Le ACLI e l’emigrazione italiana in Germania (quinta puntata) — Lombardi nel Mondo

Le ACLI e l’emigrazione italiana in Germania (quinta puntata)

Il lavoro di Simonetta Del Favero analizza l’opera delle ACLI e altri Enti nei decenni della grande emigrazione italiana in Germania, nell’epoca in cui i Gastarbeiter erano essenziali per la dinamica economica e sociale della Germania e dell’Italia. Con il reclutamento del 1955 giunsero in Germania delle “persone”, non solo braccia. Con le loro storie, problemi e capacità, risorse e sogni.

3          La difficile integrazione

 

3.1  Subculture e identità familistiche

Il «comune stato di necessità» nel quale l’emigrato si trova, determinato dalla precarietà di professioni legate alle riconversioni industriali e alle innovazioni tecniche e ad un determinato periodo di tempo, oppure legate ad un reddito o ad uno status socio professionale dequalificato, che non riescono a fargli raggiungere la soglia di sicurezza economica, lo porta ad agire in base ad un «comportamento di preoccupazione» sempre alla ricerca delle opportunità di miglior guadagno e maggiori profitti.» (1). Questo va a discapito del perseguimento di una continuità nel lavoro, nella sicurezza sociale e nell’alloggio. Difatti, gli interessi economici delle aziende e la stessa condizione lavorativa dell’emigrato si ripercuotono anche sul fabbisogno e sulla carenza delle infrastrutture; baracche e dormitori, sono forniti e gestiti dagli imprenditori stessi e riservati ai propri dipendenti, questo è quanto consente il potere d’acquisto dei lavoratori emigrati. La ditta si ritrova così ad essere responsabile anche dell’organizzazione della vita privata dei propri operai emigrati ed ha di conseguenza la possibilità di regolamentarla (impedendo ad es. le visite di estranei senza una previa autorizzazione di un rappresentante della ditta), di estendere il proprio controllo sia dal punto di vista sociale sia da quello politico. Un sistema che sicuramente non puntava ad accrescere la solidarietà, ma che aveva come risultato relazioni sociali rudimentali, un reciproco isolamento e tensioni che molto spesso sfociavano in reazioni a livello psichico, causa di molte disattenzioni e di conseguenti infortuni sul lavoro. Situazioni che non si potevano cambiare se non si modificava la condizione stessa della nostra emigrazione. La funzione sociale di lavoratore, la sola riconosciuta all’emigrato, lo costringe «a quel vacuum sociale e politico in cui si trovano tutti gli emigrati che non hanno deciso o non hanno voluto decidere di considerare la loro emigrazione come definitiva» (2). La provvisorietà viene usata come giustificazione per l’inattività del settore pubblico e spinge l’emigrato a evitare qualsiasi forma di integrazione. Il suo obiettivo rimane sempre il rientro, è nel paese di partenza che egli deve migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. Un processo di acculturazione a queste condizioni diviene praticamente impossibile e viene mantenuto tale in quanto necessario per poter usare dell’emigrazione sia da parte della società di ricezione che da parte di quella di partenza. In una prospettiva di mancanza di alternative e, allo stesso tempo di promozione di speranze e illusioni, doveva essere strutturata la vita dei lavoratori italiani in Germania.

L’emigrazione italiana in Germania nel secondo dopoguerra si caratterizza per (3):   

         Provenienza meridionale ed insulare (88 %). 

         Giovanilità del contingente migratorio (età media 35 anni, il 95% degli intervistati              in Germania è compreso tra i 18 e i 54 anni) e con mobilità accentuata.   

         Vivo desiderio di rientro in patria, temporaneità dell’atto migratorio.

         Bassa qualificazione professionale e scarsa formazione di base.

         Ruralità (connessa sopratutto alla provenienza meridionale).

         Marginalità e precarietà (connessa sopratutto alla provenienza meridionale).

 

Le ipotesi che stanno alla base del meccanismo delle aspirazioni, presenti al momento della partenza, che si inseriscono nelle componenti strutturali sopra elencate e  influenzano in maniera determinante sia la percezione soggettiva, sia la possibilità di accedere di fatto ai  meccanismi della nuova società sono condizionate da:

         Retroterra culturale

         Basso livello di istruzione e di formazione di base

         Scarsa qualificazione professionale

         Configurazione di ruoli, di valori, di modelli di comportamento acquisiti in un    sistema di relazioni primarie.

Le aspirazioni, la motivazione dell’espatrio, la percezione soggettiva della condizione di necessità entrano nella definizione stessa del concetto di bisogno, della mancanza di lavoro, della  disoccupazione; da una ricerca condotta nel 1972 tra gli emigrati italiani in Svizzera e nella Rft, su un campione di 3000 intervistati, risulta che tra le cause che hanno condotto all’espatrio, la stretta necessità economica è addotta dal 55.5% degli intervistati, a cui va aggiunta il lavoro non sufficientemente retribuito e la ricerca di un lavoro migliore e di miglior guadagno per il 30%, per cui ¾ degli intervistati adducono la stretta necessità economica come motivazione principale all’espatrio. Le classi giovanili offrono una maggiore differenziazione di motivi, il 43.5% di intervistati in età 20-24 anni sono emigrati per la mancanza di lavoro contro il 66% per la classe di età 45-54 anni.

L’immagine-guida rimane il rientro appena possibile, liberi dalla condizione di necessità. Ottica che però rinforza la condizione di precarietà dell’emigrato, sotto il profilo della labilità dei rapporti con l’ambiente locale, e sotto quello della provvisorietà e unidirezionalità di inserimento nelle strutture produttive in vista del miglior guadagno, e ne condiziona la possibilità del rientro, obbligandolo a procrastinare il termine. L’andamento congiunturale del mercato del lavoro, può però anche determinare il ritrovarsi nuovamente nello stato di necessità, comportando la trasformazione delle aspirazioni in paura e disperazione o in una carica rivendicativa, e quindi il ritorno in patria per disperazione e fallimento o il riflusso contestativo verso le strutture del paese di accoglimento e di partenza. Età, grado d’istruzione e provenienza geografica sono molto legati tra loro e determinanti per quanto riguarda l’integrazione, e l’accesso ai programmi di qualificazione approntati dalle istituzioni tedesche e ai corsi di qualificazione professionale o di lingua organizzati dagli enti e associazioni per gli emigrati. Corsi che la maggior parte degli emigrati non può frequentare, considerato che la classe di età sopra i 30 anni, si caratterizza per essere quella con il più basso livello di istruzione.

 

Distribuzione percentuale degli intervistati in Germania, secondo la frequenza all’estero a corsi di lingua, di qualificazione professionale, ecc., in rapporto al grado di istruzione

Corsi frequentati            Analfab./Alfab.    Licenza elem.    Licenza media    Università

Corsi di lingua                        2,0                       8,0                       23,5                  44,0

Corsi professionali                  1,5                       5,5                       10,0                  12,5

Cultura varia                           0,5                       0,5                         3,0                   

Altri corsi                               0,5                       2,0                         1,5                  12,5

 

Totale frequentanti                  4,5                      16,0                      38,0                  69,0

 

Nessun corso                         95,5                     84,4                      62.0                  31,0

 

Totali                                   100,0                    100,0                     100,0               100,0 

 

Fonte: Favero L., Rosoli G., I lavoratori emarginati, Studi Emigrazione N.38-39, 1975, indagine effettuata su un campione di 3.000 emigrati italiani intervistati in Svizzera e Germania nel 1972.

 

Non è facile uscire dallo stato di alienazione in cui l’emigrato si trova. Un’alienazione linguistica, culturale e scolastica innanzitutto, gravissima se si considera l’importanza della  comunicazione per potersi inserire pienamente nel nuovo ambiente circostante, a cui fanno seguito quella professionale, quella alloggiativa che non consente una partecipazione attiva alla vita della società ospite, quella politica e sindacale, che si riflette nell’esclusione dall’esercizio di voto e dalla vita amministrativa locale, nella lontananza dei partiti e sindacati dagli emigrati, nella diffidenza verso queste istituzioni (che, in effetti, troppo spesso li strumentalizzano per i loro fini istituzionali), e summa di tutte quante queste forme, l’alienazione sociale, il vivere al margine, l’esclusione dalla vita sociale locale. 

Anche l’unità coniugale, ovviamente, è condizionata dal fattore economico e dalle forme di alienazione di cui sopra. Difficoltà economiche, e scarsa disponibilità di alloggi per gli emigrati, oppure la loro scarsa reperibilità, considerata la diffidenza locale all’affitto delle case ai lavoratori stranieri, sono tra le cause che comportano i seguenti dati: circa il 30% degli sposati (più del 70%) vive separato dalla moglie e circa il 44% dei genitori con figli in età scolare si separa da loro lasciandoli in Italia (percentuale che cresce col crescere dell’età)  (4).

Al suo arrivo in Germania, l’emigrato si trova ad affrontare una società, quella urbano- industriale, completamente diversa da quella da cui egli è partito, rurale- contadina. Per la prima volta affronta rapporti non più “primari”, cioè rapporti diretti di conoscenza, di parentela, di vicinato, che trovano nel piccolo “mondo paesano” il loro ruolo preciso e la loro identità, ma “secondari”, basati sul ruolo degli individui nella società, sulla funzionalità degli individui nel tessuto sociale, sulla produttività. Questo incontro provoca uno choc psicologico-culturale, egli non riesce a capire e penetrare i meccanismi della nuova società, non riesce a comunicare con gli altri perché ragiona e parla con un linguaggio diverso, non riesce ad apprendere la nuova cultura. Sperimenta così il peso dello sradicamento dall’ambiente e dalla  cultura del paese d’origine e contemporaneamente constata di essere un emarginato, di essere marginale nella nuova società. In essa egli ha un “ruolo” integrato nel tessuto sociale e produttivo non in rapporto alla sua persona, come nella società di origine, ma alla sua funzione. Il singolo immigrato, la sua famiglia, il suo gruppo risultano “anonimi”, “polverizzati” in un insieme di individui che non si conoscono e non interagiscono, di rapporti funzionali, anonimi, sia sul posto di lavoro, sia nella vita sociale e quotidiana. Il lavoro è alienato, distante e opposto al lavoro contadino ed artigianale al quale l’emigrato era abituato al suo paese, il «meccanismo di produzione conferisce un ruolo spersonalizzante che impedisce quei contatti personali su cui è basata la cultura ed il modo di vita dell’emigrato, le esigenze della produzione portano ad un accantonamento dei valori  umani. L’industria cerca forze di lavoro, non uomini» (5).

I lavoratori italiani non possiedono i requisiti che l’ambiente di lavoro richiede per inserirsi adeguatamente, come ad es. la qualificazione, e sopratutto manca anche il veicolo di comunicazione, la lingua; si accentua così l’isolamento, la solitudine all’interno di una massa sentita come ostile proprio perché non-capita e non-capibile. Il risultato è una chiusura dell’emigrato nel proprio ambiente, e l’attivazione di meccanismi di difesa: il riduzionismo delle aspirazioni, in pratica nel vivere il suo progetto migratorio come provvisorio, egli seleziona le opportunità che gli si presentano 

unicamente in funzione del guadagno e del raggiungimento immediato di una “soglia di sicurezza”, a questo fine tutto ciò che gli sembra non potergli dare una sicurezza immediata, come ad esempio la scuola, viene rimandato. Un altro meccanismo di difesa è l’accettazione e l’interiorizzazione della nuova situazione che lo vede servo alle dipendenze di una società che necessita di tenerlo in tali condizioni per prevenire conflitti sociali che potrebbero sorgere con la popolazione locale, il che comporta la valorizzazione eccessiva ed unilaterale di tutto ciò che appartiene alla cultura d’origine: i comportamenti nodali, legati alla concezione della “terra, piazza, casa- famiglia” vengono quasi ibernati al momento dell’impatto con la società di accoglimento e mantenuti in vita e lo stesso avviene anche per altri tipi di valori e di modelli di comportamento tipici della zona di provenienza. Avviene così che mentre questi ultimi non subiscono cambiamenti e modifiche sostanziali nella società di arrivo, gli stessi sono invece sottoposti ad una costante trasformazione nella società di partenza  (6) (la famiglia meridionale degli anni ’50-’60 non la si trova più nel Meridione, ma in emigrazione, constatazione che chiunque può fare incontrando all’estero una famiglia emigrata da almeno 20- 30 anni).

Il sentimento di difesa nei confronti della nuova società vista come aggressiva porta la famiglia immigrata a riaffermare e riproporre la sua identità, collegandola e confondendola con la cultura di partenza e con l’appartenenza etnica. Si hanno così una serie di reazioni, come ad es. la ripetizione, nonostante i conflitti, dei modelli di comportamento all’interno della famiglia e la ripresa di atteggiamenti, nei rapporti con gli altri, tipici della mentalità del paese. Una chiusura quindi, quella dell’emigrato, nel suo “sistema familiare chiuso”, come ancora di salvezza psicologica, sociale ed economica, e che lo porta a considerare tutto ciò che non appartiene ad esso, cioè tutto ciò che è tedesco, come ostile e pericoloso. Il rientro viene mitizzato a tal punto da divenire una giustificazione della propria esistenza, interiorizzato al punto da essere il motivo che permette di accettare umiliazioni e frustrazioni, successi e sconfitte; il modo di concretizzare la propria identità etnica e culturale, il mezzo concreto per giustificare il riduzionismo delle aspirazioni e la non-volontà di inserimento e di integrazione nella società tedesca (7).

Col passare del tempo però gli obiettivi iniziali del progetto migratorio risultano sempre meno realizzabili, si riversano allora sui figli le aspirazioni dei genitori, in quanto essi rappresentano l’unica possibilità di inserirsi e mantenersi nel dinamismo ascendente della scala sociale, il solo modo con cui gli esclusi ed i marginalizzati continuano a sperare e a vivere. La società però non sempre sostiene queste aspirazioni, e la proiezione diventa, pertanto, veicolo di conflittualità: le conflittualità vissute e sentite dai genitori vengono proiettate, assieme alle aspettative ed alle aspirazioni, sui figli. Un  momento delicato per la famiglia che scontrandosi con una concezione diversa del nucleo familiare e dei suoi membri, si ritrova esposta al pericolo di rotture e fratture al suo interno. L’incontro con il nuovo sistema familiare aperto senza l’apporto, da parte della società, di servizi adeguati, non le consente di utilizzare in modo critico quanto le trasformazioni sociali le forniscono ai fini educativi dello sviluppo e della crescita interna.

I ruoli tradizionali totalitari subiscono inevitabilmente la nuova società; il marito capofamiglia, seppur integrato nell’ambiente di lavoro, cerca di mantenere la propria famiglia al di fuori delle nuove forme e rapporti sociali, con l’effetto di sviluppare  all’interno di essa forti incomprensioni che spesso lo portano ad essere uno scontento ed un insoddisfatto. La moglie, la più direttamente coinvolta dalle esigenze economiche del nuovo sistema di vita, difende nei confronti del marito nuovi diritti o nuove convinzioni, mentre non cessa di trasmettere, in particolare nelle proprie figlie, le idee e la mentalità della regione di provenienza. I figli poi devono affrontare oltre ai problemi scolastici e professionali, anche la mancanza di sostegno da parte dei genitori e il non riuscire più ad accettare la loro mentalità.(8)

Anche l’inadeguatezza dell’alloggio- ghetto costituisce un limite all’integrazione della famiglia in quanto impedisce la possibilità di visite e scambi con la popolazione locale o con gli stessi italiani ed inoltre, spesso, porta alcuni elementi della famiglia, in particolare i mariti ed i giovani, alla ricerca di evasione (locali pubblici e strada).

L’integrazione presuppone la conoscenza del linguaggio, ma, da una ricerca effettuata dal Caritasverband di Friburgo, risulta che ancora negli anni 1970-72 il 47% degli italiani è tagliato fuori da qualsiasi possibilità di rapporto con la società locale, in quanto solo il 10% conosce la lingua ed il 37% la conosce quel tanto sufficiente per capire il lavoro affidato dal Meister; pertanto, 2/5 degli italiani hanno scarsi rapporti al di fuori del cerchio chiuso della famiglia e dei compagni di alloggio, ad eccezione dei giovani sotto i 30 anni che per il 60 % trascorrono il loro tempo libero nei locali pubblici. Il 47% degli intervistati non intrattiene rapporti con i locali al di fuori del lavoro, mentre il 28% ne intrattiene attraverso contatto e visite periodiche (9).

«Quanto di questa lingua doveva essere imparato? Solo le parole necessarie, a non fare errori sul lavoro e per non rischiare incidenti? O il tanto, di cui si ha bisogno per poter vivere in questo paese come persone libere e capaci di capirne i valori, la storia, la letteratura e l’arte? (10)»

Conoscere la lingua locale significa anche poter entrare in contatto con il sistema di comunicazione, e quando questo non è possibile, la conoscenza delle opportunità, la loro valutazione, l’attribuzione di valore alle diverse situazioni e la creazione di immagini-guida e di modelli da cui poi nascono aspirazioni e comportamenti, avviene attraverso l’utilizzo del sistema del filtro familiare e amicale. Un’altra conseguenza del carattere di provvisorietà dell’emigrazione, infatti, mancando lo stimolo stesso per l’integrazione, non ci può essere nemmeno la volontà per l’emigrato di frequentare una scuola per apprendere la lingua e conoscere la società nella quale lavora. Pertanto saranno preferite le frequentazioni sociali con compaesani, con persone della stessa lingua, favorendo così l’isolamento ed un livello di solidarietà gregario fra gli stessi operai, fonte non di integrazione ma di ghettizzazione. 

La tendenza ad utilizzare le catene di richiamo familiare o compaesane è risultata crescente sin dall’inizio del flusso migratorio: una tendenza all’in-group (11) che si esprime  nel rafforzamento delle catene della solidarietà paesana o regionale e nel peso che il gruppo sociale esercita sulle scelte e sulle informazioni (dalla Inchiesta del Formez del 1977 sulle aree d’esodo del Mezzogiorno interno: quasi il 56% degli emigrati dalla Sicilia interna si è diretto dove già si trovavano dei familiari, il 23.5% dove erano dei compaesani). Anche la ricerca della casa e delle occasioni di lavoro viene filtrata ed appoggiata dal gruppo primario (fonti di informazione sulle occasioni di lavoro sono per il 47.7% i familiari e per il 26% la rete amicale, solo il 21% sono quelli che hanno trovato lavoro ricorrendo agli uffici pubblici ed ai canali ufficiali, prima di lasciare il paese, Formez, 1977). Questo andamento è andato crescendo (dal 47% fino al 1956 al 55% dal 1967 in poi) sia perché la regolamentazione comunitaria sulla libera circolazione ha permesso di saltare i canali degli uffici di collocamento o di emigrazione e sia perché la diffusione dell’emigrazione ha creato una fitta rete di relazioni familiari e paesane collegate con le principali zone di immigrazione, interne come estere . (12)

Il sistema di relazioni primarie, familiari e amicali, nella sua funzione di mediatore del rapporto diretto, continua poi ad essere utilizzato anche nel vivere la quotidianità della società, ad esempio per poter accedere ai vari uffici delle amministrazioni e degli organismi con cui si deve o si vuole entrare in contatto. Sono la famiglia o i figli che studiano nella scuola locale che consentono all’emigrato di sbrigare le pratiche presso gli uffici nazionali. Si continua pertanto a permanere in una condizione di necessità, dove il lavoro più redditizio è l’unica preoccupazione; l’emigrato non si stimola ad uscire dal suo stato e ad apprendere la lingua locale e quindi ad avere rapporti sociali con l’esterno, privilegia i rapporti necessari con alcune persone della  comunità locale come ad esempio il Meister della fabbrica o il collega di lavoro, ma non va oltre questi contatti. Anche perché considerate le condizioni di lavoro che comportano la forte mobilità professionale, si pensi che ancora nel 1970-72, per ¾ dei lavoratori questo avveniva entro il primo anno di permanenza all’estero e per il 42 % entro il secondo (13), la situazione di totale incertezza che si produce, dipendente dai contraccolpi economici, ha nell’amicizia e nel familismo l’unica protezione, il sostegno primario, e implica la chiusura della comunità nell’ambito di questi rapporti. L’isolamento è il frutto di un mondo in cui c’è l’egoismo del capitalismo, la lotta per il lavoro tra gli stessi emigrati, il non potersi staccare da una realtà che non soddisfa. In questo stato d’animo l’emigrato rifiuta tutto ciò che è potere e si crea una propria rete di protezione, il clan dei parenti o il gruppo di compaesani.

La società di partenza non prepara psicologicamente l’emigrato e ugualmente avviene nella comunità di arrivo che si trova impreparata all’integrazione dello straniero; il rancore che l’emigrato sviluppa dal sentirsi isolato dalla nuova società e dall’essere stato costretto da quella di provenienza a questa esperienza, lo porta spesso o ad un vittimismo masochistico o all’esaltazione retorica di compiere un servizio di prima linea per il quale gli deve essere riconosciuto ogni diritto. (14)

L’atteggiamento del tedesco medio nei confronti dei lavoratori ospiti è da un lato propenso all’eguaglianza e dall’altro pieno di risentimento e pregiudizi nazionalistici, pregiudizi difficili da far cadere, considerato che solo una piccolissima parte di tedeschi ha contatti privati con i Gastarbeiter; la massa operaia li considera dei concorrenti, mentre chi non ne teme la concorrenza sul posto di lavoro, li considera un fenomeno utile (15). «Anche perché, poi, la mancanza di rapporti con la Comunità sociale che caratterizzava il nostro paese, contribuiva a non far conoscere la vera realtà dell’emigrato che in Italia come in Germania continuava ad essere visto nelle sue due manifestazioni estreme dell’assoluto indigente oppure di quello che partendo con la valigia di cartone torna miliardario, cosicché la risoluzione della sua situazione non era sentita come necessità di massa ma solo nei singoli casi personali (16)».

«… Questa emigrazione che parte da un ambiente sorretto solo da rapporti primari, si inserisce in un ambiente altamente industrializzato, si vengono così a costituire dei ghetti che sono conseguenze ed espressioni di un sottosviluppo sopratutto socio- culturale e rendono impossibile una osmosi tra una società avanzata ed una minoranza che è prima di tutto una vera società ad un diverso sviluppo. … Si tratta  pertanto di capire il fitto tessuto di rapporti e di valori che reggono alla base il senso d’identità degli emigrati» (17). 

L’integrazione è un processo reciproco a lungo termine, ma né l’Italia, né la Germania hanno mai dichiarato di essere favorevoli ad essa, l’atteggiamento di entrambi è sempre stato quello di considerare “passeggero” il fenomeno dell’emigrazione; tanto che la Germania non si è mai definita “paese d’immigrazione”e pertanto non si è neanche mai dotata di uno statuto degli immigrati. Una perversa politica d’integrazione.

«… preparare per il domani quegli stranieri che dovranno concorrere al benessere della società e allo sviluppo dell’economia tedesca, rendendoli non troppo dissimili dai tedeschi nella mentalità e nella lingua, pur lasciandoli alla loro cittadinanza di origine e perciò senza diritti politici in Germania. …Non un vero processo integrativo, ma una integrazione voluta e pilotata dagli interessi politici,  economici, e sociali a breve e medio termine senza troppa attenzione per le persone» (18).

Lo stesso continuo utilizzo del termine Gastarbeiter per definire i lavoratori emigranti è indicativo di quale è stata negli anni la politica tedesca nei loro confronti, nei confronti dei lavoratori ospiti. E, come ospiti, cioè come persone che prima o poi devono andarsene sono stati trattati a livello politico e civile. Su quali basi poteva essere intrapresa una qualsiasi politica nei loro confronti, dal momento che non veniva neanche considerato il loro status di immigrati, con una negazione costante negli anni del loro riconoscimento?

Grandi colpe le ha sopratutto l’Italia, che nel momento in cui ha optato per una scelta importante quale quella dell’emigrazione ha consentito che centinaia di migliaia di persone lasciassero il nostro paese in forme più da deportazione che non da esseri umani che cercano altrove un migliore destino. In Italia è sempre mancata una politica dell’emigrazione intesa come intervento tempestivo e responsabile del Governo e del Parlamento per impiegare all’estero a condizioni, di lavoro e di vita, ottimali i nostri lavoratori. Gli accordi bilaterali conclusi dal nostro governo con quelli di emigrazione non possono essere considerati strumenti di politica generale dell’emigrazione. Se politica ci fosse stata, i nostri connazionali all’estero non sarebbero dovuti diventare il sottoproletariato europeo, sacche di depressione umana, estranee alla stessa classe operaia locale ed alla dinamica dell’internazionalismo operaio. Il concetto dell’emigrazione come fatto ineluttabile, non dannoso, per certi aspetti proficuo, di interesse personale e privatistico è prevalso per troppo tempo ed ha comportato che solo  negli anni ’70 il migrante sia stato riconosciuto come soggetto titolare di diritti civili e politici. (19)

Si obietterà che una politica dell’emigrazione in Italia c’è stata dal 1947 ad oggi, ma d’altronde c’è stata anche una politica agraria, una politica meridionale, una politica economica dei governi e delle classi dirigenti, politiche che però hanno rifiutato la scelta delle riforme e dello sviluppo equilibrato del paese e come tali, si sono rivelate cause del dramma emigrazione.

«Lo squilibrio Nord- Sud non è stato ridotto, l’esodo dalle campagne e dal meridione è stato rovinoso. Le classi dirigenti hanno ritenuto giusta la concentrazione dei capitali al nord, confidando in uno sviluppo del sud conseguente a quello del nord. Scelte errate e fallimentari. I governi non sono nemmeno intervenuti per rendere migliori le condizioni di vita e di lavoro degli italiani all’estero, sfacelo della politica della scuola, baracche al posto di case, discriminazione per difetto dei trattati stipulati con superficialità e in assenza dei rappresentanti degli emigrati, oppure per la mancanza di rispetto di altri trattati meno sfavorevoli. Politica che è stata contrastata per anni dalle forze che rappresentano gli interessi degli emigrati, le cui proposte però, solo oggi, vengono riconosciute come serie e giuste (20)».

Appartamento, alloggio comune, baracca sono i luoghi, sopratutto gli ultimi due, maggiormente adibiti ad abitazione. Vivere in un alloggio comune, non significa solo dormitorio e refettorio comuni, ma anche vivere il proprio tempo libero collettivamente; una partecipazione collettiva ben diversa però da quella della comunità rurale di partenza e che comporta anche dover lasciare la propria famiglia in Italia.

 

                       Situazione degli alloggi degli operai italiani in Germania (in %) 

                                  

Nazionalità                        Appartamento privato

Italiani                                   57                                          

Totale stranieri                      61    

                                

Appartamento di proprietà o sotto amministrazione del datore di lavoro

                        Caserma di  fabbrica                Alloggio di fortuna            Appartamento

Italiani                          30                                           7                                 6

Totale stranieri             25                                           6                                 5

 

Fonte: Erfahrungsberich, 1968, p. 23, in Blumer G., L’emigrazione italiana in Europa,

Feltrinelli, Milano, 1970

 

 

L’esclusione degli immigrati non produttivi (famiglie) o di quelli disoccupati è una conseguenza dei meccanismi di controllo dell’emigrazione, la presenza della famiglia comporta, infatti, una tendenza alla stabilizzazione e all’interruzione del circuito della mobilità, sia interna, sia col paese d’origine; sono pertanto funzionali al sistema la difficoltà di trovare un alloggio decente, le baracche, i Wohnheime (“asili di abitazione”, erano definite così le caserme, generalmente di proprietà della fabbrica, dove dormivano gli emigrati); nel 1965 ben il 60% del totale degli operai stranieri presenti in Germania, viveva in tali ambienti (21).

Le baracche erano solitamente costruite in legno, dotate di molte camerette nelle quali erano piazzati da tre a quattro letti, talvolta uno sopra l’altro. Lo spazio disponibile era minimo, mancavano armadi, tavoli, …, i vestiti rimanevano nella valigia che si trovava 

sotto il letto (giusto per non far perdere il sentirsi temporanei e l’aspirazione al rientro); per ogni baracca era quasi sempre previsto un vano con un tavolo ed un altro con i fornelli e le provviste, un gabinetto ed una doccia completavano il tutto.

Una ghettizzazione addirittura “incoraggiata” dal governo che mise a disposizione prestiti per quelle industrie che decidevano di impiantare una caserma di fabbrica con più di 100 letti; un fondo speciale annuo che, per dare un’idea, nel 1965 era di 230 milioni (22), mentre lo stesso interesse non si manifestava nei programmi di edilizia popolare, i quali non comprendevano gli emigrati, il vero e proprio sottoproletariato. 

La permanenza in baracca è maggiore rispetto ad altre forme di alloggio collettivo e trova la sua spiegazione nel perdurare della condizione di necessità e nell’atteggiamento riduzionista dell’emigrato portato a massimizzare i risparmi, atteggiamento che si alimenta con l’aspirazione al rientro in patria, in pratica la sistemazione precaria è ricercata in funzione di un maggiore risparmio che renda possibile anticipare il rientro.

 «Uscirne, ritrovare un minimo di possibilità di comunicazione e di vita sociale, ricongiungersi alla propria famiglia diventa allora un lusso, una spesa che spesso porta via oltre la metà del salario» (23). 

Ma non solo una questione prettamente economica, infatti il binomio alloggio-lavoro è di fondamentale importanza  per la permanenza in Germania, l’assunzione di operai nelle fabbriche avviene solo in presenza di possibilità d’alloggio e pertanto se questo non si trova o viene a mancare naufraga la possibilità di impiego nelle fabbriche. Un binomio che spesso era utilizzato dagli stessi uffici del lavoro come meccanismo selettivo della manodopera immigrata. Una situazione generale favorita, indirettamente, anche da quelle norme che dovevano invece tutelare gli interessi degli emigrati, come nel caso del Regolamento CEE sulla libera circolazione, che all’art. 10, par. 3 stabilisce:«il lavoratore comunitario deve disporre per la propria famiglia di un alloggio che sia considerato normale per i lavoratori nazionali…», e all’art. 9, par. 1 e 2 «la sua famiglia, rimasta nel paese, è considerata come se risiedesse all’estero» per quanto riguarda i titoli che il lavoratore può avanzare per l’ottenimento dell’alloggio in affitto o proprietà. Queste norme però non erano interpretate come una sanzione del diritto dell’immigrato CEE ad avere un alloggio decente e a poter essere raggiunto dalla famiglia, ma nel senso che il rilascio del permesso di soggiorno doveva essere condizionato dall’accertamento preventivo sull’idoneità dell’alloggio. Pertanto le autorità tedesche potevano rimpatriare quando volevano una famiglia che non fosse alloggiata «convenientemente» o fingere di ignorare situazioni di alloggio sconveniente. La conseguenza era che molti emigrati erano costretti a sottostare ai ricatti di “agenzie” che sottoponevano loro affitti sempre più esosi per vere e proprie catapecchie sotto la minaccia di far conoscere alle autorità comunali situazioni di sovraffollamento delle stanze, di promiscuità nei letti, di figli nascosti, non registrati, che avrebbero comportato il ritiro del permesso di soggiorno. Infatti, come dimostra un’indagine effettuata dal Kölnische Rundschau del 25 ottobre 1970, «gli italiani, o non possono permettersi una casa nuova o, se lo possono, sono indesiderati come vicini. E così non resta loro che cercare le case cadenti o in demolizione, affidarsi a loschi intermediari. Ma è un circolo vizioso, perché dopo una paio di mesi vengono sfrattati”. La truffa delle agenzie consiste nello sfrattare dopo un po’ di tempo l’inquilino con il pretesto che la casa deve essere demolita, dopo lo sfratto si riaffitta la casa ad un altro ad un 

affitto maggiore oppure, allo sfrattato che non vuole o non può andarsene viene proposto un affitto maggiore, un nuovo contratto, un nuovo supplemento per l’agenzia, a pena di intimidazioni da parte, o di denuncia presso le autorità comunali per le precarie condizioni di vita all’interno delle stanze, nel caso non accetti le nuove condizioni. Le agenzie approfittano della totale ignoranza in cui si trova il Gastarbeiter, del complesso di ospite che gli cala addosso appena trova quello che in patria non ha mai avuto, cioè un lavoro, e della reale carenza di case che colpisce gli stessi tedeschi. I Gastarbeiter pagano laute tasse al governo e per loro il governo spende somme ridicole che vanno dai 60 pfenning a testa all’anno nella zona di Monaco, a 3 marchi (al 1970). I rimedi tentati quali gli affitti agevolati, gli aiuti per l’acquisto di una casa in proprio sono insufficienti ad affrontare la situazione, in quanto per costruire nuove case popolari sarà necessaria nuova manodopera e pertanto nuovi Gastarbeiter, cioè nuovi alloggi… (24)». La scarsità di alloggi non colpisce solo gli emigrati ma anche i tedeschi,  conseguenza di uno sviluppo delle grandi aree industriali preoccupato più delle economie di scala degli insediamenti industriali che non della creazione di un’adeguata struttura di servizi sociali per la forza lavoro che vi veniva richiamata.

Intanto ancora nel 1970-’72, solo il 50% degli emigrati viveva in un alloggio unifamiliare, gli altri in alloggio collettivo, o con altre persone in appartamento, o in baracche. Oltretutto questi locali non erano sicuramente adatti ad ospitare persone, infatti, un’inchiesta campionaria, svolta verso la fine degli anni ’70 per conto del Ministero del Lavoro del Nord Reno- Vestfalia, rilevò che  il 40% delle case dei Gastarbeiter era senza cucina, il 64% senza WC, il 13% senza acqua corrente; e  il giornale Der Spiegel, sempre negli stessi anni, elencava dove essi vivevano: box di legno, fabbriche in disuso, case in demolizione. Per quanto riguardava poi “il posto letto”, spesso era a rotazione, secondo i turni di fabbrica e, nelle famiglie, il 70% ne aveva a disposizione meno di uno per persona, il che si traduceva in coniugi costretti a dormire in un lettino, bambini che dormivano ammassati, casi di incesto e violenza, e mancanza di rapporti con altri connazionali per pudore e vergogna di riceverli in tali mura “domestiche”.  Simili condizioni non potevano non tradursi in ghettizzazione ed isolamento, aggravati in particolar modo dal fatto che le case assegnate oltre ad essere scadenti o a trattarsi di baracche, erano site solitamente in periferia; da cui un’ulteriore estraneità e marginalità rispetto alla vita della società ospite. 

Una precarietà voluta e ricercata, l’emigrazione non doveva perdere il carattere provvisorietà che l’ha caratterizzata sin dal suo inizio. Consentire che i  2/5 degli emigrati che cambiavano abitazione entro il primo anno, e quelli, più della metà, che lo facevano ogni 2 anni, avessero una casa decente e sopratutto vivibile, sarebbe significato dare alla permanenza del lavoratore straniero il carattere della stabilità. Sarebbe significato cambiare completamente la politica tedesca nei confronti dell’emigrazione, il riconoscimento ufficiale della Germania come paese di immigrazione. Questo non era certo quanto si voleva ottenere. Ed ecco perché si   consentiva che migliaia di persone vivessero in condizioni tali da far insorgere gli stessi tedeschi che negli anni ’70 si affiancarono ai Gastarbeiter nelle lotte per il riconoscimento dei loro diritti.

 

Tratto dalla tesi “Le Acli e i Gastarbeiter italiani in Germania” discussa, presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Cagliari, da Simonetta Del Favero.

 

Note:

(1)  Favero L., Rosoli G., I lavoratori emarginati …, op. cit., p. 249.

(2)  Blumer G., op. cit., p. 300.

(3) dati tratti da una ricerca effettuata nel 1972 su un campione di 3000 emigrati italiani in Svizzera e Germania: in  Favero L., Rosoli G.,op. cit., p. 171.

(4)  dati tratti da Favero L., Rosoli G., op. cit.

(5)  Pozzi T. in, Deutscher Caritasverband Servizio Sociale per i lavoratori di Freiburg: Atti del Convegno: La situazione socio- politica dell’emigrazione  italiana in Germania e le prospettive dei Servizi Sociali del Deutscher Caritasverband,  p. 30.

(6)  La famiglia Immigrata, in Fenomeno delle Migrazioni Moderne nella RFT, TEOLOGIA PER CORRISPONDENZA, CORSO DI APPROFONDIMENTO, dispensa 24 A, CSER, Roma, s.d.

(7)   La famiglia Immigrata, op. cit.

(8)  Pozzi T., op. cit.

(9)  Pozzi T., op. cit., p. 22

(10)  Di Meola N., cit. in Rosati D., Von den Baracken zur Kommunalwahl: Die Arbeit Des Acli, Alborino R., Pölzl K., Italiener in Deutschland. Teilhabe oder Ausgrenzung?, Lambertus, 1998, p. 85, traduzione a cura di chi scrive.

(11)  Dossier Europa emigrazione 1977, op. cit.

(12)  Dossier Europa emigrazione 1977, op. cit.

(13)  Pozzi T., op. cit.

(14)  Selva G.,  in UCEI, op. cit.

(15)  Macrelli R., La situazione dell’emigrato nella Rft, in Rivista di Sociologia, Anno X, N.1-3, Gennaio-Dicembre 1972.

(16)  Gustavo Selva, in UCEI, op. cit.

(17)  Pozzi T., op. cit., p. 27.

(18)  Negrini A., Emigrati italiani in Germania e collaborazione tra le chiese, in Naro M. (a cura di), Amicitiae Causa, Scritti in onore del Vescovo A.M.Garsia, Centro studi sulla cooperazione Arcangelo Cammarata, S. Cataldo (Caltanissetta), 1999,  p. 664/5.

(19)  A.N.F.E, in Ucei, op. cit.

(20)  F.I.L.E.F., in Ucei, op. cit.

(21)  Blumer G., op. cit., p. 277.

(22)  Blumer G., op. cit.,  p. 278.

(23)  AA.VV., La Germania Federale, Mazzotta, Milano,1974, p. 109.

(24)  Indagine effettuata dal Kölnische Rundschau, 25 ottobre 1970, in Macrelli R., op. cit.

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