Diritto di voto? Bene, ma non basta — Lombardi nel Mondo
Diritto di voto? Bene, ma non basta
Il voto ormai è un dato acquisito. La macchina è in moto e, nonostante alcune fondate perplessità, come quelle esposte proprio a questo sito da Mario Baccini, nessuno avrà il coraggio di fermarla più, anche perché si rischia di finire fuori dalla Costituzione. Dunque, nella prossima primavera, con ogni probabilità nel mese di aprile, i cittadini italiani residenti all’estero potranno non solo votare per corrispondenza, ma anche eleggere per la prima volta diciotto loro rappresentanti nel Parlamento di Roma, dodici deputati e sei senatori. Un fatto storico, e praticamente unico al mondo, tra i paesi che sono stati flagellati dalla piaga dell’emigrazione.
Ma agli italiani all’estero, che abbiano conservato o meno la cittadinanza della madrepatria, tutto questo può far piacere, ma non può certamente bastare. Le esigenze di milioni di persone non si esauriscono con il riconoscimento, pur importante, di un ruolo politico significativo. Dalle nostre comunità sparse nei cinque continenti si levano altre richieste, tra le quali spiccano quella di non perdere i legami culturali con la Penisola, e quella di non recidere le radici con le terre da cui sono partiti in cerca di fortuna, loro, i loro padri, o i loro nonni.
Sul primo versante è giunto il momento di chiedersi come si possano fare le nozze con i fichi secchi, destinando alla promozione della cultura e della lingua italiana cifre irrisorie rispetto alle altre nazioni. I continui tagli di bilancio alle ambasciate, ai consolati ed agli Istituti Italiani di Cultura rendono una corsa ad ostacoli ogni progetto di diffusione del nostro idioma e della sua letteratura, nonostante la domanda sia segnalata in costante crescita in molte nazioni. Anche la straordinaria rete costituita dalle Società Dante Alighieri combatte una battaglia impari con i British Institutes, i Centre culturel Françaises, i Goethe Institutes e gli Institut Cervantes, assai più attrezzati dal punto di vista economico grazie ai finanziamenti che ricevono dai rispettivi governi. Del resto, le riserve avanzate dal ministro della Funzione Pubblica Mario Baccini in quella famosa intervista proprio questo volevano significare. E il presidente Ciampi, incontrando le nostre comunità all’estero, non si è mai stancato di ripetere quanto sia importante insegnare l’italiano alle giovani generazioni.
Ma una caratteristica particolare della nostra emigrazione è quella di aver cercato di mantenere ostinatamente vivo un rapporto con il paese d’origine. Paese non inteso come nazione, ma come piccolo borgo, vallata, contrada, come dimostra il fatto che l’associazionismo italiano all’estero è organizzato per lo più su scala provinciale e regionale. Da qui la richiesta alle Regioni di assumersi un ruolo nella ricomposizione del mosaico della memoria, la richiesta di non dimenticarsi dei corregionali emigrati nei momenti importanti, come ad esempio la stesura dei nuovi statuti, che alcune amministrazioni sono riuscite a completare prima del voto di aprile ed altre, come la Lombardia, dovranno approvare in questa legislatura appena iniziata.
Spesso poi gli emigrati si trovano ad essere proprietari, magari per eredità, di terreni ed immobili nella zona di provenienza. Talvolta queste case servono per l’estate, in altri casi restano a lungo disabitate. Non è però che lo Stato si dimentichi per questo della loro esistenza, pretendendo il regolare pagamento delle tasse, ICI in testa, ma facendole pagare da seconda casa perché l’emigrante risulta residente all’estero. Si tratta di un costo aggiuntivo che spesso si rivela pesante, di cui i nostri connazionali residenti lontano si lamentano spesso presso le nostre rappresentanze consolari, come mi ha spiegato un amico console in una zona di forte emigrazione italiana nel Nord Europa..
Probabilmente si tratta di una lamentela giustificata, che fa nascere un’idea a chi lavora sul campo fianco a fianco dei nostri emigrati: consentire per legge ai residenti all’estero di pagare l’ICI come prima casa, nel caso di una unica abitazione posseduta sul territorio nazionale. Per evitare abusi basterebbe porre come condizione che si sia residenti all’estero da un tempo piuttosto lungo, ad esempio un quinquennio. Per gli emigrati sarebbe una forma di agevolazione che consentirebbe loro di mantenere più facilmente e più volentieri un legame con la terra d’origine. Di sicuro invoglierebbe a non lasciare andare alla malora le costruzioni, e di questo si gioverebbero anche i comuni. Sarebbe insomma un modo per non far sentire gli emigranti stranieri due volte, stranieri anche nella loro patria.
Luciano Ghelfi
Direttore editoriale di www.lombardinelmondo.org
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