiccano splendidi reliquiari in argento, paramenti, oggetti sacri di oreficeria, lampade, medaglioni, croci, baldacchini e la bella tela di santa Rosalia opera del seicentesco pittore siciliano Pietro Novelli, probabile ex voto di un ricco emigrato lariano in Sicilia e conservata nella chiesa Parrocchiale “nuova” di S. Giacomo a Livo.
Il culto della Santa si radicò talmente da lasciare tracce anche nei nomi femminili, nel dialetto, nelle usanze, nei gioielli e nell’abbigliamento.
Molto significativo, a questo proposito, è il costume tradizionale indossato dalle donne altolariane fino all’inizio dell’Ottocento come segno di devozione a Rosalia. Si tratta di un vestito di panno marrone, dall’ampia gonna arricciata, allacciato sul busto da nastri. Le maniche colorate, hanno risvolti di raso ricamati e sono attaccate ad un giubbetto sottostante. Completano l’abbigliamento una lunga camicia bianca con larghissimo collo e polsi arricciati, arricchiti da pizzi e ricami che sporgono dall’abito; uno scialletto triangolare a frange, lavorato a rete in colori vivaci; una cintura alta di cuoio nero o marrone con fibbia in ferro e un cappello di feltro nero ad ala tonda. Come ornamento, i tradizionali grandi orecchini d’oro ad anello, con inserita a traforo la R di Rosalia, la M di Maria, l’immagine intera della Santa o l’aquila bicipite (marchio dell’Opera del Duomo di Palermo) e una collana di grani di corallo alternati a sferette d’argento a filigrana. Questo costume insolito ed originale, è noto come abito “delle Mondunghe” (delle abitanti dei monti di Dongo) o “delle Moncecche” (delle abitanti dei monti dei Cecchi, ovvero dei Franchi, seguiti alla dominazione longobarda) e, almeno nella sua forma più semplice, si ispirava a quello indossato a Palermo dalle “pinzocchere”, le devote a santa Rosalia, che a sua volta si rifaceva al severo saio eremitico della “Santuzza”. Questa rozza tonaca è stata poi abbellita e arricchita da una serie di elementi decorativi cari alla vanità femminile.
Silvia Fasana – Associazione Iubilantes
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