Perché in Italia finora è andata bene (riguardo al Terrorismo Internazionale)
La mattina del 19 dicembre la Corte d’Assise di Milano ha condannato a 9 anni di carcere Maria Giulia Sergio, una donna italiana conosciuta anche con il nome di Fatima, per essere andata a combattere il jihad in Siria insieme allo Stato Islamico (o ISIS): è stata la prima condanna di un tribunale italiano contro un cosiddetto “foreign fighter”, una persona andata a combattere all’estero con gruppi terroristici. Diverse ore dopo a Berlino è stato compiuto il primo grande attentato dello Stato Islamico in Germania: un camion ha investito la folla a un mercatino di Natale in centro, uccidendo 12 persone e ferendone più di 40. I due episodi hanno fatto riparlare del pericolo del terrorismo in Italia, un tema che spesso viene trattato dai politici e dalla stampa solo in maniera strumentale rispetto ad altre questioni, come l’immigrazione.
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Dopo gli attentati recentissimi di Parigi, Bruxelles, Nizza e ora anche Berlino – e quelli precedenti di Madrid e Londra, tra gli altri – in molti si chiedono come sia possibile che negli ultimi 15 anni l’Italia sia rimasta fuori dagli obiettivi di gruppi terroristici islamisti. Questo non vuol dire che non ce ne saranno, ovviamente: gli esperti dicono da anni che è in discussione il “quando” e il “dove”, non il “se”, ma anche quando avverrà resterà vero che l’Italia sarà di gran lunga l’ultimo grande paese dell’Europa occidentale a essere colpito. Eppure tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila l’Italia era uno dei paesi europei più rilevanti per il terrorismo internazionale: a Milano c’era l’Istituto islamico di viale Jenner, uno degli appoggi logistici più importanti per i volontari provenienti da tutto il mondo che volevano andare a combattere il jihad in Bosnia (l’Istituto fu definito dal dipartimento del Tesoro statunitense «la principale base di al Qaida in Europa»). Sempre a Milano c’era un gruppo che reclutava mujaheddin per combattere nel Kurdistan Iracheno, dove era attivo anche un gruppo legato ad al Qaida; e in altre città del nord Italia erano stati messi in piedi centri qaidisti che facevano parte di una rete che includeva anche altre città europee e che produceva documenti falsi. Poi, nella prima metà degli anni Duemila, le difficoltà internazionali di al Qaida e le efficaci operazioni dell’antiterrorismo italiano portarono allo smantellamento delle principali reti di reclutamento e finanziamento del jihad, lasciando spazio a qualcosa di diverso. Questo “qualcosa” finora non è stato in grado di progettare attentati né di mettere in piedi solide ed estese reti terroristiche sul territorio nazionale, nonostante le minacce contro l’Italia fatte tra gli altri dallo Stato Islamico. Com’è successo?
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Il fatto che l’Italia non abbia ancora subito grandi attentati terroristici di ispirazione islamista non significa che le cose funzionino alla perfezione, o che non ci sia niente che si possa fare meglio. Oggi le cose migliorabili sembrano essere principalmente tre (PDF). La prima, ha scritto Bruno Megale, ex dirigente della sezione antiterrorismo della Digos e oggi questore di Caltanissetta, è la mancanza di investigatori di provenienza maghrebina, balcanica e mediorientale, mancanza che invece non si riscontra in molti altri paesi europei. Secondo Megale sarebbe importante avere investigatori che conoscono bene i posti da cui provengono la maggior parte dei jihadisti che operano in Italia, per poter capire meglio i loro motivi e i loro comportamenti.
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Il terzo problema, ha scritto Lorenzo Vidino, riguarda la quasi totale mancanza di politiche di prevenzione della radicalizzazione e quelle per la de-radicalizzazione di persone che sono già state indottrinate (centri che favoriscano il dialogo interreligioso, per esempio, o strutture con personale specializzato che aiuti le persone indottrinate a tornare a una vita “normale”). Per quanto riguarda la prevenzione, uno dei temi più discussi in Europa negli ultimi anni è stata la gestione dei carcerati considerati a rischio di radicalizzazione: molti degli islamisti radicali che hanno partecipato agli attentati in Europa si sono radicalizzati in carcere, per esempio dopo essere entrati in contatti con persone condannate per terrorismo (il principale sospettato dell’attentato di Berlino aveva trascorso quattro anni in prigione in Italia: per il momento il collegamento tra le due cose è un’informazione da prendere con le molle, ma potrebbe anche rivelarsi rilevante). In altri paesi europei queste politiche esistono da una quindicina d’anni e la stessa Unione Europea ne ha incoraggiato la diffusione, finanziando programmi di enti statali e organizzazioni varie. In Italia si è ancora in alto mare, anche se qualcosa si sta muovendo. Nel settembre 2014 l’ex ministro degli Interni Angelino Alfano aveva parlato in Parlamento dell’opportunità di avviare specifici programmi di de-radicalizzazione, e i parlamentari Andrea Manciulli (PD) e Stefano Dambruoso (Scelta Civica) avevano presentato una proposta di legge in materia (PDF), che però è bloccata per le note lungaggini burocratiche del Parlamento italiano. Questo tipo di programmi e strutture potrebbero diventare ancora più necessarie tra qualche anno, quando si diffonderà una più ampia seconda generazione di musulmani immigrati e l’Italia potrebbe trovarsi ad affrontare gli stessi problemi che stanno attraversando oggi paesi come Francia, Belgio e Germania.
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