Non solo emigrazione. I canti della seta
Voglia di abbandonare la filanda
La situazione delle bambine e delle ragazze che lavoravano in filanda era peggiore di quella degli uomini e delle donne che erano impiegati nei lavori di casa o dei campi. Malnutrite, costrette a lavorare molte ore al giorno in ambienti malsani, stando in piedi con le mani immerse nell’acqua caldissima, le giovani operaie lanciavano invocazioni alle madri perché gli venisse risparmiato il lavoro devastante della filanda. Ma la miseria generale della classe contadina non consentiva altre scelte, e anche se a malincuore, ci si doveva adattare all’amaro destino. Le lavoratrici degli opifici, erano consapevoli dello sfruttamento a cui venivano sottoposte, e sebbene non fossero molto politicizzate, sapevano comunicare, soprattutto con i canti, i motivi della loro protesta.
Cantavano durante le lunghe ore passate a trarre dal bozzolo il filamento che avvolgevano sull’aspo, cantavano per sentire meno la fatica, cantavano anche se respiravano aria viziata e umida, cantavano durante le pause per stare un po’ in allegria, cantavano quando tornavano a casa, e quando si ritrovavano con il resto della famiglia nelle stalle. Se la casa era molto lontana cantavano prima di addormentarsi sui miseri pagliericci collocati per loro in un locale della filanda.
Le giovani forestiere (non del luogo) tornavano a casa ogni due settimane, dove facevano provvista di pane casereccio preparato con farine scadenti, da consumare durante i pasti frugali.
Il compenso in soldi che queste lavoratrici potevano racimolare era scarso. Nel 1868 la paga più il vitto variava da £ 0,70 a £ 1,25 al giorno, mentre le bambine ricevevano dai 15 ai 25 centesimi.
Il vitto calcolato in media 30, 35 centesimi al giorno comprendeva: due pani da 5 centesimi al mattino, _ chilo di polenta con companatico, un pane a mezzogiorno e alla sera un boccale di minestra. Dalla paga venivano decurtate anche le giornate di sospensione e le multe inflitte alle operaie, a discrezione dei direttori e delle assistenti. I motivi potevano essere le chiacchiere, la distrazione (il canto era permesso perché favoriva la concentrazione), il fermarsi troppo tempo in bagno o lo sciupio della seta. Due volte al giorno c’era il provino, che consisteva nel pesare le matassine di seta di prima qualità, ottenute per ogni chilo e mezzo di bozzoli. Per andare bene il peso doveva aggirarsi su un chilogrammo, se era inferiore c’era ul cal (il calo) e scattava una multa. Le assistenti, per essere meno severe con le filandiere, richiedevano regali (in un canto si parla di sigari e di caffè). E non c’è da meravigliarsi se ad ogni fine stagione le operaie si riproponevano di fach sü la croce (fare su una croce), chiudere, smetterla con quel lavoro, ma poi il bisogno le spingeva verso la stessa o un’altra filanda. C’era molta concorrenza e le bambine in cerca di lavoro non mancavano. Quando nel vicino Ticino fu vietato l’utilizzo delle bambine per il lavoro in filanda, alcuni imprenditori ticinesi spostarono i loro opifici in zona italiana, dove non c’erano queste restrizioni, per non aumentare i prezzi di produzione.
La zona con maggior concentrazione di opifici e attività seriche nel comasco, a parte i centri più grossi di Como, Lecco e Valmadrera, era l’Alto Lario Occidentale nella zona tra Gravedona e Cremia, ma le filande erano sparse in diversi paesi lariani.
Questa è una ricostruzione di una giornata di lavoro “tipo” nel 1880 della filanda di Brienno: il fuochista era il primo a entrare in filanda e provvedeva con i suoi assistenti all’accensione della caldaia. Alle 6.30 era lui a lanciare il primo fischio, e poi il secondo (ore 6.45), che segnava l’inizio del lavoro delle scopinere; al terzo (ore 7.00) tutto il personale era già in attività. Verso le 9.00 c’era la colazione, se non interrompeva il ciclo lavorativo. Il lavoro si fermava a mezzogiorno e dalle 13.00 alle 13.30 tre fischi scandivano l’ingresso in fabbrica. La giornata finiva verso le 19.00, dopodiché la maggior parte dei lavoranti si dedicava ai lavori casalinghi o della campagna.
Nel lecchese si iniziava alle 4.30 al mattino fino alle 20.00 con solo due ore di riposo. Nel 1880 la giornata prevedeva 15 ore in estate e 10 in inverno.
Pòvre filandére – Cologno al Serio (Bergamo)
Pòvre filandére non gh’avrì mai bén
dòrmerì ‘n d‘la pàia creperì ‘n del fé
pòvre filandére non gh’avarì mai bén
dòrmerì ‘n d’ la pàia creperì ‘n del fé
Sùna la campanèla gh’è ne ciàr ne scür
pòvre filandére i pica ‘l cò ‘n del mür
sùna la campanèla gh’è ne ciàr ne scür
pòvre filandére i pica ‘l cò ‘n del mür
Pòvre filandére non gh’avrì mai bén
dòrmerì ‘n d‘la pàia creperì ‘n del fé
Pòvre filandére non gh’avrì mai bén
dòrmerì ‘n d‘la pàia creperì ‘n del fé
Traduzione
Povere filandiere non avrete mai bene / dormirete nella paglia creperete nel fieno // Suona la campanella non c’è né chiaro né scuro / povere filandiere picchiano la testa nel muro.
Mamma mia mì son stüfa – Brianza
Mamma mia, mì son stüfa
o de fà la filerina
ol cal e ol poc a la matina,
ol provin do völt al dì
Mamma mia, mì son stüfa
tutt ol dì a fà andà l’aspa
voglio andare in Bergamasca
in Bergamasca a lavorar.
Ol mestee de la filanda
l’è ol mestee degli assassini,
poverette quelle figlie
che son dentro a lavorar.
Siam trattati come cani
come cani alla catena,
non è questa la maniera
o di farci lavorar.
Tucc me disen che son nera
e l’è ol fumm de la caldera
ol mio amor me lo diceva
di non far quel brutt mestee.
Tucc me disen che son gialda
l’è ol filôr de la filanda
quando poi sarò in campagna
i miei color ritornerà.
Traduzione
Mamma mia io sono stufa / di fare la filandiera / il calo e il poco (controlli per stabilire il rendimento dei bozzoli) alla mattina / il provino (controlli per stabilire la qualità del filo tratto) due volte al giorno // Mamma mia sono stufa / tutto il giorno fare andare l’aspo / voglio andare in Bergamasca / in Bergamasca a lavorare // Il mestiere della filanda / è il mestiere degli assassini / poverette quelle figlie / che sono dentro a lavorare // (strofa in italiano) // Tutti mi dicono che sono nera / ed è il fumo della caldaia / il mio amore me lo diceva / di non fare questo brutto mestiere // Tutti mi dicono che sono gialla / è il vapore della filanda / quando poi sarò in campagna / i miei colori ritorneranno.
O mamma mia tegnìm a cà – Cassago Brianza (Lecco)
O mamma mia tegnìm a cà
o mamma mia tegnìm a cà
o mamma mia tegnìm a cà
che mì ‘n filànda
che mì ‘n filànda mì vöi pü nà
Me dör i pé me dör i man
me dör i pé me dör i man
me dör i pé me dör i man
e la filànda
e la filànda l’è di vilàn.
L’è di vilàn per laurà
l’è di vilàn per laurà
l’è di vilàn per laurà
e mì ‘n filànda
e mi ‘n filànda mì vöi pü nà
Gh’è giò ‘l sentón fermà ‘l rodón
gh’è giò ‘l sentón fermà ‘l rodón
gh’è giò ‘l sentón fermà ‘l rodón
e la filànda
e la filànda l’è la presón
L’è la presón di presóné
L’è la presón di presóné
L’è la presón di presóné
e mì ‘n filànda
e mi ‘n filànda son stüfa asé
Traduzione
O mamma mia tienimi a casa / chi io in filanda non voglio più andare // Mi dolgono i piedi mi dolgono le mani / la filanda è per i contadini (villani) // È per i contadini per lavorare / e io in filanda non voglio più andare // C’è giù il cinghione (si è sfilata la cinghia di trasmissione per gli aspi ) ferma il ruotone / e la filanda è la prigione // È la prigione dei prigionieri / e io in filanda (di andarci) sono stanca abbastanza.
Fach sü la croce – Volvesio di Tremezzo (Como)
Fach sü la croce
sü quel portone
che in filandone
vöi pü andagh
Fach sü la croce
sü quel fornello
che l’ann novello
vöi pü andagh
Fach sü la croce
‘na croce granda
che mì in filanda
vöi pü andagh.
Traduzione
Fai su la croce / su quel portone / che nel filandone / non voglio più andarci // Fai su la croce / su quel fornello / che l’anno nuovo / non voglio più andarci // Fai su la croce / una croce grande / che io in filanda / non voglio più andarci.
Fonte: corrierecomo.it
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