Alberto Molinari: diario di bordo di un poeta mantovano — Lombardi nel Mondo

Alberto Molinari: diario di bordo di un poeta mantovano

Nato a Mantova nel 1934, al numero 3 del vecchio Borgofreddo e battezzato in Ognissanti da Don Zancoghi, Alberto Molinari trascorre a Mantova la sua fanciullezza e la sua giovinezza. E Mantova, questa città d’acqua e di vecchie e nobili mura, scandisce il trascorrere quieto delle sue prime, dense stagioni, fatte di assolati limpidi mattini, di solleoni meridiani, di struggenti tramonti sui laghi, segnate dal lento sedimentare di emozioni delicate e tenere, poi, a mano a mano anche di emozioni forti, di emozioni aspre.

A Mantova compie gli studi: prima la scuola elementare Ippolito Nievo – con l’indimenticabile, aleggiante sentore dell’ olio di fegato di merluzzo (portentosa, mussoliniana e obbligatoria terapia per sconfiggere il rachitismo infantile dei giovani virgiliani) – poi la scuola elementare Rosa Maltoni Mussolini – ove trascorre più ore nelle cantine/rifugio che nelle aule.

 

Passa la guerra, con i suoi sfollamenti in campagna e con le sue terrificanti tragedie ma, per un fanciullo, anche con esperienze uniche e affascinanti: chi glielo avrebbe altrimenti insegnato che cosa sono l’erba, un campo di grano maturo,  i cavalér, un bue, un filòs nella stalla pregna di aspro e caldo odore?

 

Ritorno in città: scuola media Maurizio Sacchi, una rapida parentesi per l’approdo successivo e fondamentale, il Liceo Scientifico Belfiore, ove l’acerba emotività dell’adolescente si confronta con nuovi e improvvisi stimoli, con sensazioni che appartengono ad una diversa allocazione sentimentale e che divengono sempre più forti ed esclusive, coerenti con un tempo che nella vita di un uomo così si apre per non chiudersi più.

 

Si laurea poi alla facoltà di scienze politiche di Firenze ma a Mantova ritorna e vi presta il servizio di sottotenente al 2° Reggimento di Artiglieria in quel di Montanara.

 

Ce n’è abbastanza – come afferma senza alcuna incertezza – per riempire di mantovanità tutta una vita, anche quella trascorsa altrove per cinquant’anni, una vita da migrante con Mantova nel cuore.

 

Così, finiti gli studi e il servizio militare, comincia, nel 1962, la lunga vita di lavoro, sempre nel settore industriale e sempre occupandosi di problemi del personale e dell’organizzazione aziendale.     Se si eccettua il primo periodo trascorso presso l’Associazione Industriale di Brescia, Molinari opererà poi sempre nell’ambito del Gruppo FIAT, in diverse sedi (Milano, Brescia, Suzzara, Torino) e con diversi incarichi; l’ultima responsabilità – ricoperta dal 1984 al 2000 – è stata quella di amministratore delegato di una piccola società del Gruppo, operante nel settore della ricerca internazionale di dirigenti.

 

Come è stata la sua vita professionale?     Un giuoco, egli dice.     Un giuoco serio, responsabile, faticoso, anche rischioso (in ogni senso), che gli ha dato successo, soddisfazioni e agiatezza, che gli ha portato anche delusioni e rovesci, ma sempre un giuoco, nel senso che è stato un esercizio, un esercizio difficile, come tirare di scherma in una palestra: la vita, la vita è altro, e non si può porre termine a un periodo della propria vita come se nulla fosse successo, come se si trattasse di concludere una serie di assalti sulla pedana, appunto, di una palestra.

 

La vita lascia i suoi segni, non v’è maschera o giubbetto che proteggano dai colpi.     La prova di tutto ciò?   La prova è che dalla data della pensione egli ha completamente dimenticato i trentotto anni del suo lavoro/giuoco, mentre porta vivissime nel cuore le emozioni dei suoi anni mantovani (quelli – egli dice – non erano un giuoco!) e quelle della famiglia, di Anna Maria che gli ha dato tre figli, che a loro volta lo hanno riempito di nipotini (e non è ancora finita!).

 

Così la poesia di Molinari è una poesia generata dal recupero, dal racconto di emozioni; le emozioni, egli dice, si vivono nel momento nel quale si manifestano, poi si “ricordano”, cioè si mantengono vive nella memoria e nell’anima, perché non cambiano più.

 

Il tempo non esiste per le emozioni, che si possono rivivere tali e quali in ogni momento; la dimensione tempo è a loro estranea, è una finzione necessaria agli uomini (o, forse, semplicemente utile), che serve loro per differenziare i propri atti, ma da un punto di vista emotivo è inesistente: se si riesce a godere delle gioie trascorse, a patire nello stesso modo le ferite subite, ciò significa che le emozioni sono talmente attuali che si possono rivivere quando le si descrive e poi quando si rilegge ciò che si è scritto e ogni altra volta, così.

 

Di più: le emozioni si possono creare.   Chi coltiva le proprie esperienze emotive e le elabora con la propria fantasia riesce a costruire situazioni nuove, ad inventare e comunicare mutazioni e variazioni che più non hanno alcun legame cronologico o fisico con i momenti e gli elementi genetici.     E allora, che cosa c’entra, che cosa conta il tempo?

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