Alberto Mario a New York – Ottava puntata — Lombardi nel Mondo

Alberto Mario a New York – Ottava puntata

Adolfo Rossi (1857, Lendinara – †1921, Buenos Aires) è uno dei primi testimoni della grande ondata migratoria italiana diretta nelle Americhe. A lui si deve la testimonianza del viaggio di Alberto Mario e Jessie White a New York nel 1858. Come il rinvenimento dell’infuocato discorso che Mario tenne in una Hall della Quarta Avenue a favore dell’Italia unita.

Intanto Radetzki passa nel Veneto, si unisce a Welden e con tutte le sue forze, 44.000 uomini, dieci giorni dopo assalta Vicenza che gli resiste per diciotto ore.

L’occasione era suprema. Si sarebbe potuto decidere le sorti d’Italia valicando l’Adige sgombero, e piombando alle spalle del nemico con quindici o ventimila uomini.

Nulla, nulla di tutto ciò.

Radetzki ritorna trionfante a Verona, e il re raccolto il nerbo della sua armata nelle paludi di Mantova per bloccarla e disteso il resto sino a Rivoli, l’assottiglia con le febbri e le scema la virtù con l’inazione.

 

Ma che voleva egli adunque? Aspettava la fusione di Venezia.

 

Avuta Venezia il 4 luglio, la offre all’Austria il 7 come prezzo della sovranità di Lombardia. Così rimanevano ancora deluse le speranze dei patrioti italiani.

Intanto Radetzki ricevuti i debiti rinforzi gettasi unito sui Piemontesi e li rompe. Il re, fallitogli il disegno di aver la Lombardia, pensa unicamente a mettere in sicuro la Corona consegnando al maresciallo Milano che era il cuore della rivoluzione: così ammansato il nemico, salvasi dalla temuta invasione oltre il Ticino. Ritornato nel proprio regno, si lusinga nel sollecito ritorno dello statu quo.

Ma 20.000 milanesi, e più di 50.000 delle provincie Lombarde esulati ne’ suoi domini, fomentano l’ardore del popolo piemontese di vendicare la umiliazione dell’armistizio di Salasco e di ispazzare l’alta Italia dall’ultimo soldato straniero. E tanto crebbe questo fermento che il re forzato nuovamente alle armi, sguainò la spada unicamente per vedere di stipulare coll’Austria una pace onorevole.

 

Senonchè i reazionari, ossia i bigotti della monarchia, vedendo, in una vittoria qualsiasi dell’esercito piemontese, risuscitata più gagliarda che mai la rivoluzione in tutta la penisola, e quindi riconoscendo impossibile di venire a patti col nemico quando al re fosse piaciuto, perché la volontà della nazione risollevata e in armi sarebbe stata più forte della volontà del re e avrebbe travolto il regno nella gran tempesta che sarebbe scoppiata, si accinsero a sfabbricare la disciplina dell’esercito con tutti i mezzi e riuscirono a far nominare un generale straniero, Ciarnowski, esecutore delle sue mene segrete.

Furono adunque disposte le cose in maniera che parte dell’esercito fosse messo fuori di combattimento, parte fuggisse e si disperdesse; ed è quanto avvenne ad eccezione di alcuni reggimenti.

Così Carlo Alberto fu vittima dei suoi cortigiani e dovette abdicare: e la Monarchia Sarda tuttavia pagava nel 1858 una pensione come generale al Ciarnowski.

 

Siffattamente in tre giorni finiva la seconda campagna regia, e Vittorio Emanuele re successore firmava un trattato coll’Austria nel quale la riconosceva legittima padrona del Lombardo-Veneto, le prometteva pace e buona amicizia, le pagava 75 milioni di franchi per buona mano, accettava che i croati facessero la sentinella nella fortezza di Alessandria, e fra lui e l’imperatore eravi un ricambio di croci e di decorazioni.

 

°°°

 

Dopo questa fiera requisitoria contro le monarchie, Alberto Mario chiedeva:

 

– Ora vi pare che i duchi, i granduchi, i re e i papi sieno elementi nazionali che il popolo italiano deve tesaurizzare e coi quali deve unirsi nuovamente per iscuotersi di dosso gli austriaci e diventare una nazione signora e sovrana dei propri destini? No per fermo.

 

E affermava quindi che l’unione, di cui aveva tenuto antecedentemente parola, doveva consistere in un’associazione di pensiero e di azione del popolo italiano, la quale avesse per oggetto di abbattere i duchi, i granduchi, i re e il papa come nemici naturali dell’indipendenza italiana, e di scacciare lo straniero coi mezzi e colle forze che allora erano nelle mani di quei granduchi, di quei re e di quel papa.

– Ma qualcuno – seguitava – mi farà l’obbiezione seguente: non più patti col papa, col re di Napoli e coi duchi, e la ragione è evidente; ma la Monarchia Sarda vuolsi eccettuata, perchè ci pare rinsavita: da dieci anni, in mezzo al turbine della reazione europea, conserva uno statuto liberale, tiene in piedi un’armata valorosa, dà asilo agli esuli politici delle altre parti d’Italia, e mostra buona intenzione per la guerra nazionale.

 

Rispondeva l’oratore che l’obbiezione era apparentemente grave. Egli aveva vissuto nove anni continui negli Stati sardi e si trovava in grado di dare alquanti schiarimenti su quello scrupolo di coscienza.

Dopo la disfatta di Novara due vie erano aperte alla Monarchia Sarda per l’avvenire: la ristaurazione dell’assolutismo o il mantenimento dello statuto. La prima le rapiva per sempre ogni speranza d’ingrandimento allineandola fra i nemici aperti dell’emancipazione italiana, tanto più che nel marzo del 1849 il moto rivoluzionario europeo era ben lungi dalla sua fine.

Per l’Ungheria erano quelli i più bei giorni della sua lotta gigantesca contro l’Austria; la Toscana si reggeva a popolo, gli Stati Romani del pari; la Sicilia combatteva contro il Borbone, e Venezia stava incolume in mezzo alle sue lagune cogli allori di Cavallino e di Mestre, e nel marzo 1849 veruno poteva seriamente temere il crimine del 2 dicembre 1851 per la Francia, ove la repubblicana assemblea costituente ancora esisteva.

 

– La Monarchia Sarda, adunque – conchiudeva – provvide largamente ai propri interessi conservando lo Statuto.

 

A cura di Luigi Rossi (Bochum)

www.luigi-rossi.com

immagine: tomba di Jessie White e Alberto Mario a Lendinara

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