Alberto Mario a New York – Sesta puntata — Lombardi nel Mondo

Alberto Mario a New York – Sesta puntata

Adolfo Rossi (1857, Lendinara – †1921, Buenos Aires) è uno dei primi testimoni della grande ondata migratoria italiana diretta nelle Americhe. A lui si deve la testimonianza del viaggio di Alberto Mario e Jessie White a New York nel 1858. Come il rinvenimento dell’infuocato discorso che Mario tenne in una Hall della Quarta Avenue a favore dell’Italia unita.

Sino dal secolo dodicesimo l’Italia cominciò ad essere popolata di repubbliche da Torino ad Amalfi, tutte d’indole popolare, compresa la stessa Venezia, che serbossi democratica per 700 anni, uscite quasi magicamente di sotto al turbinìo delle trasmigrazioni barbariche, mentre in tutto il resto dell’Europa non ne derivò che il feudalismo – seconda edizione con aggiunte della barbarie.

Dante e Macchiavelli, Enrico Dandolo e Sarpi, Lercaro e Colombo, Giotto e Michelangelo, quanto insomma vi ha di grande negli ingegni, nei monumenti, nei fatti, sino all’età nostra, nacque, crebbe e cessò con le repubbliche.

 

Ma una cancrena irreparabile erasi infiltrata anticipatamente nel cuore istesso della penisola: e vietò a quelle repubbliche di sentirsi sorelle, figlie d’una madre comune, l’Italia, di stringersi insieme a rendere inaccessibile altrui il mare e le Alpi; inutili Alpi, come le disse Carlo Cattaneo malinconicamente e profondamente. E questa cancrena fu il papato.

I papi dominando sui cuori, sugli intelletti e sulle azioni del mondo occidentale con autorità assoluta ed infallibile derivata dallo Spirito Santo dal quale, ad udirli, pigliavano ogni mattina la parola d’ordine per reggere le pecore umane, cosicchè disponevano a loro talento delle corone dei re e delle sorti dei popoli, i papi spiegarono nel modo seguente la dottrina di Cristo.

Cristo ha detto – il mio regno non è di questo mondo: dunque, soggiunsero i papi, questo mondo appartiene al suo vicario. Stabilita la massima pensarono all’applicazione e riuscirono.

 

Ma la sovranità morale sulla terra, comechè conquista gravissima e preziosa, non soddisfaceva la loro cupidigia. Volevano qualche cosa di reale, di effettivo e che si toccasse con mano, perchè i papi, del resto, benchè vivano in una mistica conversazione col Paracleto, furono sempre uomini pratici.

Volevano uno Stato e una corona, volevano cioè armi, soldati, pubblicani, birri, ergastoli, forche, carnefice e un popolo da mugnere, scorticare e impiccare, e il tutto a maggior gloria di Dio e della sua santissima religione. E se l’ebbero dagli stranieri che per dieci secoli eglino stimolarono senza posa e affannosamente a irrompere sull’Italia ogni qualvolta il loro regno pericolava, e vi chiamarono successivamente Franchi, Sassoni, Inglesi, Angioini, Spagnuoli, Ungheresi, Turchi, Svizzeri, Francesi, Austriaci per essere protetti dalle impertinenze dei sudditi che considerando il papa-Dio un impostore; – e il papa-re un usurpatore e un tiranno, non avrebbero tardato un’ora, senza quegli angeli custodi, a metterlo alla porta e peggio.

 

Se non che non si accontentarono di flagellare l’Italia con tutti gli stranieri possibili: perchè il giuoco atroce sarebbe stato ben presto interrotto dalla resistenza concorde delle repubbliche; ma – e qui sta il danno maggiore – posero ogni studio nel suscitare, risuscitare e invelenire l’idra della discordia fra quelle repubbliche, spingendole a sbranarsi l’una coll’altra, e impedendo che germogliasse nel loro animo l’idea salvatrice che tutte erano individui di una stessa famiglia, membra d’uno stesso corpo.

E i papi riuscirono, e Dante, Moroni e Macchiavelli che pensarono e patirono per la unità d’Italia, sono morti inascoltati. Laonde venne fatto allo straniero di piantarvisi definitivamente; le repubbliche a una per una perirono, e l’Italia sin dal 1530 – dalla caduta di Firenze – rimase immutabilmente rotta in sette od otto principati, retti da dinastie straniere o bastarde di papi, stabilitevi dagli stranieri e loro vassalle obbedientissime.

Dopo lo stabilimento finale delle monarchie, dopo cioè il 1530, l’Italia cessa di essere un popolo e diventa una mera espressione geografica; non più moto, né vita politica, né gloria.

Tutto isterilisce e muore al soffio avvelenato della reggia, come gli alberi e i fiori al vento del deserto: il Papato coi suoi 500.000 frati, colla Compagnia di Gesù, allora allora fondata, e col Concilio di Trento, le uccide l’anima e l’intelletto; lo straniero la depaupera colle imposte e le rapine; i principi vassalli suoi manigoldi le uccidono il corpo con le torture e i patiboli.

 

Abbiamo veduto, per esempio, organizzare un massacro periodico contro i Valdesi, e quando non si impiegava l’esercito ai servigi dell’Austria o di Francia o di Spagna, sfrenarlo a dar la caccia a quei poveri e pacifici valligiani che non credevano all’infallibilità del papa; e ridurre i poveri sudditi a tale stadio d’ignoranza, che nel secolo scorso istituitasi una Università italiana, narra il Denina, storico ultra monarchico, dovettersi cercare tutti i professori nelle altre parti d’Europa.

 

Dopo lo stabilimento delle monarchie adunque non più arti, né lettere, né storia, né filosofia.

 

Dante si è trasformato in Metastasio, il poeta che cantò Cola da Rienzi nell’abate Chiari, Macchiavelli in Algarotti, e Michelangelo Buonarroti in Michelangelo da Caravaggio; le lettere, le arti e la filosofia non vivono che sotto le grandi ali della Libertà. E se qualche poeta o storico o filosofo in nome dell’inviolabilità della ragione è sorto apostolo di verità e di progresso, morì martire; Galileo torturato, Paolo Sarpi pugnalato, Pietro Carnesecchi, Giordano Bruno, e altri bruciati vivi dal Papa; Macchiavelli torturato dai Medici, Campanella torturato sette volte e tenuto in carcere ventisette anni dal proconsole spagnuolo in Napoli, Pietro Giannone dannato a prigione perpetua.

 

E se in questi tre secoli di lutto e di degradazione qualche raggio di vita gloriosa ha solcato il cimitero d’Italia, non è certamente uscito dalle aule dei re o dal Vaticano, ma dalle viscere stesse del popolo.

Fu il popolo che scosse il giogo spagnuolo in Napoli nel 1647 – e nell’anno medesimo, capitanato da Giuseppe d’Alessio, operaio battiloro, cacciò Los Velez vicerè e tutti gli spagnuoli da Palermo e nel 1746 ributtò gli austriaci da Genova.

Fu Venezia repubblica, comechè decrepita e oligarchica, che fece risuonar alto il nome italiano dalle acque di Candia ove vinse i turchi in due battaglie navali, e dalle mura della città ove sostenne un assedio lunghissimo ed eroico.

 

A cura di Luigi Rossi (Bochum)

www.luigi-rossi.com

immagine: dedica di Jessie White al marito

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