A 85 anni Felice va in pensione, dopo 34 anni in Birmania — Lombardi nel Mondo
A 85 anni Felice va in pensione, dopo 34 anni in Birmania
Il giorno dopo la festa della benedizione alla croce sul monte Kothomò, fratel Tantardini riprende la strada per Toungoo. Si ferma tre giorni a Yadò per mettere a posto le canne dell’acqua. A piedi va a Leitkò, qualche lavoretto, un giorno di riposo e poi ancora a piedi – siamo in aprile (1956) quando il caldo è al massimo (38-40 gradi all’ombra) – eccolo a Toungoo. Lì trova un messaggio del vescovo il quale gli ordina di andare in Italia per un breve congedo: “Per rimettere un po’ di carne su quel corpo solo pelle e ossa”. E’ un ordine: Felice deve solo obbedire e per di più fare il viaggio in aereo.
Difficile la vita in Italia dopo 34 anni di Birmania
In aereo Felice occupa il posto vicino alla cabina, quindi è il primo ad essere servito. Arriva la hostess con il vassoio di caramelle e Felice ne prende una.
“Finito questo giro, ne cominciò un altro con una bottiglia di acqua di colonia, di cui spruzzava i fazzoletti dei passeggeri. La hostess mi chiese gentilmente di porgere il fazzoletto. Mi scusai dicendo di non averlo (infatti non ne uso mai). Allora la buona donna mi invitò a raccogliere il profumo nel cavo di ambedue le mie mani congiunte. Io credevo vi versasse alcune gocce, invece le riempì di profumo. Non sapendo come utilizzare quel ben di Dio e cosa farne, me lo versai tutto sulla testa, da cui naturalmente scorse lungo la schiena e sul petto e mormorai: Una volta tanto ci si può lavare anche col profumo!”. I vicini e la hostess ridono di gusto. Finito il giro, rimase nella bottiglia un bel po’ del prezioso profumo, che la signorina non volle sciupare e venne ad offrirlo a me: Prenda, padre, questo è tutto per lei”. Io lo presi e mi lavai anche la faccia, suscitando un’altra risatina tra i vicini”.
Così, dopo 24 ore (tanto duravano i viaggi aerei a quel tempo!), Felice arriva a Roma. Abituato al caldo birmano ed essendo leggermente vestito, sente subito lo sbalzo di temperatura. Attraversando poi in auto la città e vedendo tanta gente così diversa da quella che vedeva 34 anni prima, gli sembrava di essere in “un paese di fiaba”: macchine, motociclette con ragazzo e ragazza sopra (Felice considera la cosa un po’ disdicevole), abbigliamenti strani. Incontra pure molte persone vestite bene, a festa, e chiede che giorno di festa è, ma si sente rispondere che è un giorno feriale qualunque: la gente in Italia si veste bene anche quando va al lavoro. “Che contrasto con i nostri poveri figli dei boschi!” esclama Felice.
Giunto alla sede del Pime a Roma, si presenta al superiore generale, p. Luigi Risso, che lo osserva
“e mi disse che io ero uno dei pochi missionari dell’Istituto che egli ancora non conosceva. Trovò che ero molto brutto, color terra birmana e con una faccia da impiccato!”. Quindi avrei dovuto fermarmi alcuni mesi a Roma, almeno tanto da riprendere un po’ di colorito e non far fare brutta figura al mio vescovo. E pensare che io non mi ero mai accorto di essere diventato brutto! Cosa che del resto non mi preoccupava”.
A Roma va a visitare una sua nipote novizia in un convento. Non si erano mai visti.
“Quando la superiora me la presentò, ci guardammo un momento, poi lei, in un trasporto di gioia esclamò: Zio! Zio!” e mi abbracciò. Io rimasi stupefatto a tali ingenue dimostrazioni: era la prima volta in vita mia che mi vedevo fatto segno a tanto affetto. Parlammo un po’ del nostro paese e dei miei cari – quattro sorelle e un fratello – e fui tanto contento di sentire che erano buoni”.
Il primo maggio lo invitano ad andare in San Pietro a vedere il Papa. L’accompagnano in auto due padri, i quali lo lasciano in una posizione dove può vedere il Papa da vicino e loro se ne vanno in un altro posto più arretrato, secondo il biglietto che avevano. Felice li perde di vista. Nelle due ore della funzione, la calca della gente si fa così pressante che Felice si trova intrappolato e non riesce a muoversi fino a cerimonia terminata. Fuori di S. Pietro non trova né padri né macchina e non gli resta che andare all’Istituto a piedi, accompagnato da un vigile urbano che prova compassione per quel piccolo missionario birmano che s’è perso nella grande Roma. Commenta: “In San Pietro non volli più mettere piede”. A Roma visita parecchie chiese che giudica bellissime e sente molta compassione nel pensare alle sue chiese birmane, che ora, in tale contrasto, gli sembrano veramente “meschine”.
Da Roma arriva alla sede del Pime di Milano. Alcuni giorni dopo vengono un fratello e le sorelle a visitarlo. Dopo 34 anni di separazione, un incontro quanto mai affettuoso, ma anche deludente: trovano il povero Felice tanto cambiato! Gli dicono in coro:
“Ma lo sai che sei conciato per bene?… Con quella carnagione scura e magro come un chiodo!… Quando partisti eri bianco e rosso come una mela, e con i tuoi bei capelli castani. Ora sei pelle e ossa e i tuoi capelli sono quasi bianchi…”. Io rispondevo: Dovete sapere che in Birmania la pelle diventa bruna e i capelli bianchi. E’ il sole birmano che fa questi scherzi!”…”.
La sorella minore (la “sorellina” degli anni giovanili) gli dice in confidenza: “Non voler mica insistere di ritornare in missione! Non ti basta che la Birmania ti abbia consumato tutta la carne: vuoi proprio lasciare là anche le ossa…?”. Una volta che la incontra per strada con una corda in mano, Felice le chiede: “Cosa ne fai di questa corda?”. E la sorellina di rimando: “La tengo per legare te se ancora parli di tornare in missione!”.
“Con le gambe o senza gambe, ritorni in missione”
Intanto fratel Tantardini si ferma a Milano perché il superiore regionale vuol farlo visitare dai medici. Felice soffriva di uno strano disturbo alle ginocchia e ai piedi: si surriscaldavano e lo facevano soffrire:
“Il mio male si faceva sentire solo di notte, togliendomi il sonno per ore intere e obbligandomi ad alzarmi e passeggiare a piedi nudi sul pavimento, oppure sedermi su qualche sgabello molto basso, in modo da tenere le ginocchia ben piegate: questo era l’unico sollievo. Già da tredici anni soffrivo di questo malore, eppure di giorno non sentivo nulla, né del male né della perdita di sonno. Piuttosto esso mi serviva – e ancora adesso mi serve – come di una buona occasione per recitare qualche rosario in più e fare un po’ più di lettura.
Il dottore ascoltò la descrizione del mio malanno, mi esaminò piedi e ginocchi, ma trovò la malattia molto strana e la dichiarò incurabile. Mi diede una ricetta che però io trovai perfettamente inutile. Ero solo felice di non essere stato ricoverato in ospedale, ma lasciato libero di andare a casa. Informai mio fratello, che venne subito a prendermi con la macchina”.
A Milano fra il rombare di macchine e motociclette non si trovava molto bene, ma qui al paesello, calmo e silenzioso come l’aveva lasciato, si sentiva a suo agio: “Arrivai al mio paese senza chiasso, come senza chiasso ero partito”. La macchina si ferma davanti alla chiesa, l’aspettano il parroco e i suoi compaesani, una ragazzina legge un discorsetto di benvenuto poi il parroco gli passa il microfono:
“Non sapevo neppure che cosa fosse, tuttavia dico due parole di ringraziamento per il saluto rivoltomi, che certo andava più alla veste che indossavo, che alla mia persona. Uscito di chiesa, fui preso d’assalto dalla gente, specie dai miei nipoti e nipotine, che a gara mi chiamavano: Zio! Zio!”. Fui condotto a casa di mio fratello, dove trovai preparati torta, biscotti e liquori, e tutte le autorità del paese, con a capo il sindaco. Di là mi accompagnarono alle case delle mie sorelle sposate e non sto a dire con quanta cordialità fui ricevuto. La lingua mi si sciolse e mi ritornò la mia naturale chiassosa allegria.
Ma anche per quel che riguarda l’appetito delusi l’aspettativa dei miei. Mi invitavano spesso a pranzare a casa loro; ma il mio stomaco, abituato a riso e sempre riso, si era come ristretto e con poco ero soddisfatto. Sicché le mie sorelle ebbero a dire che, oltre al resto, anche le mie viscere erano ridotte come quelle di una gallina. Facevano di tutto per indurmi a mangiare come loro, ma non mi fu mai possibile: il mio stomaco non portava di più. Certo che il vitto in Italia, anche quello dei contadini, è molto migliore e più abbondante del vitto dei poveri montanari della Birmania”.
Il giorno seguente va al cimitero a trovare la mamma, il papà e i suoi cari. Non riesce a trattenere le lacrime. Se avesse potuto rivedere la mamma viva, la sua gioia sarebbe stata completa.
“Cara mamma – le dissi tra me – la tua bell’anima è già in Paradiso, ne sono certo. Quando ti lasciai, 34 anni fa, ti dissi: Arrivederci in Paradiso! Ora tocca a me fare in modo che ti possa raggiungere lassù, e sono sicuro che tu mi aiuterai!”.
Due mesi dopo lo chiamano a Milano per un corso di esercizi spirituali. Il disturbo dei piedi surriscaldati si era fatto più grave tanto che i superiori si sentono in dovere di sottoporlo ad esami accurati. Per i piedi nulla da fare, ma i dottori vedono la sua grossa ernia e intervengono. Viene riportato nella sua camera, e ancora sotto l’effetto dell’anestesia farfuglia un misto di parole birmane e italiane. L’infermiera, non comprendendo quel che dice, pensa che gli abbia dato di volta il cervello e avvisa subito i superiori dell’Istituto. Arriva trafelato padre Giovanni Battista Tragella.
Chinandosi su di lui gli chiede: “Fratel Felice, mi riconosce?”. Lui risponde in birmano: “Na ma lè bu” (non capisco). Al che il buon padre mormora: “E’ proprio fuori di sé”. Tutto questo è riferito più tardi a Felice. Il primario dell’ospedale e il chirurgo che l’aveva operato lo visitano di nuovo e si accorgono che l’addome e le gambe sono cianotiche: ordinano subito iniezioni dolorose che fanno migliorare il paziente.
In una lettera di anni dopo, Felice racconta un episodio gustoso della sua permanenza in Italia (1):
“Sembra incredibile quel che è capitato a me quando nel 1956 sono ritornato alcuni mesi in Italia, per mettere su un po’ di carne sulle ossa, ormai spolpate. Per un po’ di tempo l’inglese, il birmano e il cariano, queste tre lingue che sapevo bene erano sempre sulla punta della lingua, pronte ad uscire; quel poco di italiano che ricordavo non voleva uscire e fino all’ultimo mese trovai difficoltà. Mi ricordo che una volta, andando dalla casa del Pime di Rancio (Lecco) a prendere il treno per Milano, salii su uno degli autobus pubblici e arrivato alla stazione volevo che si fermasse per scendere. Non sapendo che c’era il campanello, dissi al conduttore per favore di fermarsi, ma glie lo dissi senza accorgermi che parlavo la lingua birmana. Naturalmente il conduttore non capì nulla e proseguì. Glie lo ripetei, ma fu inutile e solo quando una signora mi chiese cosa volevo, mi accorsi di aver usato la lingua sbagliata”.
Dopo le cure in ospedale, Felice è dimesso e ritorna nella casa madre del Pime a Milano, ma si sente estremamente debole, le gambe non gli obbediscono: lui che era sempre stato un valido camminatore, si deve aggrappare alla ringhiera e salire le scale un gradino per volta.
“Ne scrissi al mio vescovo mons. Lanfranconi e gli esposi il dubbio se mi convenisse, con le gambe ridotte in quello stato, che non me le sentivo più, di ritornare in missione, cioè in una missione come la nostra, che anche i robusti camminatori – come del resto ero sempre stato anch’io – trovano ardua. Il caro e santo vescovo mi mandò una risposta secca e graziosa, di quelle che lui sapeva dare: Con le gambe o senza le gambe, ritorni senza fallo!””.
A Lourdes dalla “cara Madonna” e poi a Toungoo
Una buona signora gli paga il biglietto per Lourdes. Immaginarsi la gioia di Felice: pellegrino alla casa della sua “cara Madonna”! Parte con un treno ammalati, prende posto nel vagone riservato ai due cappellani del pellegrinaggio. Durante il viaggio, i cappellani si spostano per ascoltare le confessioni, Fratel Tantardini è solo, in veste talare e per di più con la barbetta del missionario: i fedeli vengono da lui per confessarsi. Felice protesta di essere “un semplice fratello”, non può assolvere. Ci vuole un po’ di tempo prima di chiarire l’equivoco e tuttavia i brevi colloqui con Felice fanno sì che la gente dica: “E’ molto svelto a confessare, quel pretino con la barbetta”.
Nei cinque giorni che resta a Lourdes cerca di rendersi utile come può, si improvvisa barelliere.
“In questo servizio mi buscai anche un rimbrotto delle autorità per involontaria contravvenzione ai regolamenti, i quali prescrivono che si vada piuttosto adagio nel trasportare gli infermi, mentre io volavo con la barella. E’ che io pensavo solo a trasportarne più che potevo. Li aiutavo inoltre ad acquistare dei ricordini, che essi tanto bramavano di portare a casa per i loro cari. Dalle cinque del mattino fino a tarda sera ero sempre a loro disposizione. Facevo tutto questo per ripagare in qualche modo il privilegio concessomi di un pellegrinaggio a Lourdes, sogno da lungo tempo accarezzato, ma che disperavo di poter realizzare. Devo aggiungere che ero andato là anche per chiedere alla cara Madonna la guarigione dei miei malanni, dell’ernia e dello scaldamento ai piedi, che si era aggravato. Ma la vista di tanti infermi, e in condizioni così pietose, mi fece dimenticare me stesso: pregavo solo per loro”.
Felice è anche di grande aiuto ad un gruppo di malate irlandesi, accompagnate da alcune suore, che desideravano fare il bagno nella piscina miracolosa. Era tardi e il guardiano non voleva aprire la piscina, ma lui “parlando un po’ in milanese e un po’ in francese” riesce a convincerlo, con tanta gioia di quelle pellegrine.
Dopo Lourdes trascorre gli ultimi tre mesi di vacanza dai parenti a Introbio, nella casa di riposo del Pime a Rancio (Lecco) e visitando i parenti dei missionari in Birmania. Desiderava vedere una bella nevicata prima di partire e va a casa per gli ultimi giorni: che bello se nevicasse – pensa – e poter fare una bella giocata a palle di neve e slittarvi sopra, come quando era ragazzo! Ma questa piccola consolazione non gli è concessa, perché i superiori anticipano la data della partenza.
Il 2 gennaio 1957, in aereo, ritorna a Rangoon e poi a Toungoo, dov’è ad attenderlo il vescovo e alcuni padri; apre subito il suo cesto e distribuisce i vari pacchetti ai missionari e alle suore, che gli avevano affidati i loro parenti e amici.
“Monsignore ebbe a notare che ero migliorato un pochino di colore, ma di carne sulle ossa non ne avevo messo. Difatti anche le basculle degli aeroporti di Roma e di Rangoon mi avevano rivelato che non solo non ero aumentato, ma anzi ero diminuito di peso. Cose che per me non contavano nulla. Io ero felice di ritrovarmi in missione e in mezzo ai miei confratelli. Per parecchie sere li divertii con il racconto delle mie peripezie, traversie e impressioni. Il mio lavoro lo ripresi subito il giorno dopo. Sebbene lo sbalzo di temperatura dal freddo dell’Italia al caldo di Toungoo fosse abbastanza marcato, feci presto a riacclimatarmi”.
Il lavoro, come sempre, è urgente. Vi è un ricovero per incurabili da costruire a Toungoo, bisogna però preparare il terreno: spianarlo, tagliare vetusti alberi dai tronchi nodosi e contorti, facendo molta attenzione che non cadano sulle case adiacenti. Un lavoro abbastanza impegnativo, ma con l’aiuto di Dio e della “cara Madonna” tutto fila via liscio.
Mentre sta ancora terminando questo impegno, arriva l’appello da Taunggyi: urge il castello di ferro per 5 campane che da tempo attendono di essere sistemate. Felice è in angustia: fra due lavori urgenti, a quale dare la preferenza? Il vescovo decide: vai prima a Taunggyi. Felice parte, termina il lavoro assegnato e ritorna dopo un mese a Toungoo per finire la costruzione del ricovero, che si era quasi arenata. In un mese è terminata.
Lo strapazzo per il troppo lavoro si fa sentire: Felice ha forti dolori alla schiena, non riesce a prendere sonno, vi è sangue nelle sue urine. Decidono di mandarlo all’ospedale di Rangoon, dove trovano che i suoi reni non funzionano bene, non riescono a purificare il sangue. Lo tengono a dieta lattea e carbone in polvere, qualche iniezione e lavaggi, ogni due tre giorni si ripetono i raggi x. Finalmente la prognosi è migliore, i dottori dicono che il male sarebbe stato fatale se non fosse per una medicina di recentissima invenzione. Anche in questo Felice vede “un’altra segnalata grazia della mia Mamma celeste”.
Ancora in continuo movimento per costruire e riparare
Dalla capitale Rangoon ritorna a Toungoo dopo 14 giorni, ma è molto debole. Siamo nel 1957, Felice ha quasi sessant’anni, non possiede più le energie degli anni migliori. Il vescovo gli lascia ancora due settimane di convalescenza e poi lo invita ad andare con lui a Momblò per la consacrazione di tre preti cariani. Un viaggio di tre giorni a piedi e Felice teme che le sue gambe non reggano; ma gli dicono che si faranno soste frequenti, con tappe di sole 4 o 5 ore al giorno. Così accetta. Grande festa per l’ordinazione dei preti novelli e dopo tre giorni il vescovo e Felice incominciano un giro di visita alle missioni che dura circa un mese, quasi sempre sotto una fitta pioggia: salite e discese su montagne ripide e sdrucciolevoli, con abbondanza di sanguisughe che si ficcano sulle gambe e nelle scarpe e succhiano sangue in quantità.
Arrivando nei villaggi, mons. Lanfranconi ha le sue cose da fare, ma anche per Felice il lavoro non manca mai; e via per altri villaggi, spesso con fiumi in piena da attraversare su rami di bambù legati assieme come zattere precarie; oppure su traballanti ponti di liane e bambù.
“Pernottammo in un villaggio a metà strada. La pioggia continuò fitta, inesorabile e una volta poco mancò che monsignore cadesse in un torrente vorticoso… Un’altra volta, nell’attraversare un grosso fiume in piena, sopra un ponte sospeso a due alberi con bambù e liane, per poco non cascai giù, causa la rottura di un bambù al quale mi ero aggrappato…
Monsignore era tanto stanco. Lo si vedeva chiaro dai suoi occhi e dal volto. Ma mai un lamento uscì dalla sua bocca… Le salite e le discese così ripide di questi monti, dove il cavallo non può essere usato che a tratti (2), mettono a dura prova anche la fibra più forte, quanto più poi quella di un vecchio debole e malato come mons. Lanfranconi”.
E Tantardini come se la cava?
“Le mie gambe a poco a poco si erano allenate e avevano ripreso la forza normale”.
Eccolo di nuovo in perpetuo movimento per costruire, riparare, ampliare. Lo chiamano a Toungoo per ingrandire la tipografia “divenuta ormai troppo stretta per lo sviluppo preso”; poi va a Yadò per mettere il soffitto alla nuova chiesa in blocchi di cemento costruita dal parroco padre Paolo Noè; finito questo lavoro parte (a piedi, naturalmente) per Mushò, dove incomincia a raccogliere e preparare il materiale per la costruzione del noviziato femminile e del catechistato. Per due anni la sua residenza principale è a Mushò, dove costruisce tre fabbricati a due piani, di metri 30 x 8: ma ogni tanto viene chiamato in altre residenze per lavori e riparazioni.
Sempre in cammino, fra pericoli non indifferenti come quando ritornando nel lebbrosario di Loilem con p. Perego e due sacerdoti locali, su una camionetta guidata dallo stesso p. Perego, ad un tratto dal bosco sono fatti bersaglio di sei colpi di fucile, tutti, grazie a Dio, andati a vuoto. La guerriglia ormai si estende a tutte le regioni dei tribali, che si ribellano al dominio birmano. Ancor oggi, più di quarant’anni dopo, nelle regioni evangelizzate in passato dai missionari italiani del Pime, la guerra non è finita; a questa tragedia della guerra civile si è aggiunta, a partire dal 1962, la dittatura militar-socialista!
Alfredo Lanfranconi, un grande e santo vescovo (1888-1959)
Il 26 novembre 1959 muore a Milano, dove era andato pochi mesi prima a curarsi, mons. Alfredo Lanfranconi (aveva 73 anni). Un grande e santo vescovo, artefice della ricostruzione dopo le distruzioni della guerra, che segna il passaggio di Toungoo al clero indigeno. Dopo la morte, assicura il suo biografo, sono giunte notizie di guarigioni miracolose ottenute per sua intercessione (3). La diocesi di Toungoo passa al primo vescovo cariano mons. Sebastiano Mya Lay, mentre si prepara la nuova diocesi di Taunggyi, il cui primo vescovo è mons. Giovanni Battista Gobbato, consacrato da Papa Giovanni XXIII il 21 maggio 1961: il Pime vede riconosciuto il suo lavoro di quasi un secolo a Toungoo e i missionari vanno in un territorio ancora da dissodare, Taunggyi, da cui nascerà la nuova diocesi di Loikaw (14 novembre 1988). Oggi le due diocesi hanno vescovi locali.
A Kengtung (Birmania orientale, oltre il fiume Salween) il prefetto apostolico mons. Erminio Bonetta muore il 22 febbraio 1949 per incidente stradale: il camion su cui viaggia rompe i freni e si fracassa al termine di una discesa; i sacchi di cui è carico schiacciano il povero vescovo. Anche mons. Bonetta ha lasciato un grande ricordo di missionarietà e di santità (4). Lo sostituisce mons. Ferdinando Guercilena, ma nel 1969, dopo un breve viaggio in Italia per un’urgente operazione chirurgica (non possibile in Birmania), non riesce ad ottenere il visto per ritornare, che gli era stato promesso (5). Il 19 settembre 1972 prende il suo posto mons. Abramo Than, diocesano di Toungoo, nato a Momblò, un tempo parrocchia di padre Paolo Manna.
Da Kengtung si stacca il 20 novembre 1975 la prefettura apostolica di Lashio (diocesi il 7 luglio 1990), affidata ai salesiani birmani. Anche in questa parte della Birmania, ai confini con la Cina, il Pime ha lavorato bene fra il popolo “kachin”, per preparare la diocesi.
Dopo l’indipendenza, la situazione in Birmania peggiora continuamente a causa delle varie guerriglie separatiste (solo il 72% sono birmani, gli altri appartengono a etnie diverse), per la guerra del BCP (Burmese Communist Party, sostenuto dalla Cina) e dei cinesi nazionalisti sconfinati in Birmania. Nel 1958 il generale Ne Win riceve pieni poteri dal governo per ristabilire l’ordine.
Il 2 marzo 1962 lo stesso generale compie un colpo di stato dando inizio alla più lunga e una delle più crudeli dittature del mondo intero: il “socialismo birmano” ancor oggi al potere. Subito nazionalizza tutte le attività economiche ed educative: banche, commerci, terre, industrie, giornali, scuole, ospedali. I suoi modelli sono la Russia sovietica e la Cina maoista. In un paese profondamente religioso e buddhista all’80%, il regime lascia libertà religiosa; anzi si autodefinisce “la via birmana al socialismo”, cioè di ispirazione buddhista: ma la realtà è esattamente l’opposto del buddhismo tollerante e pacifico!
L’opera di mons. Giovanni Battista Gobbato (1912-1999)
Nel 1966 Ne Win espelle dal paese tutti gli stranieri entrati in Birmania dopo l’indipendenza (1948): anche 234 missionari e suore (18 protestanti), fra i quali 19 del Pime (6). Ne rimangono 31, fra Taunggyi, Toungoo e Kengtung. Alcuni fra gli anziani, usciti in seguito dalla Birmania per motivi di salute (es. un’operazione chirurgica urgente), non possono più rientrare. Due i casi più clamorosi: il vescovo di Kengtung, mons. Ferdinando Guercilena, che deve rinunziare alla diocesi; e il p. Cesare Colombo, medico-chirurgo e specialista della lebbra, fondatore nel 1936 e direttore del lebbrosario di Kengtung, per il ritorno del quale si muovono le autorità locali di Kengtung, ministri e personalità birmane, ma senza successo. Padre Cesare lascia un lebbrosario con 1.200 lebbrosi e 450 bambini sani, figli di lebbrosi (7). Alla sua partenza, nel Natale 1966, scene strazianti. Un lebbroso dichiara piangendo:
“Ringrazio il Signore che mi ha dato la lebbra perché ho potuto conoscere uno come te. Vorrei morire mentre tu, padre Cesare, sei ancora qui con noi” (8).
A Taunggyi mons. Gobbato guida il lavoro missionario dal 1961 al 1989; nel 1966 si trova con 14 missionari del Pime (9) e una quindicina di sacerdoti locali. La nuova diocesi si sviluppa soprattutto nello stato di Kayah intorno a Loikaw (150 km. a sud-est di Taunggyi), che nel 1988 si stacca e diventa diocesi a sua volta con il vescovo mons. Sotero Phamo Thein Myint. Lo stato di Kayah è la zona più cristianizzata della Birmania (10): nella diocesi di Loikaw i cattolici sono più di un quarto dei 200.000 abitanti (51.937), con 60 sacerdoti locali e l’ultimo missionario del Pime rimasto in Birmania, padre Paolo Noè (11). Il movimento di conversioni è sempre vivace.
Mons. Gobbato visitava molto le parrocchie e i villaggi ed ha sviluppato le stazioni missionarie di Han-O, Santa Maria Bikan, Mushò, Prusò, residenza fondata da padre Galbusera nel 1948: allora era un piccolo villaggio, oggi è una cittadina; Gobbato ha fondato le nuove residenze di Mobyé, Namekon e Paya Phyu, vicino a Taunggyi, dove ha istituito il “Cottolengo”, con diverse case per handicappati, orfani e vecchi abbandonati: è diventato il centro di irradiazione della carità cristiana, che suscita ammirazione nel popolo e nelle autorità.
Soprattutto, mons. Gobbato ha curato la formazione del clero, costruendo, dopo quello di Taunggyi, il nuovo seminario a Loikaw nel 1985; ha dato grande impulso all’Azione cattolica, riorganizzata con centro a Loikaw e diffusa in tutte le parrocchie, facendola riconoscere dal governo come associazione laicale, in modo da avere una voce ufficiale del popolo cristiano per difendere la Chiesa da angherie e ingiustizie (numerose e gravi soprattutto nello stato di Kayah). Ogni anno l’Azione cattolica celebra il suo congresso diocesano, con rappresentanti di tutte le parrocchie.
La vigorosa crescita anche numerica della comunità cristiana ha portato ad una assunzione di responsabilità da parte dei laici. In passato il laico impegnato era il catechista. I catechisti della missione di Toungoo erano famosi in tutta la Birmania per il loro spirito missionario e venivano richiesti anche in altre missioni: bastava dire che erano stati formati alla scuola di p. Lanfranconi e questo era già una garanzia. Oggi i cattolici hanno una schiera di persone preparate, altolocate, influenti nella società birmana; basti citare il presidente dello stato di Kayah, Aniceto U A Mya Lay, fratello del vescovo Sebastiano di Toungoo, morto nel 1983 a 75 anni: ha esercitato un grande e positivo influsso nello sviluppo del suo popolo.
A Taunggyi ed a Loikaw, per opera di mons. Mattia, ausiliare del vescovo Gobbato, sono nati gli “zetaman” (piccoli apostoli), che p. Paolo Noé così descrive (12):
“L’apostolato diretto è esercitato, oltre che dal clero, dagli e dalle zetaman, piccoli/e evangelizzatori-evangelizzatrici. Sono generalmente buone ragazze e alcuni giovani, con una cultura molto modesta, ma ora si mira all’Università, alle dipendenze del vescovo e vanno due a due nei villaggi pagani e anche cristiani. Fanno scuola, curano i malati e vivono con la gente e per la gente, che fornisce solo cibo, mentre la diocesi dà un po’ di aiuto. Non hanno voti, solo la promessa di lavorare per un anno e poi tornano alla base per un mese; se si innamorano, restano libere di far famiglia dove vogliono. Fanno tutto per amore di Dio e si sentono realizzate più che nel loro villaggio, contente di far parte dell’esercito di Cristo in prima linea. Alcune sono morte, per malaria o altro, dando esempio di fede eroica. Mentre preti e suore appaiono modelli inimitabili, che fanno un po’ paura, le zetaman, senza divisa speciale, senza pretese, appaiono più vicine alla gente e più imitabili”.
“Anche in Paradiso continuerò a fare il missionario”
Ritorniamo a fratel Felice Tantardini, che nel 1960 è chiamato a Loikaw come interprete a servizio di 5 tecnici italiani invitati dal governo birmano per iniziare un’industria del marmo. Per due mesi li segue su e giù per le montagne: esaminano i vari tipi di marmo del sottosuolo e studiano la possibilità di aprire delle cave per sfruttare questa ricchezza naturale. Felice ritorna a Taunggyi: prepara i ferri per
“l’erigendo episcopio e casa del clero, grandioso palazzo da tutti ammirato come un capolavoro di architettura. Per ben due anni ha messo a dura prova l’intelligenza dell’ingegnere, il fratel Pietro Giudici, nonché la pazienza dei miei muscoli”.
Terminata la costruzione, ricominciano le richieste dei diversi padri sparsi sui monti. Per Felice non c’è timore di rimanere disoccupato! Anche i pericoli non sono finiti:
“Tornavo da Loikaw su un’autovettura quanto mai scassata. A pochi chilometri da Taunggyi, ad un tratto si spezza una balestra delle ruote anteriori e la vettura va a finire in uno stretto canale scavato nella roccia, di fianco alla strada. Io ero seduto proprio a fianco dell’autista e andai a sbattere contro la parete di roccia. Ne riportai parecchie lesioni al viso, alla spalla e alla gamba destra, la quale restò incastrata fra la roccia e i rottami della vettura. A mala pena riuscii a districarmene e attribuisco a una speciale protezione della Madonna e del mio angelo custode il fatto che ne sono venuto fuori senza fracassarmi la gamba né rovinarmi il volto e gli occhi nell’urto contro la roccia.
Il primo pensiero che mi venne spontaneo, fu che il buon Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Invece il superiore regionale, con benevola delicatezza, nel farmi le congratulazioni per lo scampato pericolo, mi scrisse: Si vede che il Signore le riserva una morte più gloriosa!”. Il martirio? Ne fossi degno!”.
Poi incominciano a fargli male i denti: un tale tormento che deve estrarli quasi tutti, eccetto alcuni degli incisivi. Meno male che due dentisti, un birmano e un russo, gli costruiscono una bella dentiera. Felice non la trova così efficiente come quella procuratagli da sua madre, riesce però a “macinare e sgranocchiare qualunque cibo duro” e per di più la Provvidenza gli ha donato quella dentiera senza spendere un soldo. Anche russi e cariani sanno praticare la carità.
Nel 1967 Felice termina la sua autobiografia (“Il fabbro di Dio”) con questo episodio di molti anni addietro, che gli è rimasto impresso in mente.
“Una volta, mentre viaggiavo sui monti, un cariano, molto più alto di me, si abbassò a scrutarmi bene in viso e mi chiese: Sei proprio tu il Fratel Felice?”. Sì, sono io, perché?”. Ecco, io ti vidi tanti anni fa, quando ero un ragazzino e ti ricordo bene. Tu non sei cambiato per niente. Né più vecchio, né più giovane. Sei ancora tale e quale!”.
Sul momento non seppi cosa rispondere. Ma ora, ripensando a quella originale uscita, vorrei applicarla a me in un altro senso. Bramo tanto e prego sempre il buon Dio e la cara Madonna che mi conservino una perenne giovinezza di spirito e mi concedano la perseveranza nella mia bella vocazione missionaria, bella che non c’è l’eguale, credo. E anche dopo morte, una volta in Paradiso – spero di andarci – intendo continuare da lassù a fare il missionario: non più, certamente, picchiando l’incudine, ma martellando senza posa il cuore del buon Dio, per strapparne tante grazie per questa povera gente (dico soprattutto dei pagani) che ora vedo attorno a me, ma che sono impotente ad aiutare e a salvare”.
A 85 anni Felice va in pensione e prega
Così termina “Il fabbro di Dio”, che finora abbiamo sintetizzato, completandolo con altre notizie e testimonianze su fratel Felice. Come già si è detto, la sua vita non ha quasi un prima e un dopo. L’autobiografia si ferma al 1965, ma da allora in avanti Felice continua a fare quello che ha sempre fatto: servire la missione, il vescovo, i padri, le suore, la gente comune, facendo mille mestieri. Padre Igino Mattarucco ricorda (13):
“A 85 anni (nel 1983, n.d.r.) il vescovo mons. Mattia, ausiliare di mons. Gobbato, gli ha imposto di andare in pensione”. Ci vedeva ormai poco, ma lo si notava ancora dirigersi verso l’officina con un tubo in spalla. Si industriava sempre a fare piccoli lavori utili. Soprattutto, però, fratel Felice pregava: negli ultimi tempi la sua dose giornaliera di Ave Maria era salita in modo impressionante, fino a 15 o 20 rosari al giorno, recitati per lo più in ginocchio.
Si è spento il 23 marzo 1991, a 93 anni non ancora compiuti, vinto dall’età: gli ultimi mesi non riusciva più a reggersi in piedi e li ha trascorsi a letto, ma il cuore era sempre quello. Non aveva paura della morte, anzi la desiderava, come per ritrovare sua mamma e la Madonna. Una cosa sola gli spiaceva: siccome da tempo non usava più il suo martellone, gli erano spariti i calli dalle mani e quasi temeva di non poter presentare a Dio le credenziali” del suo instancabile lavoro”.
Padre Paolo Noè, superiore del Pime in Birmania, testimonia: “A 85 anni dovette smettere di lavorare per obbedienza al vescovo Mattia che gli disse: Ora basta lavorare, lei da oggi in avanti deve solo pregare”. Lo prese come un ordine a cui obbedire senza reclamare. Difatti non faceva che pregare per tutto il giorno, quasi sempre nella cappella privata dei padri e mattina e sera in cattedrale, per dare buon esempio. Passava quasi tutto il tempo in chiesa a recitare rosari o a leggere qualche libro di pietà. Era solo confuso e un po’ svergognato, perché le sue mani callose erano diventate liscie. Al rendiconto finale non potrò più presentarmi come fabbro di Dio”, diceva sorridendo mestamente”.
Felice stesso raccontava questo sogno. Un giorno muore e si presenta alla porta del Paradiso per essere ammesso fra i beati del cielo. S. Pietro gli chiede:
– Chi sei?
– Sono il fabbro di Dio!
– Fabbro? Qui non c’è bisogno di fabbri. Vattene!
– Ma io ho fatto il fabbro per quasi settant’anni come missionario in Birmania e credo di avere il diritto…
– Fa vedere le tue mani. Troppo pulite per essere quelle di un fabbro. Sei un imbroglione!
– Si sono pulite da sé in questi ultimi anni, perché ho perso la vista e non ho potuto più lavorare.
– Vattene via da qui!
– E io non mi muovo; credo di avere le carte in regola, aprimi!
Intanto la Madonna si era accorta che S. Pietro gridava e fratel Felice pure, ed esce per vedere di che si tratta.
– Cara Madonna, vedi, S. Pietro non vuole ammettermi tra i santi.
– Fammi vedere le tue carte. Ci metto la mia firma e poi consegnale a S. Pietro.
Fuori le mura del Paradiso, si era radunata una folla mal combinata di straccioni. S. Pietro non ci vede più e
minaccia. La Madonna interviene, mette la sua firma su ogni carta e San Pietro deve aprire.
– Chi sono questi pezzenti?
– Sono i nostri cariani, la Madonna mi ha assicurato che debbono entrare anche loro in Paradiso.
Dicendo questo a San Pietro, fratel Felice, che non aveva ancora varcato la porta santa, si sveglia ed esclama:
“Disdetta! Ora che stavo per entrare, mi sono svegliato! Però ho capito che, se manca la cara Madonna, la storia del Fabbro di Dio” conta poco”.
(1) Lettera a don Aldo Cattaneo, fondatore e direttore del “Laboratorio missionario Giovanni Mazzucconi” di Lecco, del 6 luglio 1969.
(2) Mons. Lanfranconi andava a cavallo, Felice seguiva a piedi con gli altri portatori e nota: “Il cavallo di monsignore a grande stento riusciva ad andare avanti, arrancando. Io, essendo a piedi, me la cavavo meglio”.
(3) Era nato a Mandello Lario (Lecco) il 14 dicembre 1888, in Birmania dal 1912. Antonio Lozza, “Sulle orme del Buon Pastore, Mons. Alfredo Lanfranconi”, Pime 1971, pagg. 186; Pasquale Ziello, “Abbiamo un santo in Birmania! In memoria di mons. A. Lanfranconi”, “Il Vincolo”, maggio 1960, pagg. 13-15.
(4) Era nato a Ferno (Varese) il 24 dicembre 1881, in Birmania dal 1905. Purtroppo di questo ottimo vescovo non esiste ancora la biografia. Durante la guerra era stato torturato dai giapponesi che, essendo biondo, l’avevano preso per una spia inglese! Aveva quasi perso la vista e non voleva tornare in Italia per curarsi. Il suo compagno di studi Pio XII gli scrive chiedendogli, a nome del superiore del Pime, di venire in Italia. Bonetta risponde che obbedisce, ma a patto di poter tornare a Kengtung anche se diventa cieco: “Quando siamo partiti, aggiunge, abbiamo tutti giurato che passato il Salween non si torna più indietro”. Infatti ritorna in Italia all’inizio del 1948, ma è di nuovo in Birmania alla fine di quell’anno: muore il 22 febbraio 1949.
(5) Mons. Guercilena era nato a Montodine (Cremona) il 29 ottobre 1899; in Birmania dal 1925 è morto il 6 maggio 1973 a 74 anni. I suoi missionari dicevano: “E’ morto di crepacuore per non essere riuscito a ritornare a Kengtung”.
(6) “Il Vincolo”, maggio-settembre 1966, pag. 12.
(7) Livio Mondini, “La città felice, Avventura missionaria in Birmania, P. Cesare Colombo”, Emi, Bologna 1989, pagg. 254.
(8) Nel 1972 p. Cesare Colombo compie un breve viaggio in Birmania e resta alcuni giorni con i lebbrosi a Kengtung: una festa indescrivibile! (“Ho rivisto i miei lebbrosi”, “Il Vincolo”, settembre-dicembre 1972, pagg. 97-98). Su p. Cesare, oltre al volume segnalato, due documentari del regista americano William Deneen, girati nel lebbrosario nel 1957 e 1961: “The Touch of his Hand” (“Il tocco della sua mano”, tradotto in italiano col titolo “La lebbrosa”) e “The Happy City” (“La città felice”). Il primo vinse nel 1958 il primo Premio in Belgio, al “Festival internazionale del film missionario”. Una scrittrice americana, Jean Maddern Pitrone, ha pubblicato nel 1982 un volume dal titolo “The Touch of his Hand” su p. Cesare (morto nel 1980).
(9) Nel 1966, dopo le espulsioni dalla Birmania dei 19 missionari più giovani, nella diocesi di Toungoo rimanevano ancora tre missionari del Pime, i padri Pietro Mora e Fermo Capoferri e fratel Ernesto Pasqualotto direttore della tipografia; a Kengtung erano 14, a Taunggyi 14: 31 in tutto.
(10) La Birmania (Myanmar dal 1989) è uno stato federale: la Birmania propriamente detta (abitata dai birmani) e gli altri stati dei karen, shan, kayah, kachin, chin, mon e arakan.
(11) Gli ultimi del Pime morti in Birmania sono stati: p. Giuseppe Fasoli (14-XI-1998), mons. G.B. Gobbato (6-VIII-1999), p. Angelo Di Meo (22-I-2000) e p. Luigi Galbusera (15-III-2000). Nell’ottobre 1999 p. Igino Mattarucco è dovuto ritornare in Italia perché le autorità birmane non gli hanno rinnovato il permesso di residenza.
(12) Paolo Noé, “La situazione del Pime in Birmania”, in “Quaderni di Infor-Pime”, n. 55, novembre 1995, pagg. 31-35. Testo preparato dal superiore regionale della Birmania per l’assemblea generale dell’Istituto del 1995.
(13) Intervistato da Roberto Beretta in “Mondo e Missione”, marzo 1993, pag. 181.
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