Felice Tantardini. Ricostruire dopo la guerra — Lombardi nel Mondo

Felice Tantardini. Ricostruire dopo la guerra

Pubblichiamo la quinta puntata dedicata alla storia del missionario comasco Felice Tantardini, raccontata nel libro di Piero Gheddo “Il santo col martello. 70 anni di Birmania, storia e vita missionaria”. Editrice Missionaria Italiana

Quando alla metà del 1945 i giapponesi si ritirano dalla regione dei cariani, fuggendo verso la vicina Thailandia, Felice corre a Toungoo incontro alle truppe inglesi. Riesce a trovare il cappellano cattolico e gli racconta le fatiche ed i pericoli che i missionari e le suore, con i loro orfanelli, hanno vissuto in foresta per lunghi mesi. Ora vogliono ritornare a Toungoo ma non hanno casa: tutto è distrutto dai bombardieri alleati. Il cappellano fa assegnare ai missionari e alle suore due belle case di legno, a due piani, in un sobborgo della città e procura loro un mezzo di trasporto per il trasloco.

Materiale di guerra usato per opere di pace (1945-1946)

Incomincia un nuovo periodo della vita di Felice Tantardini: la ricostruzione e il riciclaggio del materiale di guerra per opere di bene e di pace. Quando padre Ziello, Felice e le suore con le loro ragazze e gli orfanelli, si sistemano a Toungoo, gli ufficiali e i militari, cattolici e non cattolici, mostrano loro molta simpatia e li aiutano con cibo e stoffe.

Felice, che conosce la squallida miseria della gente sui monti, si mette a mendicare dall’esercito vestiti usati, zanzariere, ombrelloni dei paracadutisti, tende, ecc. Gli danno la libertà di prendere tutto quello che le forze armate buttano via, materiale sbrindellato, sporco e puzzolente, sistemato in sacchi per essere bruciati; e gli danno pure un mezzo per portare questa roba alla missione. Col sapone ricevuto in abbondanza da militari indiani, con i quali soprattutto ha fatto amicizia (parlava hindi!), lava quella montagna di stoffe varie e le asciuga al fuoco o al sole.

Così, con tanta fatica ma altrettanta gioia, Tantardini ricupera materiale che sarebbe stato buttato via o bruciato e aiuta molta povera gente dei monti. Anche lo scatolame, che i militari danno senza risparmio, è mandato da Felice ai padri dei monti e al vescovo, il quale non vuole ritornare subito a Toungoo, dove sarebbe stato più sicuro, ma rimane sui monti a condividere le ansie e gli stenti dei suoi missionari. I giapponesi, umiliati della sconfitta, erano arrabbiati con tutti: incontrarli non era simpatico. Mons. Lanfranconi rimane latitante nei boschi per più di tre mesi, in una capanna, solo con un ragazzo, vivendo di quello che la gente gli portava. Non fu mai scoperto dai giapponesi e nemmeno altri padri e suore ebbero a soffrire qualcosa di serio.

Episodio curioso. A Toungoo fratel Tantardini, non avendo altri abiti, si veste da militare dalla testa ai piedi, tanto che, dice,

“più di una volta dagli inglesi fui scambiato per un loro compatriota: mi chiedevano addirittura da quale provincia d’Inghilterra io provenivo!”.

Ogni giorno Felice doveva recarsi a due chilometri di distanza per ritirare la razione di cibo che i militari avevano assegnato ai missionari. Una volta mentre ritorna a casa con il cesto dei viveri sulla testa, incontra una camionetta guidata da un ufficiale, che egli saluta con un bel sorriso. L’ufficiale ferma la macchina, l’invita a salire e gli racconta la sua storia: è un ebreo, un maggiore dell’esercito inglese, che chiede a Felice se conosce qualche ebreo in città; il fratello lo porta dalle suore che avevano accolto una piccola orfana figlia di una famiglia di ebrei. Diventano amici e il maggiore ottiene una razione più abbondante di cibo, non solo ma servita a domicilio (“il che mi risparmiava il quotidiano viaggetto di due chilometri”, commenta Felice).

A richiesta di p. Ziello, i due cappellani riescono a far avere degli aiuti in denaro per restaurare la chiesa sfasciata dalle bombe e anche un po’ di legname e di chiodi autentici (introvabili nel mercato birmano), per ricostruire la casa del vescovo e l’orfanotrofio. Addirittura, i due cappellani ottengono dal generale comandante del campo base di Toungoo che la chiesa venga restaurata dai militari, sotto la direzione di un maggiore irlandese cattolico. Ma a Felice la chiesa non basta. Ricorre ad uno stratagemma.

“I soldati risiedevano in un quartiere alla periferia della città, quindi ogni mattina dovevano portarsi i loro attrezzi e il materiale da costruzione con i loro autocarri e alla sera riportavano tutto indietro. Io mi offrii di alleggerirli di questo disturbo, facendo da guardiano durante la notte: accettarono volentieri. Quando smettevano il lavoro, cioè alle quattro del pomeriggio, io mi trovavo puntuale sul posto e, appena loro erano partiti, cominciavo il mio lavoro per la casetta dei padri. Chiodi e attrezzi lasciati là, e anche il legname, su tutto mettevo mano liberamente, senza perder tempo, e lavoravo finché era chiaro.

Il mattino successivo, quando i soldati tornavano a lavorare e trovavano mancante il legname, andavano subito a rifornirsene senza mai chiedermi conto di quel che mi avevano lasciato in custodia. Per il vitto, a pochi passi della chiesa c’era una baracca costruita dai militari per la mensa degli ufficiali. Il cuoco – un indiano cattolico – mi mandava cibo bastante per tre: pane, biscotti, carne, caffè e latte, persino il tabacco per la mia pipa. In tre settimane (un vero record!) i militari finirono i restauri della chiesa e io finii il baraccone per i padri, il tutto senza spendere un centesimo. Lo stesso generale veniva ogni tanto ad ispezionare i lavori in corso”.

Quando si inaugura la chiesa restaurata e la casa del vescovo, il generale manda un piccolo aereo a Loikaw a prendere il vescovo e portarlo a Toungoo per la funzione; e presenzia al solenne pontificale con un libro liturgico in mano e un ufficiale cattolico al fianco che gli spiega i diversi significati del rito. Avendo mons. Lanfranconi perduto il suo pastorale, i soldati gliene fanno uno in legno, che il vescovo conservò sempre come una reliquia.

Nel novembre 1945 le autorità coloniali inglesi dichiarano che la guerra è finita e cessa il potere delle forze armate. Si ritorna alla normalità. Ma per Felice incomincia un nuovo lavoro che lo impegna in una corsa contro il tempo, prima che altri si impadroniscano del materiale abbandonato dagli eserciti combattenti. Visita i campi dei giapponesi e delle forze alleate, raccogliendo tutto quello che può ancora servire: rottami in ferro di macchine (autoblindo, camion, carri armati, armi automatiche), castelli di ferro che servivano per i serbatoi d’acqua delle missioni demoliti dai giapponesi, lamiere e filo spinato usati per cintare le zone militari (dal filo spinato Felice ricava chiodi di tutte le dimensioni), persino resti o parti di cannoni e mitraglia, ecc.

Ottenuto il permesso dalle autorità, cerca due carri a buoi e porta a casa tutti i ferri vecchi che trova: alcuni in buone condizioni, la maggior parte storti, ferri ad angolo e a T di varie misure, putrelle di 10×15 cm., bacchette di ferro lunghe anche 10 metri, bossoli di bombe, ecc.

“La catasta sembrava una montagnetta. Io ne ero deliziato pensando ai tanti lavori che avrei potuto fare con quel materiale. Il vescovo, che era sui monti, arrivato a casa e vista la montagnetta, esclamò sorpreso: Ma cosa te ne farai poi di tutta quella montagna di ferraglie contorte?”. Gli risposi, che i miei muscoli non ne avevano paura e che presto avrebbe visto come quella ferraglia sarebbe stata mangiata” da me. Mi guardò in faccia e sorrise.

Difatti bisognò cominciare subito a fabbricare, cioè ricostruire case e scuole, per noi e per le suore. Decisamente mi rimboccai le maniche per questo lavoro, che fu davvero febbrile e si protrasse per più d’un anno. Ora che ci ripenso, sento che soccomberei se dovessi rifarlo. Ero da solo a fare e dirigere e procurare tutto il materiale necessario. Anche dopo, rimasi alcuni anni a Toungoo, sempre oberato di lavoro per costruzioni in legno e mattoni”.

Il Giubileo d’argento: Felice profuma d’incenso (1947)

L’anno 1947 segna il Giubileo d’argento di vita missionaria di fratel Felice: 25 anni di Birmania. Lasciamo raccontare a lui stesso i festeggiamenti di questa data memorabile:

“Avrei voluto commemorare la mia ricorrenza in silenzio, pensando solo a ringraziare il buon Dio e la Madonna di avermi concesso questi 25 anni al servizio dei cari missionari, e poi fare un serio esame di coscienza per vedere un po’ profondamente come avevo usato tanti tesori di grazie. Ma non potei passarla liscia. Nonostante le mie proteste, il parroco di Toungoo, che era p. Pasquale Ziello, volle fissare la mia festa giubilare al 3 ottobre, festa di S. Teresa di Gesù Bambino, patrona delle Missioni. A malincuore dovetti prendere posto nel presbiterio, in veste talare e cotta, sull’inginocchiatoio del vescovo (a quel tempo in Italia), durante la Messa solenne. Era venuto per l’occasione il p. Alfredo Cremonesi, che celebrò la S. Messa e tenne il panegirico della Santa. Ma lui lo stravolse, facendo un parallelo tra Santa Teresa e me, sebbene un po’ alla larga. Immaginarsi la mia confusione!

La chiesa era piena zeppa di gente, io ero conosciuto da tutti come il fabbro della missione e ben poco di più. La sproporzione tra la Santa e me era troppo grande e lampante. Io avrei voluto lasciare la chiesa per tornarvi dopo la predica, se avessi potuto farlo senza essere visto. Però alla fine il predicatore ebbe un bel pensiero, che mi consolò alquanto. Richiamò la distruzione fatta dalla guerra, pochi anni addietro, di tutti i fabbricati della missione – che in tanta misura erano anche opera mia – e osservò che non fu senza uno speciale significato il fatto che, in tutto quel tragico periodo, su tutte quelle rovine, rimase in piedi solo la croce di ferro, alta sul campanile, opera delle mie mani. Ecco, fratel Felice, – egli concludeva – le tue opere, quelle passate e, chissà, magari anche quelle future, potranno, sotto la furia devastatrice del tempo, andare in rovina, ma resterà in alto la croce, quella di Gesù e la tua, fuse in una. Il merito e il frutto dei tuoi sacrifici non perirà”.

Poi, ad un certo punto della Messa, il p. Ziello mi si fece davanti con il turibolo e mi incensò. Fu il colmo della confusione per me. Lui mi fece l’inchino prima e dopo l’incensazione, ma io restai in piedi mortificato, con gli occhi bassi (guai se ci fossimo guardati!) e non feci inchino né prima né dopo. Io che non ero mai stato incensato in vita mia, neanche a parole, vedere usato per me l’incenso, che secondo me è dovuto solo al Signore e ai suoi santi, non sapevo raccapezzarmi, mi sembrava una vera ingiustizia”.

Terminata la Messa, a casa, padre Ziello riprende paternamente Felice per il mancato inchino durante l’incensazione. Felice fa osservare che

“l’incenso è per il Signore, non per uno come me. Perché se invece d’incenso avesse messo nel turibolo del tabacco, avrei capito ch’era per me e certamente mi sarei inchinato a ringraziare.

Credevo che fosse tutto finito con la Messa. Invece, più avrei voluto sottrarmi alle manifestazioni, più ne succedevano una dopo l’altra. Infatti vidi arrivare, dirette a me, una processione di alunne del convento, le piccole recanti tra mano mazzetti di fiori e regalucci. Mi lessero indirizzi di omaggio in inglese e in birmano, poi tutte assieme cantarono una poesia e così passò anche questa. Non nascondo che un po’ di lagrimucce mi rigarono le gote: a me ci vuol poco per commuovermi.

A pranzo p. Ziello lesse una bella letterina del vescovo e altre dei padri, in italiano, in inglese e in cariano, che mi scesero proprio al cuore, e mi trassero ancora qualche lacrima dal ciglio. Indi mi fu presentato una specie di Numero Unico illustrato a mano, con componimenti a prosa e in versi, alcuni venati di umorismo, omaggio dei padri di Toungoo, Kengtung e Lashio. Il più bello di tutti fu una poesia in dialetto lodigiano, dal titolo: D’un om d’or, el giubilè d’argent’ (Il giubileo d’argento di un uomo d’oro). I ragazzi della nostra scuola fecero la loro parte d’indirizzi e di canti.

I cattolici vollero anch’essi testimoniarmi la loro simpatia con una generosa offerta in denaro. E il dott. Pal, cittadino eminente e nostro amico e benefattore, anche lui, benché pagano, volle mandarmi un grazioso biglietto accompagnato da 25 rupie d’argento, simbolo dei miei 25 anni di vita missionaria. I festeggiamenti furono coronati, a sera, da una solenne ora d’adorazione. Infine qualche giorno dopo, mi pervenne il più bel regalo: l’annunzio di tre SS. Messe offerte per me da tutti i padri della missione. Questa dimostrazione d’affetto, così spontanea e così calda, specie quella venuta dai padri, non la meritavo e ne fui grato per sempre”.

In occasione del suo giubileo, anche Felice fa un regalo alla missione: la nuova tipografia che egli definisce “un edificio originale, l’unico del genere che finora mi è capitato di costruire”: infatti è tutta in ferro, eccetto le fondamenta in cemento, il ripieno delle pareti in mattoni e le ampie porte in legno. Il regalo consiste in questo: che tutto quel ferro veniva dalla montagna di rifiuti ferrosi raccolti da Felice nei campi militari giapponesi e inglesi, fusi e utilizzati da questo fabbro eccezionale:

Tutta roba più o meno storta che dovetti raddrizzare. Ne venne fuori un bel fabbricato, spazioso e luminoso: vi entrava luce da 375 vetri che applicai alle finestre. Le inferriate le feci un po’ ornate ed eleganti per correggere alquanto l’impressione di un carcere che esse davano. La gente veniva ad ammirare, e qualcuno ebbe ad osservare che l’edificio era ideale per un club, dove potersi divertire e danzare o installarvi una biblioteca. Fu invece utilizzato per le attrezzature della tipografia, macchine di stampa, tavole, casse di caratteri, carta, libri, ecc.

Certo che mi costò non poca fatica e sudori a catinelle, a causa della canicola di Toungoo: 40° gradi e più di notte, e di giorno faceva paura a guardare il termometro (1). L’assenza poi di Fr. Santino Pezzotta (allora in Italia) mi obbligò a fare frequenti viaggi a Rangoon per provvedere le macchine e i caratteri. Ad ogni modo anche allora il buon Dio e la cara Madonna mi vennero in aiuto, e mi fu di particolare soddisfazione l’aver potuto condurre a termine l’impresa, proprio alla vigilia della mia ricorrenza giubilare”.

La Birmania indipendente: ritornano i missionari (1948)

Nel dopoguerra ritornano i missionari dall’India e nel 1948 arrivano dall’Italia i primi missionari giovani del Pime. Tutto è da ricostruire: si riparte quasi da zero. P. Paolo Noè giunto in Birmania nel 1948, così descrive il suo primo impatto con la missione di Yadò a cui è destinato (2):

“Quando arrivai a Yadò, mia prima destinazione, il mio parroco p. Carlo Delsignore (chiamato il canonico di Vercelli) mi disse: Non impressionarti, tutto è stato bruciato dai giapponesi quindi tutto è nuovo”. La casa era di legno, sollevata da terra un 30 cm. Una finestra con vetri era inchiodata: non si doveva aprire; il resto…molti sacchi per chiudere i buchi. Il soffitto di assi provvisorie con sopra un tendone per proteggere dalla pioggia. La chiesa fino alle finestre era di blocchi di cemento a secco, il resto di bambù intrecciato, mezzo rosicchiato. Un enorme tetto di paglia lasciava piovere dentro. Pavimento di terra. Niente banchi.

La mia stanza un budello. La porta faceva da parete e sopra la porta mezzo metro vuoto perché passasse l’aria gelida e la pioggia… La finestra di legno non si chiudeva. Chiusi i buchi con sacchi. Mi aspettavo un altro sacco per divisa, invece Delsignore mi diede un paio di calzoni militari per tutti i giorni e un paio di calzoni bianchi per la domenica e le feste. Chi va a vedere oggi quei posti non li trova più. Dove passa il Pime lascia il segno: case, chiese, conventi, scuole, tutto in muratura. E l’acqua che vien giù dal rubinetto, anche se non corre troppo”.

Il 4 gennaio 1948 la Birmania diventa indipendente e poco dopo incomincia la guerriglia separatista, da parte delle etnie minoritarie contro i birmani e del partito comunista filo-cinese per instaurare un regime maoista. A peggiorare la situazione, i cinesi nazionalisti di Chang Kai-shek, sconfitti in Cina, si ritirano nell’isola di Taiwan, ma alcune divisioni sconfinano in Birmania dove sopravvivono col commercio di oppio, pietre preziose e legni pregiati, creando brigantaggio e guerriglia contro l’esercito nazionale e i comunisti birmani.

Dopo la breve pausa del dopoguerra, la situazione politica va facendosi di nuovo difficile: fra una guerra e l’altra, la Birmania ha goduto scarsi tempi di pace. I missionari del Pime continuano ad annunziare il Vangelo, fondano nuove comunità cristiane e curano la promozione umana soprattutto aiutando i più piccoli e deboli, le popolazioni più arretrate e più povere. Dopo l’arrivo di una trentina di giovani missionari dall’Italia (e di suore della Riparazione e di Maria Bambina) negli anni seguenti il 1948, il vicariato apostolico di Toungoo si sviluppa in nuove regioni, soprattutto in direzione di Taunggyi e di Loikaw, mentre quello di Kengtung (istituito nel 1927) si sviluppa in direzione di Lashio e verso i confini con Cina e Laos.

E’ facile immaginare il lavoro di fratel Tantardini: riparare, costruire, correre da una missione all’altra, come prima più di prima. Un'”impresa minore” è ricordata da Felice stesso: la costruzione del nuovo campanile a Leikthò, in sostituzione di quello di legno, pericolante, vecchio di 50 anni che lui stesso aveva abbattuto fissando le grosse campane su quattro piantane.

Nel 1949, preparati a Toungoo i ferri per l’ossatura del nuovo campanile, li manda a Leikthò e nel tempo di 10 giorni, come stabilito dal vescovo, il lavoro è terminato, le campane fissate sul nuovo campanile; inoltre prepara una tomba nuova, in cemento, come dimora definitiva di mons. Vittorio Emanuele Sagrada (1860-1939), che, per ordine di mons. Lanfranconi, da Toungoo doveva essere trasferito a Leikthò, perché qui aveva tanto lavorato quando era semplice sacerdote. Terminato i lavori, Felice riprende la via di Toungoo.

Nel 1952, con un altro confratello, sono richiesti dal vescovo americano di Prome per costruire la sua cattedrale. Fratel Tantardini si ferma là solo un mese: il tempo per preparare il materiale necessario alle fondamenta in cemento armato della chiesa, e poi i canali ed anche i bulloncini e le viti per fissare le lastre di asbesto sul tetto. Con quattro grossi tubi alti sei metri fa un piccolo campanile in ferro. Tutto questo in un mese!

Il buon Dio gli chiede un po’ di riposo: entra in ospedale per un duplice intervento: ernia e idrocele. Il chirurgo trova che è molto anemico e lo trattiene in ospedale circa un mese prima dell’intervento. Sebbene indebolito dalla malattia e dall’operazione, dopo una scarsa convalescenza di dieci giorni Felice torna subito a Toungoo e costruisce il noviziato delle suore della Riparazione: un edificio a due piani, 40 metri di lunghezza per 14 di altezza. Va personalmente a Rangoon a comperare il legname e l’asbesto per il tetto; poi, con l’aiuto di sei falegnami, altrettanti muratori e alcuni manovali, il noviziato è pronto in tre mesi, subito occupato dalle suore e dalle novizie.

Il lavoro troppo faticoso e stressante per un uomo in convalescenza provoca però la rottura del peritoneo e l’ernia ritorna come prima dell’operazione! Felice non si sgomenta, riprende il suo vecchio cinto di stoffa da lui stesso inventato e realizzato: tenendolo ben stretto, l’ernia stava a posto, ma con il caldo e il sudore di quel clima,

“La fasciatura non era una delizia. Però, a confronto dei malanni di cui tanti sono afflitti, questo mio disturbo era molto tollerabile. E poi, un po’ di penitenza fa bene, ci distacca dalle cose di questo mondo e ci risparmia un po’ di purgatorio nell’altro”.

Nascita della Chiesa locale (1955)

Finita la costruzione del noviziato, il vescovo chiede a Felice di andare a Dorokhò per mettere la guglia al campanile. Avrebbe viaggiato con un padre appena arrivato dall’Italia. Essendo la strada infestata da guerriglieri e briganti, il mezzo più spiccio era l’aereo per Loikaw, vicino a Dorokhò:

“La paura che avevo di viaggiare in aereo (era la mia prima esperienza del genere) mi faceva male al solo pensarci, ma dovetti accettare e salii. Non so descrivere il panico che mi pervase durante tutto il tragitto, che meno male fu di mezz’ora. Solo quando l’aereo atterrò, ripresi fiato e, per l’ansia di mettere piede a terra, non aspettai neppure che mettessero la scaletta per scendere, ma feci un salto. La hostess che stava al portello mi disse: Tu sei un buon saltatore, padre!”. Non sapeva che era stata la paura a spingermi giù. Il giovane padre, mio compagno, era immune di queste miserie, perché lui apparteneva alla generazione motorizzata”.

Terminata la guglia del campanile, Felice deve recarsi a Taunggyi per iniziare il nuovo seminario. Riprende ancora l’aereo, ma questa volta nessuna paura,

“anzi me la godevo a guardare le colline, i fiumi, i villaggi, il lago, tutti i posti che avevo attraversato tante volte in barca, a cavallo, a piedi. Arrivammo a destinazione quasi senza che me ne accorgessi”.

In dieci mesi il seminario è terminato e via subito a Loikaw per fare la guglia di ferro al nuovo campanile della chiesa che era stata da poco abbellita da fratel Ernesto Pasqualotto. Non avendo molto ferro a disposizione, Felice mette sulla croce (alta 2,5 metri) dei vetri ed inserisce nell’interno delle lampadine che di notte permettono di vedere la croce da grande distanza; e fissa le 5 campane sul campanile: tutto è pronto per il Congresso eucaristico diocesano, organizzato a Loikaw nel febbraio 1955 da p. Pasquale Anatriello (1912-1986), con grande concorso di popolo e l’intervento del delegato apostolico venuto dall’India.

Così continua la vita missionaria di Felice Tantardini: il lavoro non gli manca mai, anzi, ha sempre prenotazioni per uno o due anni. Da Loikaw torna a Toungoo e nella sua fucina e officina prepara il materiale per le guglie ottagonali (alte 15 metri) da fissare sulle due torri della chiesa di Taunggyi; e altre due croci (due metri) da fissare sulla cima delle guglie. Quando finisce di preparare il materiale,

“ne segnai ad uno ad uno i pezzi che erano tanti, smontai le guglie, legai a fasci i ferri corti, incassai i bulloni, le chiavi, ecc., spedii tutto a Taunggyi e pochi giorni dopo andai a fissare guglie e croci sulle torri. Fu un’impresa alquanto rischiosa: non c’erano ponti di sorta e si dovevano fissare assieme i vari pezzi di queste guglie, le quali avevano una base di quattro metri e terminavano in una punta di appena 20 cm. (di lato). Su queste punte fissai le croci che erano state indorate con oro in foglie e che sono tuttora lucenti di giorno e un po’ anche di notte. Più d’uno, avendomi visto al lavoro, mi chiese se contavo per nulla la mia vita, esponendola a tanti rischi. Certo che, dopo che al buon Dio e alla cara Madonna, io devo al mio angelo custode se non perdetti mai l’equilibrio e terminai il lavoro senza incidenti. Una volta qualcuno mi disse che di angeli custodi debbo averne parecchi, non uno solo”.

Finito questo lavoro ritorna a Toungoo. Il 1° gennaio 1955 la Santa Sede istituisce la gerarchia ordinaria in Birmania: la missione diventa Chiesa locale, le prefetture e i vicariati apostolici diocesi, il comando passa al clero locale. Nel febbraio seguente si celebra a Loikaw il Congresso eucaristico diocesano di Toungoo: grande manifestazione di fede a cui partecipa il delegato apostolico mons. Martin Lucas, che visita quasi tutte le missioni della diocesi. In questa visita, il delegato apostolico precede in auto o in portantina, lo segue il vescovo Lanfranconi a cavallo.

Viene poi il tempo del Congresso eucaristico nazionale (2-5 febbraio 1956), tenuto a Rangoon col legato papale card. Valeriano Gracias di Bombay e il concorso di gente da tutte le missioni. Partecipano al Congresso circa 40.000 cattolici, di cui 14.000 rappresentanti di tutte le tribù indigene delle varie missioni nei loro caratteristici costumi, fogge e colori.

Il discorso pronunziato dal primo ministro U Nu, fervente buddhista e futuro segretario delle Nazioni Unite, venne definito “l’apologia della Chiesa cattolica in Birmania”; infatti ringraziò i cattolici e i missionari per vari motivi: lealtà nei confronti del paese, non elemento di divisione ma aiuto alla causa dell’unità e della solidarietà nazionale, nessuna interferenza politica sul governo e il parlamento, servizio disinteressato alla crescita umana del popolo birmano.

La grande croce di ferro sul monte Kothomò (2.000 metri)

Dopo il Congresso nazionale (febbraio 1956), Felice riprende il lavoro già incominciato qualche tempo prima: posare una grande croce in ferro sul monte Kothomò, alto 2.000 metri, ai cui piedi sorge il villaggio di Hoya, centro della cristianità dei “prè”, affidata allora ai padri Giulio Rovagnati e Carlo Meroni, gli apostoli di quella tribù primitiva. Il posto era indovinatissimo: il Kothomò si erge solitario sulle colline circostanti, dominandole come un gigante. La croce è visibile da ogni parte per decine di chilometri. Gli aviatori che sorvolano quella zona tengono la croce del Kothomò come punto di riferimento. Per i prè un motivo legittimo di vanto, perché secondo la loro tradizione, nessuno, neanche il diluvio universale, mai arrivò sulla cima del Kothomò, per paura degli spiriti.

La croce misura 14 metri da terra ed è la più alta croce in ferro (così afferma Felice) non solo in Birmania ma anche in Italia, forse una delle poche del genere in Europa. Va tenuto presente che la croce è stata montata, a metà degli anni cinquanta, senza l’aiuto di alcuna gru o altro mezzo meccanico. Smontata nei suoi pezzi, che pesavano in tutto circa tre tonnellate, venne trasportata su un autocarro da Toungoo per circa 500 chilometri, fino al punto di strada più vicino a Hoya, precisamente a sette ore di cammino a piedi, e di là portata a spalle fino a Hoya. Il parroco con la sua gente va a prenderla, mentre Felice si reca a Yadò per sbrigare alcuni lavori e poi per i monti, sempre a piedi, arriva a Hoya qualche giorno dopo.

Circa un’ora prima di arrivare, Felice ha una brutta sorpresa:

“Andavo accompagnato da due ragazzetti che conoscevano la strada, per un minuscolo sentiero attraverso la foresta. Ero davanti, a una ventina di passi da loro, e sgranando la mia corona, come di solito nei miei viaggi. Quand’ecco sento un fruscio di foglie e uno scuotere di canne di bambù, a pochi passi sopra il sentiero. Vento non ce n’era affatto. Cosa poteva essere? Mi fermai e scrutai da quella parte. Niente. Allora sussurrai ai ragazzi che intanto mi avevano raggiunto, di andar loro più avanti, un po’ vicino, a guardare. Dopo alcuni momenti tornarono da me allibiti e mi dissero sottovoce: La tigre! E’ grossa!”. Era davvero una grossa tigre, che si stirava, come fanno le belve verso sera nel destarsi.

Feci cenno ai ragazzi che si affrettassero e io sarei venuto dietro. Mandai avanti i ragazzi perché loro, essendo a piedi nudi, non facevano rumore, e poi perché, quando una tigre vede più persone in fila, non assale mai la prima ma quella in coda, per sua precauzione. Quando dunque i ragazzi scomparvero alla prima svolta, anch’io ripresi il cammino. Stringevo forte il mio rosario e il cuore sembrava mi fosse salito in gola. Veramente di carne addosso ne avevo ben poca e la tigre, assaltandomi, avrebbe fatto un pranzetto piuttosto magro. Ma queste sono battute che si fanno solo quando è passato il pericolo!

Arrivato a Hoya, parlai alla gente di questo incontro, mi dissero che quella tigre faceva frequenti incursioni nel loro abitato e proprio la notte precedente aveva in due riprese sfondato il porcile delle suore e asportato due maiali”.

A Hoya, oltre ai due padri locali, p. Luigi Galbusera (3) era venuto ad aiutarlo a gettare le fondamenta per la croce. Il mattino dopo, i quattro missionari, più alcuni uomini del villaggio, salgono armati di picconi e pali di ferro e incominciano i lavori di scavo: terreno abbastanza duro, compatto. Preparano le fondamenta, ma devono aspettare due giorni perché arrivino i portatori con tutto il materiale: ferro, cemento, ecc., anche l’acqua e la sabbia erano portate a spalla fino in cima alla montagna, un lavoro veramente duro! Solo il grande desiderio di quella buona gente di avere lassù la croce sosteneva i portatori.

In due settimane il lavoro è compiuto e la croce troneggia bella, alta, tanto bella che persino Felice l’ammira e le pare più bella di quando l’aveva preparata. Vi fissa un parafulmine e ai piedi costruisce un altare di cemento.

La domenica successiva si tiene la cerimonia della benedizione, con Messa solenne. Moltissimi si accostano ai sacramenti.

“La cima del monte era gremita di gente, accorsa dai villaggi circostanti. Numerose furono le confessioni… Brillava sui volti di tutti la gioia e la fierezza di avere finalmente la loro grande croce di ferro, frutto non solo delle mie, ma anche delle loro fatiche e dei loro risparmi, dati per le spese del materiale e del trasporto.

Non mancò un comico incidente, all’inizio della Messa: un aereo, avendo visto tanta folla sulla cima del monte sempre deserto, cambiò rotta e venne a volare basso sopra di noi. Figurarsi il panico della gente e mio, a sentire quel rombo assordante e a vedere quel bestione che pareva volesse piombarci addosso. Istintivamente ci accovacciammo a terra, come se facendo così avessimo potuto difenderci. Ma ci bastò la paura. Finita la cerimonia, la gente ridiscese ad Hoya a godersi la carne dei buoi e dei bufali uccisi per l’occasione e il giorno seguente se ne tornarono ai loro villaggi a raccontare lo storico avvenimento ai meno fortunati rimasti a casa.

Prima che divenisse il maestoso piedestallo d’una croce, quel monte era stato un covo di tigri e leopardi, per cui nessuno si azzardava a scalarlo oltre la metà. Bisognò quindi prima disboscarlo per un buon tratto tutto in giro. Alcuni mesi dopo la festa, un uomo del villaggio che aveva perduto i suoi bufali salì fino sulla cima del monte per cercarli. A circa 100 metri dalla croce, vide una tigre che dormiva, sdraiata proprio ai piedi dell’altare. Superfluo dire che quel poveretto se la diede a gambe levate giù per il monte”.

Sei martiri negli anni cinquanta (1950-1961)

Nella prima metà degli anni cinquanta il Pime conta cinque missionari uccisi in Birmania, più il primo sacerdote locale di Kengtung, formato dal Pime. Questi sei martiri vanno ricordati nella biografia di fratel Tantardini, per dare un’idea concreta dell’ambiente difficile in cui si svolgeva la missione.

La Birmania (Myanmar dal maggio 1989) è praticamente in guerra dal 1948, specialmente nelle regioni montane del nord-est, ai confini della Cina, il Laos e la Thailandia: proprio quelle evangelizzate dal Pime. Negli anni cinquanta, nella situazione di caos del nord-est, dove anche l’esercito nazionale birmano si comporta come truppa d’occupazione, saccheggiando e bruciando villaggi, cinque missionari vengono uccisi e con loro anche il primo sacerdote di Kengtung.

Ecco in breve il racconto del loro martirio:

1-2) I padri Mario Vergara e Pietro Galastri sono nel villaggio di Shadaw, dove Vergara aveva fondato la nuova stazione missionaria tra i cariani rossi nel 1946, della quale era parroco (4). I ribelli cariani (di religione battista, anti-cattolici) impongono tasse e angariano i villaggi, costringendo i giovani a combattere per loro. Vergara protesta, specialmente dopo che un suo catechista è ucciso dai ribelli. Lo accusano di essere una spia del governo. Il 24 maggio 1950 i due missionari sono arrestati col catechista Isidoro, portati sulla riva del Salween, trucidati e buttati nel fiume. Galastri, arrivato da poco dall’Italia, muore a 32 anni (5).

3) P. Alfredo Cremonesi, ucciso dai militari birmani il 7 febbraio 1953 per il motivo opposto: accusato di favorire i ribelli. Durante un’operazione militare per liberare dalla guerriglia l’area di Donokù, il padre che era a Toungoo è sconsigliato di tornare nella sua parrocchia, ma ci va per essere vicino al suo popolo. I militari sono sconfitti e la loro rabbia si sfoga contro i villaggi cariani, sospettati di essere dalla parte dei ribelli. Padre Alfredo interviene più volte a proteggere il suo popolo. Cade colpito da una raffica di mitra con un suo capo-villaggio.

4) P. Pietro Manghisi apparteneva alla missione di Lashio (diocesi di Kengtung), ai confini con la Cina, dove c’erano continui assalti di soldati irregolari cinesi. I tribali kachin costituiscono loro truppe di difesa dei villaggi. Il 15 febbraio 1953, mentre si reca in jeep sul confine per assistere i militari cattolici, Manghisi cade in un’imboscata dei cinesi e muore con la testa trapassata da varie pallottole. Al miglio 91 della “Burma Road”, vicino al confine cinese, una croce bianca con una lapide di marmo richiama ai passanti il martirio di padre Pietro (6).

5) P. Eliodoro Farronato, missionario di Kengtung, nel 1955 era parroco a Mongyong e ritenuto “il miglior linguista della missione”. Per ordine del vescovo studia sistematicamente le lingue e compone libri di preghiere, catechismi, traduzioni della Scrittura in shan, lahu, akhà, ikò. Nel settembre 1955 va a Kengtung per completare vari lavori prima di darli alle stampe. Ai primi di dicembre si rimette in cammino verso Mongyong per essere dai suoi cristiani a Natale. Si ferma tre giorni a Mongpyak, a metà strada, nella residenza di p. Elia Cattani perché la strada è pericolosa. Poi, benché sconsigliato di proseguire a causa della guerriglia che infuria, a cavallo si reca nel suo villaggio e vi arriva il 9 dicembre. Ma poco prima di entrare a Mongyong, viene fermato da guerriglieri cinesi, legato e condotto in foresta. Era l’11 dicembre 1955. La sera del 14 viene ritrovato il corpo sepolto a fior di terra, con tre ferite d’arma da fuoco.

6) Ai cinque missionari martiri del Pime bisogna aggiungere il p. Stefano Vong, primo sacerdote diocesano di Kengtung, vero martire della fede, sacerdote esemplare e zelante missionario. P. Clemente Vismara, suo grande amico, ne ha scritto la biografia (7). Nella regione di p. Vismara agiva, negli anni cinquanta e sessanta, un bonzo buddhista accanito contro i cattolici, che sobillava la gente e i ribelli, con calunnie contro i sacerdoti e i loro fedeli. I missionari buddhisti erano impegnati a conquistare la tribù akhà, fra la quale lavorava anche p. Stefano Vong, di origine cinese ma naturalizzato fra gli akhà di cui parlava benissimo la lingua ed era conosciuto e stimato da tutti. Stefano fermò il movimento di conversioni degli akhà al buddhismo, convertendo molti villaggi alla Chiesa. Lo uccisero a fucilate, aspettandolo nel bosco da dove doveva passare, il 10 aprile 1961 mentre stava visitando i villaggi cattolici per far celebrare la Pasqua. Gli tagliarono anche la testa. Aveva 47 anni (8).

(1) Toungoo è posta in una depressione del terreno ed è città caldissima. Le missioni dei missionari del Pime, sui monti e in foresta, quasi tutte a più di 1.000 metri di altitudine, sono piuttosto fredde di notte.

(2) Paolo Noè, “In Birmania la Chiesa dei poveri”, “Il Vincolo”, gennaio-marzo 1982, pagg. 24-25.

(3) Nato nel 1911 a Barlassina (Milano) è andato in Birmania nel 1937. E’ morto a Mushò il 15 marzo 2000.

(4) Ferdinando Germani, “Padre Mario Vergara, Martire della fede e della carità in Birmania”, Pime, Napoli 1987, pagg. 180.

(5) Cristoforo Mattesini, “Da Camaldoli alla giungla, P. Pietro Galastri, missionario del PIME in Birmania”, Emi 1980, pagg. 126.

(6) Ferdinando Germani, “P. Pietro Manghisi, Olocausto a Dio gradito”, Pime, Napoli 1988, pagg. 278.

(7) Clemente Vismara, “Agguato nella foresta”, Pime, Milano 1966, pagg. 120.

(8) Tra i sacerdoti ed i cristiani di Kengtung si tramanda il racconto di questo primo e santo sacerdote della diocesi, che tutti considerano vero martire per la fede. Il vescovo mons. Abramo Than vorrebbe iniziarne la Causa di Canonizzazione perché la sua fama di santità e di martirio è veramente estesa e solida, ma nella situazione attuale non è conveniente: oggi c’è pace e serenità fra cattolici e buddhisti a Kengtung, se si chiedono notizie sulla persecuzione di quel monaco buddhista (e di non pochi altri) contro i cattolici, si rischia di rinfocolare antiche rivalità.

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