Alberto Mario a New York – Quarta puntata — Lombardi nel Mondo

Alberto Mario a New York – Quarta puntata

Adolfo Rossi (1857, Lendinara – †1921, Buenos Aires) è uno dei primi testimoni della grande ondata migratoria italiana diretta nelle Americhe. A lui si deve la testimonianza del viaggio di Alberto Mario e Jessie White a New York nel 1858. Come il rinvenimento dell’infuocato discorso che Mario tenne in una Hall della Quarta Avenue a favore dell’Italia unita.

Il cancelliere Bacone da Verulamio non fu che un continuatore di Celesio, più celebre e più applaudito, ma meno grande di Campanella. Pietro Pomponazzi e Lucilio Vanini si posero intorno ai dogmi, alla dottrina e alla morale del Cattolicismo e assoggettati alla critica della ragione, incominciarono la demolizione scientifica e furono i fondatori di quel metodo che si chiama criticismo filosofico, e i primi maestri di Pietro Bayle, di Voltaire, degli Enciclopedisti francesi. Giordano Bruno nelle sue speculazioni sublimi si distaccò affatto dal sovrannaturalismo, cioè dalla rivelazione immediata divina (onde precorse a Cartesio), e costrusse un sistema di filosofia ove sollevò l’uomo, sino allora depresso, decaduto e maledetto, alle altezze della divinità, fece dell’uomo, di Dio e del mondo un tutto che si manifesta con forme o con rappresentazioni differenti, ma sostanzialmente identiche. L’oratore trovò trasfuso quel panteismo in varia misura nelle opere di Spinosa, di Mallebranche, di Leibnitz, di Hobbes, di Shelling e di Hegel, e conchiuse: quel Panteismo, diventato subbiettivo con Fichte, è il genio della filosofia moderna.

 

Ha fatto conoscere, che nella giornata di Legnano, fiaccata l’oltracotanza dell’imperatore Barbarossa, guarentì l’esistenza delle due repubbliche; che in Sicilia vendicò l’onta di un’oppressione insolente uccidendo tutti, senza eccezione, i francesi insultatori al suono dei vespri immortali; che la sua Venezia, con una costanza di lotte secolari, ha salvata l’Europa dalla barbarie musulmana; che in Napoli, sotto i piedi della sua plebe, calpestò l’orgoglio di Spagna; che a Genova i suoi popolani (pagina di gloria insuperata) cacciavano ignominiosamente 44 mila austriaci dalle loro mura, e poscia vittoriosamente e per lunghi mesi ne sostennero l’assedio, comechè quegli eterni nemici suoi fossero aiutati dal loro vecchio alleato il re di Piemonte; che combattè con valore antico con le bandiere napoleoniche, e nella disfatta di Russia salvò le reliquie della grande armata francese che, senza gl’italiani, sarebbero tutte cadute sotto la lancia del cosacco; che il suo popolo di Milano sostenne quasi inerme cinque giorni di duello immortale contro 16 mila austriaci e finì col gettarli in isbaraglio talmente, che malconci, disordinati, avviliti, spossati impiegarono la metà di un mese ad arrivare fino a Verona; che in pochi giorni ne cacciò 60 mila dal Lombardo-Veneto e li costrinse fra l’Adige e il Mincio; che il 24 maggio 1848, in Vicenza, 15 mila furono messi in fuga da 8 mila italiani; che nel settembre un pugno di patriotti rompeva più battaglioni di loro in Mestre, faceva centinaia di prigionieri, prendeva sei cannoni, e, quel che più vale, una bandiera giallo nera a viva forza; che un altro pugno di italiani, il 30 aprile 1849, cacciava le baionette nelle reni di francesi fuggitivi.

 

Alberto Mario continuò:

 

«Tutto codesto, o Italia, ci facesti conoscere, dicono le genti straniere, e ci ripeti tuttodì, con mille bocche, e tutto codesto è gloria, grandezza, magnanimità, genio; e sta bene. Ma che possiedi ora? Rispondi.

«Dove sono le tue arti? Dove la tua letteratura? Dove le tue scuole filosofiche? Dove i tuoi sapienti che procedano sulle tradizioni di quei grandissimi dianzi rammentati? Dove il frutto delle tue scoperte, delle tue invenzioni, delle tue conquiste? Dove il commercio, le industrie, gli avventurosi veleggiamenti, e le navi temute, e la bandiera formidabile e rispettata?

«Vediamo una bandiera a tre colori sulle fortezze del re Savoiardo, ma quei colori sono impalliditi e guasti da un quarto colore che non è tuo e da uno stemma regio che non è tuo, imperocchè tu non hai altro stemma che la corona di torri, e quella bandiera oggi è fatta cencio e raccolta dietro l’aquila nera dello tsar di Russia, e dietro l’aquila usurpata e infame dello tsar di Parigi. Di’…. Rispondi…. Che sei oggi?

«Schiava invilita tolleri l’onta di un re di Napoli che la storia ricorderà col soprannome di Bomba, il quale flagella i tuoi figli al cavalletto, li tortura con la cuffia del silenzio, e li fa morire di sete nelle carceri, nutrendoli di aringhe salate, per istrappar loro di bocca una rivelazione; l’onta d’un re, che un uomo di Stato inglese, Gladstone, chiamò negazione di Dio.

«Tolleri l’onta peggiore di un prete padre della menzogna che siede principe sulle teste di tre milioni d’italiani, insanguinate da quattro armate straniere; di un prete empio che in nome di Dio taglia le ali al pensiero e soffoca le aspirazioni della coscienza.

«Tolleri l’onta di due tirannucci – quel di Modena e quel di Parma – crudeli quanto sono piccini.

«Tolleri l’onta del soldato austriaco che ti rapisce ogni anno 16 mila de’ tuoi figliuoli più eletti, divine speranze del tuo avvenire, che ha bastonate a Venezia e a Milano pubblicamente le tue donne quasi ignude e che ti degrada al cospetto del mondo incivilito. Su via, rispondi. Ma che puoi rispondere? O levati di dosso l’ignominia della schiavitù, ovvero soffri e taci».

 

Così l’oratore riassumeva il linguaggio degli stranieri sulla patria nostra, linguaggio per verità, egli stesso diceva, troppo severo e in qualche parte non giusto, perchè, disotto all’apparente quiete di sepolcro che pesava sull’Italia, la sua gioventù generosa e devota stava apparecchiando in mezzo al popolo gli elementi della risurrezione, e ogni qual volta quella falange sacra era scemata di qualche caduto nelle mani del vigile tormentatore, e il quale ascendeva il patibolo gridando: «Viva l’Italia», il posto per lui vacante veniva occupato da altro che immediatamente gli succedeva; e quella falange di apostoli e di martiri evangelizzava la parola di salute col discorso e con la stampa; acquistava e distribuiva armi, raccoglieva continuamente i patriotti in isquadre e in reggimenti invisibili all’oppressore, e di tempo in tempo alcuni di loro insorgevano e lo assalivano per mostrare all’Italia il suo dovere e il suo diritto, per additarle la via unica di compierlo e di esercitarlo per significare ai suoi manigoldi che la battaglia non era punto terminata, e al mondo che l’Italia era schiava per la cospirazione del dispotismo europeo, ma schiava fremente e indomata e che oggi o domani, o più tardi, ma infallibilmente, si sarebbe sollevata ad affermare luminosamente la propria personalità nazionale.

 

E quella sacra falange, non solo si componeva di patriotti che vivevano nella penisola, ma di quanti dannati all’esilio serbavano in cuore intatta la religione della patria e sentivano l’obbligo imperioso di non istarsene spettatori inerti del lavoro, degli sforzi e della virtù cittadina dei loro fratelli, e coi gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, di non attendere che la libertà cadesse dal cielo come le quaglie agli ebrei nel deserto, ovvero che venisse regalata dai re e dalla diplomazia, che ne sono gli avversari naturali e perpetui.

 

Né quelle audacie, quel martirio e quell’esempio riuscirono infecondi. Il fremito di patria dei pochi magnanimi oggimai si riappalesava nelle moltitudini, e si capiva che non doveva tardar guari a risuonare la campana a martello del popolo.

 

A cura di Luigi Rossi (Bochum)

www.luigi-rossi.com

immagine: Jessie White

Document Actions

Share |


Condividi

Lascia un commento