Le ACLI e l’emigrazione italiana in Germania (sesta puntata) — Lombardi nel Mondo

Le ACLI e l’emigrazione italiana in Germania (sesta puntata)

Il lavoro di Simonetta Del Favero analizza l’opera delle ACLI e altri Enti nei decenni della grande emigrazione italiana in Germania, nell’epoca in cui i Gastarbeiter erano essenziali per la dinamica economica e sociale della Germania e dell’Italia. Con il reclutamento del 1955 giunsero in Germania delle “persone”, non solo braccia. Con le loro storie, problemi e capacità, risorse e sogni.

3.2       La scuola tra programmi di integrazione e meccanismi di emarginazione

“… le relazioni sociali dell’emigrato sono condizionate dal problema della lingua e quelle culturali dal suo grado di istruzione”  (1). 

Per la mancanza di conoscenza della lingua, la maggior parte degli emigrati non era in grado di intrattenere rapporti sociali con la comunità locale.

 

Distribuzione degli intervistati in base al grado d’istruzione

(1972)

Grado di istruzione                   Germania         Totale              Popolazione Italiana 1971

(da 14 anni in poi)

Analfabeti                                6,9                   5,0                   6,1

Alfabeti                                   25,6                 17,8                 14,7

Privi di titolo di studio              32,5                 22,5                 20,8

 

Licenza elementare                  49,0                 54,5                 51,7

Licenza media inferiore            16,9                 19,5                 17,1

Diploma                                  1,0                   2,1                   8,0

Università                                0,3                   0,6                   2,1

Forniti di titolo di studio           67,4                 77,1                 79,1    

 

Fonte: Favero L., Rosoli G., I lavoratori emarginati, Studi Emigrazione N.38-39, 1975, indagine effettuata su un campione di 3.000 emigrati italiani intervistati in Svizzera e Germania nel 1972.

 

Si potrebbe pensare che i bambini, figli degli emigrati, siano stati favoriti nel loro sviluppo culturale dall’essere cresciuti in emigrazione venendo a contatto con una realtà ricca di stimoli. I dati che però, ad es. ci fornisce Tarcisio Pozzi (2), sulla percentuale di evasione scolastica che nel periodo 1970- 72 è stata del 23-40%, oppure le statistiche pubblicate dall’Ufficio federale del lavoro di Norimberga del 1968, secondo le quali i figli di operai italiani in età scolastica erano 119.000, e di essi solo 35.000 andavano a scuola, 20.000 erano invece in apprendistato, e 13.000 andavano all’asilo, dimostra il fallimento delle politiche scolastiche per larga parte di questi ragazzi.

Il problema della scuola si è posto per i nostri emigrati sin dall’inizio. Ogni tipo di scuola è messo in crisi con l’emigrazione, in quanto in questa situazione si deve cercare di formare una persona che, contemporaneamente sia in grado di nuove aperture e dinamismi e di conservare i patrimoni culturali di entrambi i paesi, ed inoltre deve essere messa nella condizione di identificarsi in rapporto con tutti gli altri. L’identificazione non può però prescindere dal linguaggio. Una percentuale altissima di bambini italiani giungeva in Germania in un’età compresa tra gli 8 e i 10 anni, privi in troppi casi della conoscenza non solo del tedesco, cosa ovvia, ma anche dell’italiano che costituiva per loro una realtà completamente estranea al proprio mondo espressivo. La conoscenza di una lingua si limitava al dialetto parlato in famiglia, il quale però, ridotto alle sue strutture più primitive, perdeva ogni sua funzionalità, contribuendo così alla povertà del  linguaggio e con essa ai problemi che ne conseguivano per le facoltà logiche, isolando sempre più il bambino. La lingua, venendo a mancare, non consentiva al ragazzo la conquista dell’ambiente circostante e, non fornendogli gli strumenti 

conoscitivi più atti a questo fine, lo portava all’isolamento ed alla ghettizzazione. Il giovane sviluppava un rifiuto dei compagni di scuola e di gioco che non capiva e dai quali non era capito, e solidarizzava sopratutto con gli altri ragazzi stranieri, creando così sin dall’infanzia forti barriere all’integrazione.

Impedimenti che si determinavano anche quando la scelta fatta dalla famiglia era quella di mandare i propri figli a scuola in Italia. I bambini venivano così inviati al paese di origine, dove o uno dei genitori o qualche parente badava loro. Una situazione difficile per la famiglia, che sfavoriva la socializzazione dei figli rimasti presso i parenti, sia nel rapporto intrafamiliare che nel perseguimento dei fini istituzionali dell’educazione scolastica.

 

L’isolamento sociale della famiglia «spezzata» spesso generava un atteggiamento di noncuranza e di distacco per tutto ciò che avveniva oltre il contesto sociale più immediato (3). La socializzazione primaria condotta da sostituti dei genitori, provocava, infatti, una mancanza di sicurezza e di apertura che rendeva più difficili al figlio di emigrati, rimasto senza uno od ambedue i genitori, i rapporti sociali e l’inserimento nelle istituzioni. Si andava in tal modo a creare non solo una divisione del nucleo familiare ma anche giovani che “formati” nella società d’origine con tali premesse avrebbero poi dovuto inserirsi nella nuova società senza averne i mezzi adeguati.

Si trattava allora di decidere quale forma di scuola fosse la più adatta alla situazione dei ragazzi immigrati, quale avrebbe potuto salvarne il potenziale di intelligenza e di creatività: classi di inserimento, scuola a due uscite, modello bavarese, classi nazionali…

Il discorso però troppe volte si è indirizzato solo sullo strumento da utilizzare, tralasciando di risolvere i presupposti, le situazioni che stanno alla base. L’azione delle autorità tedesche e di quelle italiane, è stata molto superficiale, incompleta e parzialmente applicata nei suoi regolamenti. E’ mancata la volontà politica, i finanziamenti finanziari adeguati e le infrastrutture; una posizione “comprensibile” se la si considera in rapporto alle esigenze del mercato del lavoro tedesco che avendo 

bisogno di forza lavoro ed, allo stesso tempo, della sua temporaneità, attuava un integrazione solo parziale. Meno comprensibile, invece, per quanto riguarda il governo italiano, il quale si è limitato dopo un silenzio legislativo di 33 anni, all’emanazione della legge n. 153 del 3 marzo 1971, rivelatasi però carente ed inadeguata alle esigenze reali, dopo anni di presenza puramente formale sul suolo tedesco delle direzioni didattiche italiane (4). Gli insegnanti italiani il più delle volte erano insufficientemente preparati, seppur volenterosi, non avevano la minima attrezzatura pedagogica per affrontare un tale compito, (d’altronde non esistevano corsi di  preparazione per questi insegnanti né in Italia, né in Germania), dipendevano dal governo tedesco, ma la scuola tedesca non forniva loro speciali sussidi didattici, e per essi il nostro governo non spendeva una lira. I maestri italiani in Germania, dai dati forniti dalla Direzione Generale dell’emigrazione, Ministero degli Affari Esteri, nella Relazione per il 1969, sono 269 e di questi soltanto 14  di ruolo, a fronte dei 119.000 bambini in età scolare. Il discorso scolastico della politica italiana è stato purtroppo sempre quello del “minimo indispensabile”. La collaborazione tra il Ministero degli AA. EE e quello della P. I. era solo tecnica, il primo era l’unico responsabile delle scuole e degli istituti di cultura all’estero, mentre il secondo era l’organo tecnico. Gli insegnanti prima erano scelti dal ministero degli AA. EE, e solo dal 1969 dovettero sostenere un esame d’idoneità per accertare le loro capacità; certamente insufficiente se si pensa che non era previsto alcun corso di formazione prolungato per garantire loro una maggiore preparazione. I 255 insegnanti non di ruolo erano scarsamente preparati, si trattava di persone che anziché avere la qualifica di fresatore o muratore, avevano un titolo di studio che li abilitava ad insegnare nelle scuole elementari, e sceglievano l’insegnamento non tanto per vocazione o per capacità quanto perché a loro più congeniale (5); inoltre spesso erano essi stessi Gastarbeiter scarsamente integrati, per lo più meridionali e non avevano la minima attrezzature pedagogica per affrontare un tale compito.

Oltretutto l’insegnante spesso era lasciato solo, o al massimo, quando questo era possibile, poteva contare sulla collaborazione di alcuni genitori, nel collaborare attivamente con le autorità locali per far comprendere le esigenze degli studenti italiani figli di emigrati. Una collaborazione molto importante, infatti, comportava che «i ragazzi siano favoriti, nella loro formazione personale, a sintetizzare e armonizzare in sé gli elementi delle due culture, e possono arrivare ad una capacità di convivenza serena» (6). Si riusciva in tal modo ad evitare che con l’inserimento dello studio della lingua e della cultura italiana si creasse un’opposizione con le altre lezioni, causa spesso nei ragazzi di reciproche ostilità tra le due mentalità che li portavano a schierarsi da una parte o dall’altra.

Il discorso scolastico italiano doveva essere il linguaggio dei valori, pluralistico e legato alla realtà dell’emigrazione, non si poteva rimanere su un discorso retorico e astratto, lontano dalla situazione vissuta dai ragazzi ed incapace di fornire loro i mezzi per affrontare i problemi che richiedevano capacità di iniziativa e di collaborazione e non solo teoria. La scuola, anche quella italiana all’estero, doveva smettere la concezione elitaria che l’aveva caratterizzata sin dall’inizio, e costituire per la collettività italiana del luogo un’opportunità di comunicazione, di promozione, di ritorno alle sue radici culturali e allo stesso tempo un elemento di saldature e di scambio con il popolo ospitante. Sostenere il patrimonio culturale d’origine per mettere la collettività italiana all’estero in condizione di effettuare uno scambio culturale valido e costruttivo con le comunità locali. Ma il problema della scuola è sempre stato analizzato considerando l’emigrazione come provvisoria, e la scuola è stata nel migliore dei casi un luogo di intrattenimento e di sorveglianza dei bambini stranieri, nonostante le tasse che i genitori versavano allo stato tedesco ed alle rimesse che inviavano in Italia.

“Il problema dei Gastarbeiterkinder nelle scuole tedesche è che si tratta di bambini che appartengono alla classe sociale più debole. La discriminazione linguistica è solo un’etichetta aggiuntiva rispetto a quella sociale, ben più sostanziale, che grava sulla loro possibilità effettiva di formazione” (7).

La riduzione della problematica culturale al solo momento scuola, intesa come spazio della giornata che va dalle 8 alle 13, ha fatto troppo spesso scordare l’importanza del fattore ambiente nell’integrazione, per il superamento del ghetto minore (immigrati) e del ghetto maggiore (locali), per l’inserimento del discorso dell’integrazione scolastica dei figli unitamente a quello dell’integrazione della famiglia immigrata nella società. Infatti, poiché «L’ambiente è la prima fonte di stimoli essenziali nell’educazione» (8), non deve essere dimenticato che l’appoggio della famiglia è fondamentale per il processo di integrazione. Non tenerlo in considerazione, da parte di chi di dovere, nel momento di formulazione di qualsiasi iniziativa e politica, significava ovviamente non voler giungere a tale risultato.

“Schlüsselkinder”, bambini con la chiave al collo, così venivano definiti i bambini emigrati, dal momento che quando uscivano di casa e quando vi tornavano i genitori erano al lavoro, in casa non c’era nessuno e dovevano fare tutto da soli. Lo scarso interesse da parte dei genitori, situazioni familiari di disagio e tensione, l’ubicazione della scuola, la consistente mobilità territoriale delle famiglie da cui la provvisorietà del nucleo familiare e la non sufficiente valutazione delle necessità scolastiche dei figli e lo sfruttamento lavorativo dei ragazzi in età scolastica, costituivano l’ambiente in cui il bambino doveva vivere. Un disagio forte all’interno della propria struttura familiare in una situazione generale di emarginazione a cui andava incontro l’alunno anche per la difficoltà linguistica, all’interno come all’esterno della scuola, con la conseguenza diretta dello sviluppo di complessi e reazioni di vario genere, che il più delle volte sfociavano in aggressività e criminalità.

Motivi economici, scarsa cultura e analfabetismo sono i motivi principali dello scarso interesse dei genitori. Oltretutto molti italiani ignoravano completamente che la scuola tedesca fosse, per legge, una struttura al loro servizio, e se anche lo sapevano, diffidavano di essa come di un qualcosa che poteva portar via loro il figlio; si temeva infatti che il contatto con la nuova realtà, considerata troppo diversa da quella di origine e l’inserimento al suo interno potesse portare i giovani a preferirla non consentendo più alla famiglia il rientro in patria. Frequentando la scuola locale i figli apprendevano la lingua tedesca a scapito della lingua materna, il che comportava difficoltà di comprensione all’interno della famiglia e l’allontanamento dei giovani dalla cultura e dall’identità culturale d’origine. D’altronde la struttura scolastica non si caratterizzava tanto per la volontà di integrazione, quanto invece per l’imposizione di un processo di acculturazione in una politica di assimilazione alla scuola e società tedesca (10); difatti la non sufficiente padronanza della lingua consente di soddisfare solo le elementari necessità di vita e di contatto con la società tedesca e, non divenendo un codice aperto  che favorisca la comunicazione e la socializzazione non consente una piena integrazione nell’ambiente circostante.

« Il risultato della politica scolastica attuata a favore dei giovani emigrati è la creazione di uno scolaro semibilingue e semianalfabeta, un soggetto linguisticamente frantumato, scarsamente capace di gestire attivamente modi di condotta alternativa derivanti dallo sviluppo delle quattro fondamentali abilità linguistiche -comprensione, espressione, lettura e scrittura- che consentono ad una lingua di divenire un fatto sociale, un atto comunicativo di esperienze e valori nel rapporto tra parlante ed ambiente, tra la vita dell’emigrante e la nuova realtà sociale (11)».

Egli ha iniziato male e continua male la sua carriera di alunno, in quanto né la scuola italiana, né quella tedesca pongono in atto soluzioni didattiche diverse, né interventi particolari di decondizionamento e di recupero scolastico; è un emarginato, non solo nei confronti della propria cultura ma anche nei confronti di quella in cui vive, destinato a non progredire con lo studio sul piano sociale e culturale, a non mutare sostanzialmente classe sociale; con la conseguente scarsità di aspettative e mancanza di motivazioni che frequentemente si ritrova tra i giovani emigrati cresciuti in Germania. E, nei figli, si spengono in molti casi le speranze dei genitori, emigrati della prima generazione, i quali nel momento in cui le loro aspirazioni ad un miglioramento del proprio status all’interno della società sono andate disilluse, hanno scaricato su di essi la realizzazione di quanto loro non è stato possibile. Ma il passaggio non è stato in molti casi realizzabile, il massimo inserimento tra i colletti bianchi ottenuto da immigrati italiani si è verificato nei livelli medio- bassi dei settori pubblico e privato, e solo raramente ha riguardato le carriere direttive (almeno per quanto riguarda il periodo da me considerato, con la terza generazione le cose cominciano a cambiare).

La politica dell’integrazione, anche nella scuola, è stata sempre condizionata nella sua applicazione dall’andamento congiunturale del mercato tedesco e quindi subordinata a valutazioni e decisioni estranee e contrastanti rispetto ai criteri sociali e pedagogici.

Solo verso la fine degli anni ’60, in seguito all’aumentare del numero dei bimbi stranieri e di fronte ai dati che confermavano la gravità della situazione, si giunse ad una nuova ordinanza della conferenza dei ministri dell’istruzione:“Insegnamento per i figli dei lavoratori stranieri” del 3/12/1971 (c’era già stata la risoluzione del Consiglio d’Europa del 26/01/1968: «Ai figli dei lavoratori migranti deve essere data la stessa istruzione scolastica impartita ai bambini dei paesi d’immigrazione»), un’ordinanza che definiva formalmente la completa parità di diritti tra bambini tedeschi ed italiani e che tentava di creare degli spazi pedagogici che aiutassero i primi ad inserirsi nelle classi regolari; si limitava però a prevedere forme di integrazione solo nella scuola elementare e nella post-elementare di base, considerando come un dato di fatto la quasi completa assenza dei figli degli emigrati dalle scuole materne e dalle superiori. Un documento più tecnico-organizzativo che attento ai problemi pedagogici di socializzazione (12).

Con la recessione del ’73, la politica scolastica si mostrò sempre più subalterna alle scelte generali riguardanti la manodopera straniera: «…L’obiettivo dell’integrazione, che era stato la bandiera della socialdemocrazia, dei sindacati e degli ambienti liberalprogressisti della Germania federale negli anni del rilancio economico, viene

ora offuscata da un intricato sistema di scuole e classi parallele, studiato in modo da favorire il rientro delle famiglie emigrate e senza dubbio congeniale all’auspicato alleggerimento delle “classi normali”, già di per sé sovraffollate.»  

Ancora nel dicembre 1976, una nuova presa di posizione del governo tedesco sulla scolarizzazione dei figli dei lavoratori stranieri, sui problemi dei ricongiungimenti familiari, del permesso di soggiorno, dell’integrazione sociale e del rientro, si basava sempre sul principio che la Germania federale non era un paese d’immigrazione e si considerava soltanto paese di soggiorno per lavoratori stranieri, che di regola ritornavano di propria iniziativa nel loro paese dopo una permanenza più o meno lunga. La tendenza al rientro doveva essere agevolata e premiata.

Su queste basi, come si poteva solo pensare che la scuola avesse potuto preparare i giovani emigrati addirittura su una doppia cultura, quella tedesca e quella italiana, in maniera tale da renderli pronti ad affrontare sia un eventuale vita in Germania, sia il ritorno in patria, senza perdere anni preziosi di scolarità. Non sembra sia stato un obiettivo per nessuno, il cercare di promuovere  una modificazione dei rapporti di classe e la riduzione delle disuguaglianze sociali, obiettivi di  quel miglioramento che milioni di persone auspicavano nel momento in cui “optavano per la scelta della valigia”.

Milioni di persone sono state espulse, allontanate dal “luogo della propria cultura”, del proprio tempo, dalla propria famiglia, nell’illusione di un  miglioramento della propria condizione, per godere di una nuova libertà, potendo finalmente disporre liberamente di se stessi; questo passaggio a modelli culturali diversi ha però spesso prodotto stati intensi di privazione, di disorientamento, di identità, emarginazione e conflitti fra generazioni; si può parlare di decisione o si deve parlare invece di imposizione di questo passaggio di condizione? Esso ha realmente modificato i rapporti di classe e ridotto le disuguaglianze sociali oppure questa percezione di mobilità per “migliorare” rappresenta prevalentemente aspetti illusori? 

 

 

Tratto dalla tesi “Le Acli e i Gastarbeiter italiani in Germania” discussa, presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Cagliari, da Simonetta Del Favero.

 

Note:

(1)    Blumer G., op. cit., p. 268.

(2)  Pozzi T., op. cit.

(3) Goldstein L., Luminelli P., Socializzazione ed assenza del padre, Roma, EISS, 1973, in Quaderni Mediterranei /3, Cultura Editrice, Firenze, 1978.

(4)  Pozzi T., op. cit.

(5)  Rossi, direttore generale del ministero della Pubblica Istruzione nel 1974 (?), in UCEI, op. cit.

(6)  Luise M.G., Integrazione come apprendimento di valori, Studi Emigrazione N. 33, 1974, p. 120.

(7)  Ranucci E., Germania. Scuola e Ragazzi Stranieri. Ma il tuo paese come si chiama?, Il Ponte, op. cit.

(8)   Luise M. G, Integrazione come apprendimento di valori, Il Ponte, op. cit.

(9)  Gazerro V., Lingua ed emigrazione in Germania, Semibilinguismo e svantaggi socio- culturali dello scolaro italiano, CSERPE, Basilea, 1980.

(10)  Gazerro V., op. cit.

(11) Salvatori F., (già Operatore dell’Ecap-Cgil sede Germania, oggi Dirigente CGIL, Settore Esteri)  Politica scolastica per gli emigrati in Germania fra integrazione e isolamento, in LEP, Riv. Trimestrale di educazione permanente e di politica culturale, Anno II – N. 2-3, Tip. Tecnostampa, Cosenza, 1980.

(12)  Salvatori F., op. cit., p. 112.

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