Albe spezzate – seconda parte – Diario di viaggio di Dino Viani — Lombardi nel Mondo

Albe spezzate – seconda parte – Diario di viaggio di Dino Viani

Il regista abruzzese ha voluto testimoniare con i suoi occhi e raccontare per il Portale Lombardi nel Mondo la tragica vicenda del terremoto che ha colpito la sua regione.

La primavera nell’Abruzzo aquilano oltre al terremoto ha portato  con sé un’altra novità, un fiore di colore blu mai visto prima d’ora, spunta qua  e là come funghi in tutto il paesaggio. Sono le tendopoli della protezione  civile messi a disposizione dei terremotati come alloggi provvisori. Questi  prati hanno riposato per tutto l’inverno in attesa della pasquetta per  accogliere tutte le famiglie per la prima gita fuori porta.

 

Passare da queste  parti in quel giorno significa imbattersi in un’ orgia di odori, profumi, suoni  di ogni tipo: l’agnello alla brace, gli arrosticini, timballi, organetti e ‘du  botte; balli, partite a pallone e pallavolo, bambini che scorazzano da un lato  all’altro della campagna. Ora in questi prati c’è  solo un silenzio cupo, greve,  interrotto solo da qualche sirena che passa per la strada. Dentro i campi  abitano creature fantasma spogliate della loro storia, del loro sguardo. Nei  loro volti c’è la rabbia e l’incredulità per quello che hanno perduto e la paura  per quello che può ancora accadere, vagano per la tendopoli come anime in pena,  come matti in camicie di forza dentro un manicomio.

Oggi sono stato nella  tendopoli di Camarda, una meravigliosa comunità sulla strada che porta ad  Assergi a pochi km dall’Aquila, in questo paese per fortuna non hanno avuto  vittime, per questo i riflettori televisivi da queste parti non si sono accesi e  il dramma di queste persone, nell’immaginario televisivo, non risulta, non  esiste. A Camarda il terremoto non è passato. La Televisione è uno strano  animale, un vampiro che per vivere ha bisogno quotidianamente di sangue fresco,  quando è sazio va via all’improvviso senza preavviso come il terremoto. Così  quello che sembrava un problema collettivo ricade più forte che mai sulla  solitudine dei protagonisti. A questo tipo di comunicazione siamo abituati e  ormai assuefatti da tempo, come non ricordare la prima guerra in Iraq che  sembrava un meraviglioso video games, la gente al bar ne parlava con lo stesso  impeto di una partita di calcio il giorno dopo; allo stesso modo abbiamo  continuato a pranzare e vivere la nostra vita come se nulla fosse con la guerra  nella ex Jugoslavia ad un passo da noi.

La tv ci allontana dalla materia viva,  dall’esperienza e ci avvicina quello che più ci fa comodo, con la scaltrezza di  uno sciamano della modernità ipnotizza le coscienze svuotandole di ogni capacità  critica. Il cinema evoca presenze e cerca di salvare l’uomo dalla sua solitudine  di fronte alla morte. La tv ha bisogno dell’oggetto, il cinema lo allude e in  quest’allusione è in grado di restituire il dramma di un evento in tutta la sua  devastante violenza. Anna Magnani che cade in “ Roma città aperta “ è la guerra  in tutta la sua devastante crudeltà. Immerso in queste riflessioni sono  richiamato dal rumore di una motosega. A poca distanza da me incontro un ragazzo  sulla quarantina intento a costruire una baracca di legno sul cassone della sua  vecchia ape arancione. Servirà per passare la notte insieme alla sua amica del  cuore, una cagna bellissima di nome Nuvola.  I cani non sono ammessi nelle tende  e Paolo, senza perdersi d’animo, sorride orgoglioso come un pastore afgano e  continua il suo lavoro; sulla sua maglietta nera c’è una scritta profetica:  “  Che il destino ci trovi sempre pronti e degni “ Leon Degrelle. Angelo, un  signore sui sessanta, mi porta a vedere la torre antica: l’orgoglio identitario  del paese che ha resistito ai vari sismi, alle guerre, ma non alla scossa delle  3,32 di lunedì mattina. Mille anni di storia disintegrati come un castello di  sabbia;  –  Tatone ha resistito -, ha aggiunto con un pizzico di orgoglio –   Tatone è un modo arcaico in Abruzzo per nominare il nonno, a Camarda Tatone è  una roccia a forma di vecchio seduto sulla montagna che scruta il paese come le  figure  dell’isola di Pasqua. Ci sono dei momenti in cui il dolore è così  direttamente proporzionato alla rabbia e all’impotenza che si vorrebbe scappare.  Perché ci ricordiamo della nostra storia, del valore del nostro patrimonio solo  quando la perdiamo?  Perché dal dopoguerra ad oggi abbiamo mandato a governarci  dirigenti inetti, ingordi, che non hanno amato questo paese? Perché abbiamo  permesso, assecondato, questo sciacallaggio morale, etico, culturale?  Perché? La storia, l’arte, è il petrolio, l’oro nero di  questo paese, il volano di una economia che in un epoca di globalizzazione delle  risorse non avrebbe temuto nessuna concorrenza. Con un mattone di queste   macerie gli americani o giapponesi avrebbero aperto musei in ogni luogo noi,  molto probabilmente, butteremo tutto in discariche abusive. L’Abruzzo è la terra  dei Sanniti, Vestini, Marsi, Marrucini, Romani, che nel corso dei secoli hanno  lasciato testimonianze di un valore inestimabile. Chieti, la mia città, è più antica

di Roma. Il pavimento di una boutique per il corso è un mosaico Romano. Intanto il sole è sparito dietro la montagna e nella valle è già buio, già freddo; davanti a me ci sono i fantasmi, questi poveri Cristi, per dirla alla Silone, che non hanno più nulla.

Le case non sono solo importanti per i vivi, ma soprattutto per i morti che devono tornare a far compagnia ai loro cari nelle lunghe notti d’inverno. Questo evento ha rotto un equilibrio antico: i  vivi sembrano morti e i morti non sanno più dove andare.

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