In missione fra i Cariani della Birmania Orientale — Lombardi nel Mondo

In missione fra i Cariani della Birmania Orientale

Seconda puntata dedicata alla storia del missionario comasco Felice Tantardini, raccontata nel libro di Piero Gheddo “Il santo col martello. 70 anni di Birmania, storia e vita missionaria”. Editrice Missionaria Italiana

Il 2 settembre 1922 Fratel Felice parte con due missionari anch’essi destinati in Birmania: padre Vincenzo Marcuzzi e fratel Sandro Perico, pittore. Dopo 19 giorni arrivano a Bombay. Una sosta per visitare le missioni dell’India affidate al Pime e poi a Calcutta dove di nuovo si imbarcano e in tre giorni arrivano a Rangoon. Qui li attende p. Peano, che il giorno dopo li accompagna in treno a Toungoo. Altri missionari sono ad aspettarli e danno loro il benvenuto portandoli all’episcopio. Per ambientare la vita di fratel Tantardini nella missione di Toungoo (che riprenderemo nel capitolo III), raccontiamo brevemente l’avventura dei missionari del “Seminario lombardo per le missioni estere” in Birmania, dall’inizio (1868) fino a quando Felice giunge sul posto (1922).

Territori abitati da tribù in guerra tra loro

Nel 1865 Propaganda Fide propone al “Seminario lombardo per le missioni estere” di prendere la missione della “Birmania orientale” e non manca di avvisare che essa è posta in “territori ancora indipendenti (dagli inglesi), abitati da tribù in guerra tra loro”. Per cui ai missionari ambrosiani viene affidata come punto base di partenza la cittadina di Toungoo, ultimo presidio inglese verso le regioni del nord sotto l’Impero birmano con capitale Amarapura (più tardi Mandalay) e le regioni orientali abitate da tribù montanare e semi-selvagge: i missionari chiameranno il loro territorio “Birmania indipendente”, tanto dagli inglesi che dall’Impero birmano.

Dai territori che per più d’un secolo il Pime ha evangelizzato sono nate l’archidiocesi di Taunggyi e le diocesi di Toungoo, Kengtung, Lashio e Loikaw (si veda la cartina geografica all’inizio del volume). Fin dall’inizio, partendo da Toungoo, i missionari ambrosiani si propongono di raggiungere le regioni “al di là il Salween” (il fiume che divide la Birmania centrale da quella orientale), tanto che lo slogan “passare il Salween” (“andare oltre il Salween”) diventa l’aspirazione comune nel primo mezzo secolo di lavoro in Birmania. Questo corrisponde alla tradizione del Seminario missionario lombardo, che andò in Oceania “fra le popolazioni più lontane e più abbandonate”; in Bengala i missionari sognavano di “passare il Gange” e nell’India del sud volevano “evangelizzare i paria”, cioè il popolo più povero e oppresso.

I primi quattro padri, partiti da Milano il 9 dicembre 1867, giungono a Toungoo il 6 marzo 1868: il prefetto apostolico Eugenio Biffi (1), Rocco Tornatore, Sebastiano Carbone e Tancredi Conti. A Toungoo trovano il p. Giorgio De Cruz, sacerdote birmano-portoghese che aveva studiato a Roma nel Collegio di Propaganda Fide, incaricato dai missionari di Parigi di assistere i padri italiani nei primi passi della missione. Era cappellano militare del presidio inglese di Toungoo e si interessava dei cariani.

Eugenio Biffi scrive che “si tratta di farsi birmani, anzi cariani”: i birmani infatti (la razza maggioritaria in Birmania) sono buddhisti, mentre i cariani, che abitano le regioni dove i nostri andranno a fondare la missione, sono ancora animisti. Il primo impegno è di apprendere la loro lingua, naturalmente non scritta. I missionari si accorgono che, per raggiungere e attraversare il Salween, bisogna superare la regione abitata dai cariani e che vi sono tre etnie “cariane” (2), tutte ancora da evangelizzare (sono i popoli fra i quali lavorerà fratel Felice Tantardini):

– i “cariani bianchi” (“ghebà”) già avvicinati dagli inglesi, di carattere mite e propensi ai commerci con gli europei, abitano nelle regioni pianeggianti vicine a Toungoo;

– i “cariani sokù”, nomadi, “quasi selvaggi”, abitano più lontano, non schivi però dal trattare con gli europei;

– infine, i “cariani rossi” (“prè”), a sette giorni di cammino da Toungoo, più numerosi e battaglieri, che vedono di malocchio gli europei. Gli inglesi consigliano i missionari di avvicinarsi gradualmente e con prudenza ai “cariani rossi”, perché, essendo lontani dalla loro giurisdizione, non possono assicurar loro protezione.

Toungoo, oggi cittadina di circa 80.000 abitanti, a quel tempo ne aveva 15.000; le case, a parte poche eccezioni, erano di legno e di bambù.

“In città – scriveva Biffi – non vi sono che due carrozze; però elefanti, bufali, buoi e capre in buon numero. La maggior parte della popolazione è pagana: i cristiani sono circa 150, quasi tutti del Malabar (militari o servi indiani al servizio degli inglesi, n.d.r.)”.

Toungoo sorge in pianura, ma ad una trentina di km. verso oriente, al di là del fiume Sittang che delimitava la colonia inglese, incominciano le colline e le foreste abitate dai cariani: la missione affidata ai missionari italiani.

“I cariani – scrive Biffi – si trovano in estrema miseria ed ignoranza; non coltivano che il riso ed hanno lo stesso metodo di coltivazione degli indiani d’America. Cambiano abitazione col cambiare terreno da coltivare e siccome una casa di bambù è presto fatta, poco si curano di abbandonare la vecchia per costruirne una nuova. Ciò però costituisce una difficoltà per la missione. Fin che questa gente vive così nomade, non si potrà mai fare un lavoro stabile. La religione dei cariani consiste nella venerazione o piuttosto nel timore degli spiriti maligni e per placarli offrono loro riso e bevande ed anche sacrifici di animali. I cariani sono semplici come fanciulli…”.

I missionari portano la pace fra i villaggi

Da 15 anni si erano insediati a Toungoo i battisti americani, che facevano di tutto per attirare i cariani dalle colline alla città, mandando fra loro catechisti, ma con scarso successo. Biffi intuisce che questo non è il metodo giusto: stabilisce di mandare i suoi missionari a vivere fra le tribù. Così inizia la missione birmana del “Seminario lombardo per le missioni estere”: abitare nei villaggetti dei cariani, in luoghi senza strade, senza nessun segno di modernità, isolati nelle foreste, con tribù in guerra tra loro, adattandosi a condizioni di vita durissime per europei. Si va a piedi o a cavallo in sentieri per i campi e le foreste: una situazione che trova ancora Felice Tantardini cinquant’anni dopo (e che, a causa della dittatura militar-socialista continua in gran parte anche oggi, nelle regioni già evangelizzate dal Pime).

Col nuovo anno 1869, padre Tornatore incomincia a visitare i villaggi, trovando ovunque buona accoglienza. Stabilisce di fissare la prima residenza a Leikthò, un villaggetto di poche capanne con 12 famiglie, a 800 metri sul livello del mare, 50 km. a nord-est di Toungoo. Nella Pasqua 1870 il vicario apostolico mons. Biffi amministra i primi 13 battesimi e nel giro di alcuni anni si formano le prime comunità cristiane in una decina di villaggi. P. Tornatore cura i malati (distribuiva pillole che lui stesso preparava con erbe e materiali locali), insegna i canti cristiani, predica contro gli stregoni (“bikui”) che illudono la gente di guarire sacrificando galline e capre agli spiriti. Nel frattempo, padre Carbone studia il metodo per scrivere la lingua dei cariani (era solo parlata) e incomincia ad alfabetizzare i ragazzi, insegnando loro a scrivere la propria lingua in caratteri latini: iniziativa fortunata grazie alla quale si svilupperà, in seguito, una copiosa letteratura cattolica nelle varie lingue cariane.

La missione a poco a poco si estende nelle regioni dei cariani. I missionari dicono con chiarezza ai capi villaggio, che la loro opera ha uno scopo solo religioso e non politico: “Si tratta di estendere il regno spirituale e pacifico di Dio, non quello inglese”. I primi tempi richiedono un autentico eroismo per resistere sul posto. La missione è poverissima: gli aiuti che giungono saltuariamente da benefattori in Italia e dall'”Opera della propagazione della fede” in Francia non bastano nemmeno per assicurare la sopravvivenza dei missionari, che nel 1872: mangiano una volta sola verso sera. Alla penuria di cibo si aggiunge una febbre maligna che colpisce tutti e poi il vaiolo che scoppia nell’orfanotrofio di Toungoo. Padre Sebastiano Carbone muore il 13 ottobre 1872: fortemente denutrito, è preso da violenta dissenteria che lo porta alla tomba. Aveva 40 anni.

Il 1873 è travagliato dall’improvviso moltiplicarsi dei topi (mangiano il riso e i germogli di bambù) e dalla carestia che dura tre anni. Il raccolto del riso del 1873 va interamente perduto. I missionari calcolavano che metà dei cariani sokù erano morti per questa pestilenza, che spinge verso la missione alcuni villaggi più vicini: da questi contatti di aiuti caritativi incomincia la loro evangelizzazione.

All’inizio degli anni ottanta, la missione di Birmania poteva dirsi stabilmente fondata: nel 1875 i villaggi interamente o parzialmente cristiani erano 40 e 62 l’anno seguente; nel 1880 arrivano al centinaio con circa 10.000 fedeli. Intanto sono giunti altri missionari dall’Italia, che si spingono fino ai confini con i cariani rossi, attraverso la presa di contatto con altre etnie, i ghebà, i sokù, i ghekù e i padaung. L’opera dei missionari è soprattutto educativa: portano il gelso e il baco da seta, il caffè, il chinino, la patata e vari tipi di verdure, costruendo piccole scuole, distribuendo medicine, scavando pozzi; insegnano come conservare l’acqua piovana con vasche di cemento, canalizzandola in tubi di bambù.

L’epopea dei missionari fra i tribali della Birmania orientale, anche solo nell’azione sociale ed economica, meriterebbe ben altro spazio di quello a nostra disposizione. Il cristianesimo fin dall’inizio porta un grande elemento di civiltà fra quelle tribù nomadi: la stabilità e la sicurezza, eliminando le frequenti liti e guerre che erano il pane quotidiano del passato. Fratel Pompeo Nasuelli testimonia di aver sentito più volte discorsi come questo:

“come siamo contenti che i preti sono venuti qui: hanno portato la pace fra noi. Prima che arrivassero i preti noi non eravamo mai sicuri della nostra vita; i nostri nemici venivano per ucciderci e, molte volte, non potendo prenderci di notte, ci aspettavano quando andavamo nei campi e ci uccidevano; non potevamo nemmeno andare a comperarci un po’ di sale perché temevamo di essere uccisi per la strada. Ma adesso che sono venuti i preti, possiamo andare dappertutto senza paura” (3).

La prima tipografia per le lingue locali

Il 7 gennaio 1877 il prefetto apostolico Biffi comunica trionfalmente a mons. Marinoni (4): “La missione tra i cariani rossi è cominciata. Ma quanto sono selvaggi!”. E cita fatti realmente impressionanti. Ma la missione fra i cariani rossi ha vita breve: mancando i missionari, Biffi ritira dalla loro regione l’unico missionario p. Rocco Tornatore, che era stato minacciato di morte col suo catechista, perché volevano seppellire i morti delle guerre intestine, violando un tabù locale.

Fra gli altri gruppi tribali la missione attira gruppi e famiglie, visitando i villaggi uno per uno e mostrando il volto caritatevole del cristianesimo anche con feste e raduni popolari di due-tre giorni. Nei mesi di febbraio e marzo, quando la gente è più libera dai lavori agricoli, si celebra nei villaggi cristiani più centrali “la festa dei monti”, in un luogo vicino ad un bosco di bambù.

La gente del villaggio prepara col bambù vari capannoni, senza usare un solo chiodo, tutto il lavoro è fatto ad incastro: servono per dormitori, raduni, chiesa, casa dei padri e delle suore… Dai villaggi vengono in processione, con musiche e schioppettate fra l’entusiasmo generale; e poi danze, canti, teatri, pranzi a base quasi esclusiva di riso e carne, giochi, processioni e solenni cerimonie in un capannone; alla sera, le proiezioni di immagini a colori della storia sacra. Il fratello Giovanni Angelini racconta a Marinoni le meraviglie di quelle proiezioni:

“Alla sera vi furono fuochi artificiali di tutti i colori e non è a dire come i cariani fossero meravigliati al vedere il fuoco andar per aria e poi dividersi come in tante stelle di vari colori… Era un continuo gridare di meraviglia. Poi si fecero vedere, con la lanterna magica, i misteri della Passione di nostro Signore e altri fatti di storia sacra, che fecero molta impressione; infine alcune cose da ridere e da ultimo il diavolo. Che confusione di grida, allora! Chi rideva, chi piangeva dalla paura e chi gridava: silenzio! per udire la spiegazione. Si spiegò che quella brutta figura era appunto quella che essi invocano nelle malattie, a cui offrono galline da mangiare e che egli non mangia; quella insomma, che adorano e che, se non si fanno cattolici, li avrebbe menati tutti con lui all’inferno. Alcuni si decisero di abbandonare questo mostro, la cui sola figura metteva loro paura. Così ebbe fine la grande festa della quale fra i cariani si parlò per due o tre mesi”.

I catechisti, quasi tutti cariani, erano una ventina nel 1872 e 60 nel 1879, alcuni dei quali veramente superiori ad ogni elogio, come quello che, avendo il “sawbwa” (regolo) dei ghekù di Momblò minacciato di morte p. Rocco Tornatore, va davanti al capo e dice ad un altro catechista che voleva trattenerlo: “Io sono il cane del missionario: se il prete deve morire, anche il suo cane morirà con lui”.

La missione pensa fin dall’inizio a preparare elementi per il seminario e già nel giugno 1875 il p. Tancredi Conti accompagna i primi due giovani al “collegio generale” di Pulo-Penang delle missioni estere di Parigi (Malesia), seminario che serviva a tutte le missioni dei paesi indocinesi. Nel 1882 mons. Biffi inaugura a Toungoo la prima tipografia, in sostituzione della litografia (1873) che riproduceva copie di testi scritti a mano.

Nel 1882 giunge dall’Italia fratel Ubaldo Zambelli: vero artista dell’arte tipografica e fotografica, produceva lui stesso i caratteri tipografici e le incisioni su legno, con risultati di stampa che non si erano mai visti da quelle parti. Le principali ordinazioni venivano dal governo e dall’esercito inglese, ma la tipografia stampava anche molto materiale nelle lingue locali per le missioni sui monti: libri di preghiere, il vespro e i Vangeli della domenica, canti sacri, catechismi, la storia sacra e un giornaletto in cariano (6 numeri l’anno).

La tipografia del 1882 è stata la prima che ha stampato opuscoli e libri nelle lingue non birmane, cioè delle tribù dei monti: catechismi, vocabolari, testi per le scuole di alfabetizzazione, materiale liturgico e per i canti, giornaletti e libri da diffondere nei villaggi per aprire la testa e il cuore di chi aveva imparato a leggere. Anche l’avventura di questa tipografia, con l’arte di fondere i caratteri per le lingue locali, sarebbe degna di essere raccontata. Sempre guidata da fratelli del Pime, funzionava ancora nel 1986 sotto la guida di fratel Ernesto Pasqualotto (1910-1986) e stampava in una dozzina di lingue locali, oltre che in italiano e in inglese.

Da Tancredi Conti a Rocco Tornatore (1882-1886)

Il 13 settembre 1881 mons. Marinoni manda a Biffi un laconico telegramma: “come, Pope calls you” (Vieni, il Papa ti chiama). A Toungoo i missionari sono sgomenti, ma capiscono che non c’è nulla da fare. Come già si vociferava, il Papa voleva nominare Biffi arcivescovo di Cartagena in Colombia, dove era stato mandato come missionario da Pio IX nel 1856 e poi espulso dal governo massone nel 1862. Aveva lavorato nel Belize (colonia inglese nella penisola dello Yucatan) fino al 1868, quando venne mandato da Marinoni a dirigere la nuova missione di Birmania. Ora il popolo di Cartagena lo reclamava a gran voce come vescovo (morirà nel 1996). La missione rimane senza il suo fondatore e l’uomo certamente più esperto e stimato. Ma al Papa non si può dire di no.

Intanto la colonizzazione si estende a tutto il paese, che perde la sua indipendenza. Nel 1852 gli inglesi occupano la Birmania meridionale, ma quella settentrionale aveva ancora il suo imperatore a Mandalay, mentre quella orientale (affidata al Seminario lombardo delle missioni estere), abitata da tribù nomadi e guerriere, era rimasta libera. Nel 1878 diventa imperatore il giovane Thibaw, che si segnala per la feroce crudeltà nel far strangolare 86 membri della sua famiglia: uomini, donne, fanciulli e bambine.

Gli inglesi intervengono, anche perché Thibaw si dichiara “re guerriero”, prepara un forte esercito e vuol prendere la Francia come partner commerciale. Nel novembre 1885 l’Inghilterra gli manda un ultimatum, chiedendo anche concessioni per le compagnie inglesi del legno “teak”. Si giunge alla guerra, le truppe inglesi entrano in Mandalay il 28 novembre 1885 e il 1° gennaio 1886 l’Inghilterra dichiara l’annessione della Birmania settentrionale e orientale; poi ci vorranno anni per occupare quest’ultima e pacificare le tribù fino ai confini col Laos, la Thailandia e la Cina: proprio le regioni affidate dalla Santa Sede ai missionari del Pime.

Il nuovo prefetto apostolico, mons. Tancredi Conti, parte da una solida base. Nel settembre 1880 la missione della Birmania orientale presentava queste cifre:

– I battesimi in un anno superano i 900.

– A Toungoo i cattolici sono circa 400. In città la Chiesa ha lo stabilmento litografico (presto la tipografia) e fotografico, due scuole, una anglo-birmana e una cariano-birmana; questa, collegata con l’orfanotrofio maschile, con funzioni anche di catechistato, ha 80 orfani (77 cariani e tre birmani). Le suore di san Giuseppe dell’Apparizione hanno anch’esse una scuola per ragazze e un orfanotrofio femminile (43 bambine).

– La missione ha 7 sacerdoti del Pime, 3 fratelli, 4 suore, 56 catechisti. I missionari sono due a Toungoo, due a Leikthò, due a Toklodò, uno a Matalehò (5).

– A Leikthò ci sono due missionari e un fratello: è il centro della missione, che comprende un centinaio di villaggi da visitare, cattolici o catecumeni. I villaggi, posti sempre sulle cime delle colline e dei monti, distano tra loro 2-3-4 ore di cammino, per sentieri difficili: “Nel tempo delle piogge, quanto è dura la vita del missionario tra i cariani!”. La missione infatti si svolge con continue visite ai villaggi dispersi sui monti e in foresta.

L’importanza della missione cattolica per lo sviluppo di Toungoo è riconosciuta ufficialmente. A metà del 1882, mons. Tancredi Conti diventa membro del consiglio comunale e poco dopo il Comune costruisce il campanile della cattedrale, dotandolo di un orologio e di un concerto di campane acquistate in Italia. A Toungoo la missione cattolica è ben rappresentata dai due orfanotrofi e dalle scuole (sfilate, teatri, saggi ginnici) e soprattutto dalla tipografia di cui già s’è detto.

Nuovi missionari vengono inviati quasi ogni anno dall’Italia e la missione prospera sui monti, diversi però muoiono nei primi anni. A Leikthò ed a Matalehò si costruiscono due chiese in legno teak, vengono iniziati altri due orfanotrofi (a Leikthò e Yadò), i villaggi da visitare sono tanti e altri chiedono il missionario. Le difficoltà maggiori sono due: le continue guerre tra i villaggi con relativo brigantaggio e le lotte che i battisti fanno ai cattolici, fino ad assaltare e bruciare alcuni loro villaggi.

Nel 1894 il p. Sagrada costruisce il campanile della chiesa di Leikthò con i finanziamenti ottenuti dal settimanale diocesano di Lodi. Ci volevano quattro pali di legno-ferro (pesanti come il ferro) inattaccabili dalle termiti, alti circa 18 metri. A 12 km. da Leikthò c’è in foresta questo legno: si tagliano gli alberi, se ne ricavano dei pali, poi 200 cariani li trascinano attraverso colline, campi e fiumiciattoli e li innalzano al posto giusto! Altre centinaia di cariani trascinano per 60 km. da Toungoo (non essendoci strade) tre campane italiane fino a Leikthò. Il giornale cattolico in cariano di Toungoo (“Dedòsa”) scrive:

“Cariani! Se i vostri avi vedessero quello che voi avete fatto, vi invidierebbero e direbbero: Tanto sanno fare i nostri nipoti!”. E’ la fede che vi rende coraggiosi e forti”.

L’immensità del territorio e le difficoltà dei missionari nell’interno portano alle dimissioni di mons. Tancredi Conti, che il 3 novembre 1886 si ritira e lascia la guida della missione a Rocco Tornatore. Si era creata una certa incomprensione fra la periferia e il centro, fra le missioni dei monti e quella di Toungoo. I missionari dei monti dicevano che a Toungoo si spendeva troppo per opere di prestigio, a Toungoo si criticavano i missionari: volevano fare il passo più lungo della gamba e chiedevano mezzi che non c’erano per nessuno.

L’impazienza dei missionari veniva da questo fatto: dopo la conquista inglese, i catechisti di tre o quattro confessioni protestanti, ben pagati e forniti di mezzi, si erano sguinzagliati nelle regioni dei cariani, facevano facili conquiste e orientavano i loro seguaci in un senso fortemente anti-cattolico. Di fronte a loro, i missionari si sentivano come pezzenti. Tancredi Conti, uomo di valore e di spirito ma vissuto sempre in città, fatto più per lo studio che per l’azione, si sente inadatto a dominare la situazione. Torna a Milano dove entra a far parte della direzione dell’Istituto e insegna nel seminario missionario.

La meta suprema: “Passare il Salween” (1894-1896)

Il candidato naturale a sostituirlo è Rocco Tornatore, che all’inizio non accetta: non vuole abbandonare i suoi “selvaggi”. Nel dicembre 1887 la Santa Sede lo nomina pro-vicario e nel 1889 vicario apostolico con dignità episcopale. E’ consacrato vescovo nella cattedrale di Mandalay l’8 dicembre 1890 da mons. Bigandet; non si stabilisce a Toungoo, ma continua ad abitare fino alla morte nel suo distretto sui monti e di là dirige il vicariato apostolico. Come regalo per il suo episcopato riceve una sella per il cavallo (6).

Il vescovo Tornatore (muore nel 1908) realizza l’occupazione del territorio e la maturità di una missione di cui è segno il primo sacerdote cariano ordinato nel 1897, Luca Nelé, e l’aumento dei battezzati, che nel 1900 erano 12.239 e nel 1908 14.360, con 9 stazioni principali, 13 missionari del Pime, 13 religiose italiane della Riparazione e una indigena, 173 catechisti, 7 chiese e 176 cappelle, 56 scuole con 1.105 alunni, 10 orfanotrofi con 520 orfani, 10 farmacie per la distribuzione di medicine.

Tornatore aveva grandi visioni. Stando in prima linea, aveva maturato la convinzione che nella missione fra popoli del tutto nuovi al Vangelo, conta molto arrivare per primi. Il dominio inglese che si estendeva rapidamente fino alle frontiere della Birmania favoriva le Chiese e le sette protestanti, numerose, con tanti mezzi e ferocemente anti-cattoliche. Un giornalista protestante descrive (7) il lavoro dei ministri protestanti e dei missionari cattolici in Birmania:

“Vivono con grande lusso in residenze simili a palazzi, d’estate si recano in riva al mare o sui monti e chi può in America nei mesi delle piogge. La loro missione non ha avuto frutto alcuno degno di tal nome…

Osservate i sacerdoti cattolici sui monti dei cariani rossi, con quel grand’uomo che è il vescovo Rocco… Il loro lavoro è duro e pericoloso, abitano in capanne che i ministri protestanti non userebbero come stalle per i loro animali. Sono pronti ad ogni ora e con qualsiasi inclemenza di tempo all’esercizio della loro vocazione, con cibo e vestiti miseri quanto si può dire. Vivono sui monti o sul piano con il loro popolo anche quando la malattia, la morte o la carestia serpeggiano intorno. Estate o inverno, pioggia o sole sono eguali per loro; dal giorno che approdano in Birmania la loro vita è tutta dedicata al loro gregge”.

Mons. Tornatore si propone due mete: una la raggiunge e l’altra la fallisce.

1) Impianta la Chiesa fra i cariani rossi, interessanti per la maggior consistenza dei villaggi e perché vicini al Salween. Lui stesso vi aveva fatto delle puntate, ma con scarso successo: avevano anche attentato alla sua vita. Ritorna col p. Celanzi nel 1891 e ne riceve miglior impressione. Nel gennaio 1892 accompagna i padri Teobaldo Villa e Antonio Cazzulani e stabilisce la prima missione fra i cariani rossi a Lodjakhù (3 km. da Loikaw), la stazione più lontana da Toungoo. Nel 1893 sorge anche la stazione di Soljakhù, col fratello Giovanni Angelini che, data la sua conoscenza dei luoghi e della lingua dei cariani rossi, faceva la spola fra l’una e l’altra. La tribù si apre al Vangelo. Nel 1895 un capo influente chiamato Chadì si converte e la residenza del missionario, prima a Lodjakhù, viene spostata a Mushò e quella di Soljakhù a Pekkong.

2) L’aspirazione a “passare il Salween” si realizza solo dopo la morte di Tornatore. Fondata la missione fra i cariani rossi, il vescovo organizza una seconda spedizione verso la Birmania orientale (la prima nel 1886), composta da lui stesso, p. Teobaldo Villa, fratel Angelini e alcuni portatori con una guida indigena. Partono da Lodjakhù il 21 febbraio 1894, ma arrivati alla sponda del Salween, la guida indigena si rifiuta di proseguire e i portatori abbandonano la carovana. Una terza spedizione nel 1895 non ha miglior fortuna, nessuna guida indigena vuole accompagnarli oltre il Salween in regioni sconosciute e, diceva la gente, malfamate per le tribù che l’abitavano: gli “wa” ad esempio, tristemente famosi come “tagliatori di teste”.

Il quarto tentativo, nel 1896, ha successo, ma mons. Tornatore deve fermarsi a Lodjakhù per una brutta caduta da cavallo. Proseguono p. Teobaldo Villa, due catechisti e nove portatori indigeni, che giungono fino a Kengtung, con una spedizione durata tre buoni mesi. Ma passano ancora 16 anni prima che si possa impiantare la missione oltre il Salween, non per il timore di popolazioni non molto diverse da quelle al di qua del fiume, ma per la tremenda lontananza di Kengtung dal centro della missione a Toungoo. Così, a Kengtung i missionari cattolici sono preceduti dai battisti, venuti non dalla Birmania ma dal più vicino Siam (Thailandia)!

Al di qua del Salween, sono evangelizzate le varie etnie dei cariani: padaung, ghekù, blimò, jimbò, ecc. Alla fine del secolo scorso, fra i cariani rossi si aprono diverse stazioni missionarie, oltre a Lodjakhù e Soljakhù: Mombié, Dorokò (abitata dai jimbò), Mushò e Jamapoli. Nel 1895 la conversione del capo Chadì apre le porte della Chiesa tra queste etnie numerose e influenti. Dopo l’occupazione inglese e la pacificazione delle tribù, i principotti locali aumentano il loro potere perché riconosciuti dall’autorità coloniale. Il “regolo” Chadì diventa amico dei missionari, chiede e ottiene il battesimo e subito si crea un certo movimento di conversioni nella zona di Dorokhò e Mushò.

Il distretto che più consolava i missionari era quello di Momblò fra i ghekù, un’ottantina di km. a nord-est di Leikthò, iniziato nel 1891. P. Paolo Manna vi arriva nel 1895 (8), dopo due missionari che avevano lavorato bene e con buoni risultati, p. Cesare Ruberti e p. Gustavo Maria. Quando Manna arriva dall’Italia nella casa episcopale di Toungoo nel 1895, fratel Pompeo Nasuelli lo porta nella sua stanza. Entra e vede: un tavolino, una sedia, uno sgabello con un catino e una brocca d’acqua per terra, un armadio e una plancia di legno su due appoggi.

“- Immagino che dormirò su quel tavolaccio… dice il giovane missionario a Pompeo.

– Certo, poi le porterò una coperta. Qui non usiamo né materasso né lenzuola.

– E il cuscino?

– No, nemmeno quello. Se vuole può fare un fagotto con i suoi abiti e lo mette sotto la testa. Anche il vescovo dorme così”.

Dopo un anno a Toungoo per studiare le lingue, Manna viene destinato a Momblò fra i ghekù. Vi giunge il 27 ottobre 1896 accompagnato da fratel Giovanni Antonio Dal Pozzo, venuto con lui dall’Italia. Compie un buon lavoro e scrive anche un catechismo in lingua ghekù, ma nel 1901, per malattia, deve ritornare in Italia, dove completa la stesura dello studio etnologico “I ghekù”. Riprende due volte la strada per la Birmania e nel gennaio 1906 è mandato a Loikaw (oggi diocesi) come primo residente. Abitava in un quartiere ad est di Loikaw, vicino al cimitero buddhista, ma il 6 giugno 1907 è costretto ad imbarcarsi definitivamente per l’Italia. Nella prima missione di Birmania il distretto di Momblò sarà uno dei più formati e fedeli.

Un altro distretto portatore di frutti è Yadò dove lavorava il p. Gioacchino Cattaneo, che dava particolare importanza all’orfanotrofio, da cui venivano buoni padri e madri di famiglie cristiane e catechisti. Nel 1894 mons. Tornatore vi benedice una grande chiesa in legno teak, a tre navate, la più bella della missione! Nel 1895 la rivolta di uno dei capi ghekù contro gli inglesi crea un terremoto nella regione. L’autorità coloniale vorrebbe dare una severa punizione ai villaggi ribelli, ma per intercessione di mons. Tornatore che tranquillizza gli inglesi, per questa volta perdona a tutti. Cattaneo scrive che il movimento verso la Chiesa “è generale e così il gran temporale è riuscito una pioggia benefica!”.

Padre Cattaneo è anche il missionario che prende per primo contatto con “i selvaggi pré” (del ramo “cariani rossi”), chiamati anche “koyo”; una delle tribù più arretrate e battagliere, famosa per i furti di bufali, sempre in guerra fra villaggio e villaggio. Grazie all’abile aiuto del catechista Simone Lakka, p. Gioacchino porta la pace in molti villaggi, parecchi dei quali diventano cattolici.

Rocco Tornatore: “Il vero tipo di vescovo missionario” (†1908)

Il clima micidiale del bassopiano dov’è situata Toungoo e la povertà della missione di Birmania mietono nei primi tempi molte vittime fra i missionari, oltre a quelli sopravvissuti perché rimpatriati a tempo (come p. Manna):

– p. Sebastiano Carbone muore nel 1872 a 40 anni (dopo solo 4 anni di missione);

– fratel Martino Frangi nel 1875 a 23 anni;

– fratel Ubaldo Zambelli nel 1893 a 34 anni;

– p. Cesare Ruberti muore annegato mentre passava un torrente a guado nel 1893 a 29 anni;

– p. Teobaldo Villa nel 1899 a 33 anni;

– fratel Giovanni Angelini nel 1900 a 46 anni;

– p. Angelo Baldovini nel 1901 a 45 anni;

– p. Pietro Parravicini nel 1902 a 29 anni;

– p. Antonio Cazzulani nel 1904 a 39 anni.

Nel 1895 giungono a Toungoo le prime suore italiane della Riparazione (fondate dal p. Carlo Salerio a Milano nel 1862), che nel 1899 aprono la prima scuola femminile a Leikthò, fra le tribù cariane. Fanno a tempo a prendere la grande ondata di colera del 1897, durante la quale muore suor Arcangela Santini, 26 anni, con otto delle sue ragazze. Le stragi di colera si succedevano regolarmente ogni due-tre-quattro anni, sempre in estate. Nel 1892 Zambelli scrive da Toungoo: “La città si spopola, si popola il cimitero”. In quell’anno a Leikthò, dopo i primi morti, la gente fugge tutta verso la foresta e i monti, lasciando soli in città mons. Tornatore, p. Sagrada e fratel Pompeo, con i malati che non potevano muoversi.

Uno dei crucci di mons. Tornatore erano i miserabili mezzi finanziari di cui disponeva: i magri assegni annuali della Propagazione della Fede non bastavano assolutamente a mantenere una missione in crescita vigorosa. Tenta inutilmente di avviare piantagioni di caffè e risaie della missione, poi nel 1902 decide di mandare alcuni mesi in Italia p. Goffredo Conti per raccogliere offerte. Ma la missione rimane poverissima.

La morte di Tornatore (26 gennaio 1908), a cavallo durante una visita ai padaung e ai cariani rossi, è sentita fortemente dalla gente dei monti: piangono il loro padre, vengono anche da lontano per vederlo un’ultima volta. P. Manna ha scritto di lui:

“Era il vero tipo di vescovo missionario. In lui una grande semplicità e un grande zelo. Alieno dal darsi qualsiasi importanza, ai suoi missionari, più che con le parole, mostrava con l’esempio come si dovesse fare; valeva di più fare un giro di missione con lui, che studiare sui libri la pratica pastorale. Non domandò mai ad altri di fare quanto non poteva fare da sé. Era sempre a disposizione di tutti. Lo zelo di mons. Tornatore è indescrivibile. Nessuno potrà mai sapere quanto abbia operato e sofferto in quarant’anni per salvare quelle anime, per estendere il Regno di Dio in quelle contrade e ciò anzitutto perché viaggiava quasi sempre solo, poi perché gli atti più grandi li compiva con la semplicità dell’uomo pel quale l’eroismo è virtù abituale. Egli curava l’anima e il corpo del povero lebbroso, del coleroso, del vaioloso, come fosse la cosa più naturale del mondo.

Neanche nella terribile stagione delle piogge sapeva starsene quieto a lungo. Ritornato da un giro sui monti, lasciava passare tutt’al più una settimana e ricominciava da capo in altra direzione la visita ai suoi figli spirituali affrontando difficoltà e sacrifici indicibili. La missione è un continuo susseguirsi di monti interamente coperti da foreste vergini, privi di strade, attraversati da innumerevoli fiumi impetuosi e senza ponti, infestati da tigri ed altre belve feroci. Quando lo vedevo andar su e giù per quei monti, nella sua età veneranda, arrampicarsi su per dirupi o scendere per precipizi, non potevo non vedere in lui la viva immagine del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita.

Chi ha conoscenza anche piccola della rozzezza, della povertà di quelle primitive tribù, di quanto ributtanti sono alle volte quegli uomini quasi selvaggi, può anche farsi un’idea delle grandi vittorie che ha dovuto riportare su se stesso nella continua convivenza con loro. Egli li amava con affetto più che paterno, li trattava con tutta familiarità. E nei villaggi, quali privazioni! Nei villaggi cariani non si sa cosa siano le comodità.

E’ sempre la cappella di bambù che vi alloggia e siete fortunati quando il tetto di paglia e il pavimento sono in buon ordine. Niente letto, niente sedie, niente di niente… Il vitto in questi viaggi consisteva in puro riso bollito e “curry” (salsa di peperoncino), con un pezzo di pane tostato bagnato nell’acqua… Prendeva il misero pasto seduto per terra col piatto sulle ginocchia… Monsignore attingeva tanto zelo e lo spirito di sacrificio dall’amore verso Dio… Era sempre il primo a levarsi e le prime ore del giorno le passava in chiesa… Piacevole e cara la sua compagnia: era sempre allegro, sempre faceto, tanto che lo stare con lui, il viaggiare con lui era un vero diletto”.

La lotta fra cattolici e protestanti a Kengtung (1912-1920)

L’episcopato di mons. Emanuele Sagrada, successore di Tornatore nel 1909 (9), incomincia con la preparazione del viaggio per impiantare la missione a Kengtung, “al di là del Salween”. Da Toungoo sono circa 500 km. a cavallo, in territori forestali senza strade! La spedizione, ormai possibile perché gli inglesi si erano stabiliti a Kengtung, era stata rimandata per mancanza di denaro. Nel 1911 una buona lettrice di Napoli offre a p. Manna, che ne aveva parlato su “Le Missioni Cattoliche”, la somma di Lire 40.000 (favolosa a quei tempi), “per la fondazione di una stazione missionaria a Kengtung”. Così nasce quella che mons. Sagrada chiama subito la “missione della Divina Provvidenza”.

Il 7 marzo 1911 la comitiva missionaria lascia Pekkong sui monti cariani, visita Taunggyi e Loilem e giunge il 22 marzo sulla riva del Salween, il secondo fiume della Birmania dopo l’Irawaddy; il 29 marzo è a Kengtung. Il cammino è molto facilitato dalla strada che gli inglesi stanno aprendo con i mezzi più moderni.

I tre missionari (Emanuele Sagrada, Antonio Pirovano, Giovanni Resinelli), con tre catechisti, un cuoco e quattordici portatori, ripartono da Kengtung l’11 aprile e ritornano a Pekkong per il 5 maggio: in tutto, a cavallo, 1.470 km!

A Kengtung i missionari hanno il doloroso stupore di vedere che i protestanti (battisti di Los Angeles e presbiteriani di Boston), giunti dal Siam, si sono ben impiantati dal 1904; in città hanno ospedale, cappella, orfanotrofio, nei villaggi varie altre opere. Contano dai 10 ai 15.000 fedeli. I nostri visitano l’autorità inglese e il “sawbwa”, il capo indigeno che abita l’unico vero palazzo della cittadina (14.000 abitanti). Sono ben accolti. Lo stesso ministro battista di Kengtung, rev. Young, va a visitarli nel “bungalow” pubblico dove abitano (alberghetto). Partendo, mons. Sagrada lascia a Kengtung due catechisti, che devono studiare l’ambiente e far girare la voce che fra poco verranno i missionari a fondare la Chiesa cattolica.

Il 27 gennaio 1912 i primi tre missionari giungono a Kengtung: p. Erminio Bonetta, che dirigeva il distretto di Momblò, p. Leone Lombardini quello di Vary (Hoari), e p. Francesco Portaluppi, da poco giunto dall’Italia (10). “Giovanissimi, ardimentosi e decisi”, così vengono descritti. I tipi giusti, insomma, per una missione difficile come Kengtung, isolata e già occupata dai battisti, che nel frattempo hanno diffuso voci negative sui cattolici. Dal loro punto di vista non avevano tutti i torti. Essendo giunti per primi e avendo lavorato molto bene in tutta la regione (diversamente da come avevano fatto fra i cariani), credevano di avere una specie di esclusiva per predicarvi il Vangelo.

Di qui la lotta senza quartiere contro i tre missionari cattolici, che andava dal proibire alla gente di dare aiuto fino al diffondere una rete di sospetti e di calunnie, che ricordano le reazioni dei primi secoli nei confronti dei cristiani: i “preti romani” rubano l’anima, si cibano dei bambini, portano il malocchio, compiono immoralità segrete, ecc. I battisti chiedono al “sawbwa” di proibire ai cattolici di stabilirsi nelle terre di sua competenza. Il re indigeno, prudentemente, scrive ad un alto funzionario inglese in India, suo amico, col quale aveva partecipato alla cerimonia d’incoronazione di Re Giorgio V a Londra nel 1910.

“Sento che sono venuti nel tuo distretto dei missionari cattolici – gli risponde. – Trattali bene, appartengono alla mia religione. Garantisco io per loro”.

D’incanto, la temuta opposizione del “sawbwa” diventa amicizia e benevolenza, fino a fargli dichiarare in pubblico che i missionari sono suoi amici; addirittura nel 1914 manda due suoi figli alla scuola cattolica e li seguono tre figli di suoi “phya” (ministri). Egli stesso s’interessa per il terreno su cui costruire la missione in città. E qui interviene la Provvidenza.

Kengtung sorge su sette colli, con in centro un lago e la parte bassa della città, più malsana e meno nobile. Quando giungono i missionari del Pime, sei colli sono già occupati: l’autorità inglese e quella locale, la pagoda e le istituzioni buddhiste, la chiesa e le opere dei battisti e dei presbiteriani, i militari inglesi, l’ospedale e la scuola governativi. Solo l’ultimo è ancora libero e ricoperto di foresta, ma tutti dicono: “E’ occupato dagli spiriti cattivi”.

Il “sawbwa” lo concede gratis se hanno il coraggio di prenderlo. Figurarsi se i tre “giovanissimi, ardimentosi e decisi” hanno paura di questo! Così si acquistano anche la fama di uomini potenti nel mondo degli spiriti. Oggi a Kengtung la missione cattolica ha vasti spazi e una magnifica posizione con un’intera collina: cattedrale, seminario, episcopio, casa del parroco, “Pime Hall” (auditorium e casa della cultura intitolati al Pime), conventi di tre congregazioni femminili, orfanotrofio, scuole varie, opere sociali, officine e magazzini, villaggio cattolico, cimitero, ecc.

Il contrasto fra cattolici e battisti-presbiteriani rimane come un segno negativo per la missione della Birmania orientale e se ne trovano ampie tracce in tutta la sua storia. Dopo il Concilio Vaticano II i rapporti sono andati migliorando anche in Birmania: oggi le lotte di un secolo o mezzo secolo fa non sono più immaginabili, anzi si collabora in molti campi. E’ triste però pensare che Cristo è stato annunziato per la prima volta su queste frontiere (come in tante altre parti del mondo!) con il marchio della divisione e i suoi missionari hanno dato spettacolo non di volersi bene, ma di combattersi a vicenda: proprio il contrario di quel che Gesù ha detto di fare!

Lo scandalo dei cariani per la prima guerra mondiale

Torniamo alla prefettura apostolica di Toungoo, dove nel gennaio 1909 mons. Emanuele Sagrada inizia il suo episcopato. La sua prima impresa, già si è detto, è stato il viaggio a Kengtung (1911) e l’invio di tre missionari (1912) a fondarvi la Chiesa. Sagrada aveva ricevuto da mons. Tornatore un’eredità pesante. Nei primi 40 anni di vita (1868-1908) la missione della Birmania orientale era riuscita a stabilirsi fra le principali tribù del territorio: cariani bianchi, cariani sokù, cariani rossi, ghekù, padaung, mushò, pré, blimò, manò, gimbò, erano entrati nell’orbita della Chiesa con le prime comunità cristiane. Ora bisognava consolidare le conquiste dando maturità alla Chiesa nascente. Ma questa seconda fase pareva più difficile di quella iniziale dello sfondamento: è la situazione che trova fratel Felice Tantardini, quando giunge a Toungoo nel 1922. Ecco le difficoltà da affrontare:

1) L’esiguità della popolazione dispersa in villaggetti di poche famiglie ciascuno, su grandi distanze, senza strade; popoli nomadi e diversi l’uno dall’altro, ciascuno con la propria lingua, tradizione, credenze religiose…

2) La miserabilità della vita indigena: analfabetismo quasi totale, miseria nera, periodo annuale di fame e di carestia prima del raccolto del riso (unica coltivazione), malattie epidemiche (colera, vaiolo, malaria, lebbra), continue guerre fra villaggi ed etnie, anche se l’opera di pacificazione dei missionari e del governo inglese cominciava a creare un’atmosfera nuova; infine, il paganesimo più crudo che si manifestava in mille modi e faceva dire ai missionari che quei popoli erano schiavi del demonio.

3) La povertà della missione cattolica rispetto alle necessità della gente e all’agiatezza delle missioni protestanti. All’inizio del secolo l’Italia era anch’essa un paese povero, con un popolo non sensibilizzato all’opera missionaria: le misere offerte ai missionari venivano quasi solo da parenti e amici. I cristiani cariani, sebbene sollecitati a contribuire alle spese della missione, erano più bisognosi di aiuto che in grado di aiutare.

4) Infine, la prima guerra mondiale (1914-1919) suscita uno scandalo enorme fra le comunità cristiane in Birmania. Fin nel più isolato villaggio si ha notizia della guerra: nell’esercito coloniale inglese che combatteva in Europa erano stati reclutati anche numerosi giovani cariani. Gli indigeni vedevano i bianchi come modelli da imitare, più evoluti a causa della fede cristiana: adesso si trovano confrontati con i popoli di origine dei loro missionari che si odiano, si ammazzano…

“Voi venite ad annunziare una religione di pace – dicevano i cariani ai missionari – voi siete i nostri maestri nella via del Signore, voi ci insegnate che bisogna lasciare qualsiasi odio e vendetta per amarci a vicenda: in qual modo mettete ora in pratica questi vostri insegnamenti? Perché tanto spargimento di sangue tra cristiani e fratelli?”.

Durante la prima guerra mondiale, la missione di Toungoo attraversa una grave crisi economica. Sul luogo non ci sono risorse, dall’Europa non giunge nulla, le missioni sono costrette a licenziare catechisti, personale insegnante e di servizio, a non prendere più orfani. Le stesse “feste dei monti” annuali, con grande concorso di popolo, nelle quali i poveri cristiani vengono da lontano per incontrarsi e ricevere un messaggio di fede e di coraggio, sono celebrate con difficoltà: scarseggia il denaro per il riso e gli animali che permettano il grande pranzo comunitario (senza abbuffata a crepapelle, che senso ha la festa annuale?). Alla festa del 1918, per celebrare i 50 anni della missione di Toungoo, padre Antonio Pirovano, cronista scrupoloso, nota:

“La festa presenta ogni anno un suo aspetto speciale. La festa di quest’anno rimarrà nota per la miseria… Fatte poche eccezioni, non ho visto che facce smunte di missionari, che tradivano lunghe privazioni, patimenti nascosti. Senza essere licenziato in medicina, lo si capisce a colpo d’occhio: questi preti mangiano troppo poco e male. Se chiedete loro spiegazione negano tutto ed hanno il coraggio di sorridere, ma il loro sorriso è una smorfia. Ciò che più mi ha colpito è che questi uomini non protestano, non reclamano, non chiedono per sé, ma il loro pensiero torna ai loro villaggi, agli orfani, ai vecchi, ai catechisti che li guardano come loro padre e madre…

Finito il magro pranzo, veramente magro nonostante la solennità della circostanza, comparve lì, sullo sgangherato tavolaccio, un biglietto minuscolo ma terribile nel contenuto. Quello che da tempo si temeva era avvenuto: la bancarotta della missione di Toungoo. Il bravo procuratore diceva il suo parere circa il metodo da usare:

1) abolire totalmente qualsiasi assegno mensile per i catechisti indigeni;

2) ridurre il viatico dei missionari a 25 rupie al mese (invece di 30) (11).

Alla lettura di quel foglietto si videro facce diventare bianche, altre rosse, a tutti mancò il fiato. Come si può tirare avanti? Anche la pazienza del missionario ha un limite…”.

La missione promuove lo sviluppo dell’uomo

Al termine della prima guerra mondiale il vicariato apostolico di Toungoo ha 18 missionari, 21.352 cattolici, 263 villaggi cristiani, 258 catechisti, 18 orfanotrofi. L’azione pastorale negli anni venti e trenta – quella che vive fratel Felice – è orientata al consolidamento della fede e delle comunità cristiane: ad esempio, i ritiri spirituali di tre giorni nei villaggi più importanti e centrali, aperti a tutti i cristiani, con quattro prediche al giorno, preghiere, cerimonie. Nel 1928 mons. Sagrada scrive a Milano che l’iniziativa ha incontrato un successo insperato.

Le altre iniziative sono in questa linea: costruzione di chiese in legno, diffusione delle scuole e della letteratura cristiana, cura degli orfani, dei catechisti e dei seminaristi, aiuto alla promozione umana, visite frequenti ai villaggi cristiani. Si moltiplicano le feste e i segni cristiani visibili anche al mondo pagano (ad esempio, ogni missione ha la sua grotta di Lourdes). Dal 1920 al 1940 le chiese di legno passano da 4 a 20, le cappelle da 214 a 307.

Il 12 maggio 1925 Pio XI stacca dal vicariato apostolico della Birmania settentrionale (Mandalay, missioni estere di Parigi) e assegna al vicariato della Birmania orientale (Toungoo) gli “stati shan meridionali” con capitale Taunggyi (12). Il Pime, a nord del territorio già evangelizzato (Toungoo, Pekkong e Loikaw, regione dei cariani), ne ottiene un altro con la strada che da Kalaw passa per Taunggyi, Loilem, attraversa il Salween (allora su chiatte) e va a Mongping e Kengtung. Territorio ancora tutto da esplorare (missionariamente). Lo stesso anno 1925 mons. Sagrada costruisce la prima residenza a Kalaw e vi manda tre suore della Riparazione, che aprono una scuola e un collegio per ragazze.

Il segno più bello di quanto le comunità cristiane sono maturate nella fede è la loro fedeltà e coraggio nelle persecuzioni. Anche la Birmania fra le due guerre mondiali non mancava di prove in questo senso. La libertà religiosa era assicurata dall’autorità inglese, ma casi locali di autentica persecuzione non sono mancati. Nel 1928 ad esempio (ma è solo un caso su tanti) il principotto di Dorokhò e di una vasta regione dei cariani,

“con rabbia satanica e implacabile – scrive un missionario – ha giurato di bandire dal suo territorio i catechisti e il missionario stesso. Incominciò col destituire tutti i capi dei villaggi cattolici e mettere al loro posto delle canaglie ligie ai suoi ordini. Cercò di ottenere dalle autorità superiori l’espulsione dei tre migliori catechisti, ma inutilmente. Non si placò e continuò a multare i cattolici per niente, minacciandoli, imprigionandoli e vessandoli in mille modi. Questa continua guerra ai cattolici, considerati come tanti rivoltosi, servì a ridestare nella totalità di essi la fede, per cui i satanici progetti di questo tirannello ottennero lo scopo contrario… Maria intervenne guarendo una bambina di un villaggio battista, che aveva un cancro alla bocca ed era stata data per spacciata dai medici. Andata anche lei alla Grotta di Lourdes della missione, bevve di quell’acqua e guarì in modo misterioso e meraviglioso. Gli echi del miracolo” fanno cessare la guerra”.

Sia mons. Sagrada che il suo successore mons. Alfredo Lanfranconi (nel 1937) si impegnano a fondo nella formazione del clero locale. Sagrada inaugura i nuovi edifici del catechistato il 28 agosto 1928 a Yedashe (iniziato nel 1920 da padre Lanfranconi) e del seminario il 18 gennaio 1934 a Toungoo, con una festa grandiosa a cui partecipano tutte le autorità della regione (che spettacolo la sfilata di una quindicina di auto!) e una massa entusiasta di cristiani venuti da ogni parte. A Toungoo non si era mai visto un fabbricato così imponente e ben fatto (lungo 33 metri, largo 13, alto 11), opera dei fratelli del Pime sotto la direzione di fratel Sandro Crotta. Mons. Lanfranconi durante il suo episcopato (1937-1959) ordina 18 sacerdoti locali, due dei quali saranno vescovi, mons. Sebastiano Mya Lay suo successore, e mons. Abramo Than, vescovo di Kengtung.

Un’altra opera ammirata da tutti è il lebbrosario di Loilem (a 1.400 metri sul livello del mare), inaugurato nel 1938 col direttore p. Rocco Perego che l’ha diretto fino all’inizio degli anni ottanta (13). Nel 1940 i lebbrosi ospitati erano già 120. Il lebbrosario è un segno importante del lavoro che i missionari hanno svolto e svolgono per la gente più umile e sfortunata. L’annunzio di Cristo, questo vale per tutte le missioni ma in particolare fra i tribali della Birmania, è fatto, più che con prediche, aiutando a rendere più umana la vita dei locali.

Alcuni esempi. In Birmania la seta era importata dalla Cina. Il governo coloniale cercava inutilmente di far attecchire la coltura del baco da seta; ma i birmani, da buoni buddhisti, non ne volevano sapere: non si può far morire la crisalide per poter avere il filo del bozzolo. Fin dall’inizio i missionari del Pime avviano i cariani a produrre la seta ed a lavorarla (la difficoltà maggiore è stata di far crescere il gelso); per il riso, alimento base dei popoli di Birmania, hanno insegnato a scavare pozzi e canali, la concimazione, la selezione delle sementi, l’aratura e il livellamento del terreno con mezzi adeguati prima di metterci l’acqua. I villaggi cristiani, a poco a poco, sconfiggono la fame e la miseria disumana: le loro risaie producono più di quelle dei non cristiani. Tutti lo vedono.

Tanti i settori nei quali la missione porta il progresso nella regione cariana: artigianato del legno e del ferro, falegnameria, tipografia e formazione di tipografi, scrittura delle lingue locali con l’alfabeto latino e vari segni, fornaci per fare mattoni e tegole, costruzioni in muratura, coltivazione di frutta e verdura, allevamento di animali da cortile, piantagioni di tè e caffè, tessitura con macchine semplici a pedale, taglio e cucito per le donne, norme elementari di igiene e di infermieristica, educazione almeno elementare per tutti, apertura di nuove strade…

L’opera preziosa dei fratelli cooperatori

Artefici della promozione umana sono stati soprattutto i fratelli del Pime, in Birmania più numerosi che nelle altre missioni dell’Istituto, con personalità di grande valore. Nei primi tempi della missione i fratelli svolgevano il ruolo di “catechisti”: il loro compito principale era di insegnare il catechismo, data la mancanza di opere in cui esplicare la loro attività professionale. Poi sono venuti i catechisti locali e la missione ha dovuto costruire le sue strutture. Ma, scrive p. Alfredo Cremonesi (futuro martire),

“i nostri fratelli, prima di essere costruttori, tipografi, falegnami, pittori, artisti, sono apostoli. Hanno il medesimo fuoco nostro che li consuma e non solo fanno servire tutte le loro attività per la comune causa apostolica, ma appena possono fanno del vero lavoro missionario. Prima di tutto, alcuni di essi sono a capo di orfanotrofi e di scuole: hanno quindi in mano, insieme al prete con cui lavorano, l’educazione e la formazione delle future generazioni cristiane. Tutti i fratelli poi, nei loro contatti con gli indigeni a ragione dei loro lavori, hanno sempre di mira il vero apostolato. Questo mi preme far notare perché non si pensi che i nostri fratelli siano dei forti e a volte geniali lavoratori, come un qualunque operaio d’Italia, ma non facciano del vero lavoro apostolico”.

La relazione di p. Cremonesi continua esaminando il lavoro dei fratelli nei vari campi: tipografia, costruzioni, falegnameria, lavori in ferro, agricoltura, pittura, architettura, sanità, ecc. Ma importa notare che le grandi personalità dei fratelli in Birmania hanno creato una tradizione, per cui anche i giovani che arrivavano in missione venivano inseriti in questa corrente di lavoro, spiritualità, dedizione, spirito di sacrificio, apostolato. Ecco un elenco sommario dei fratelli che hanno lavorato in Birmania, con la professione principale che esercitavano (poi si adattavano a fare di tutto):

– Ubaldo Zambelli, Santino Pezzotta ed Ernesto Pasqualotto (tipografi);

– Giovanni Angelini (poliglotta e catechista);

– Giovanni Genovesi (costruttore di chiese e scuole in legno);

– Carletto Gusmaroli, Sandro Crotta e Pietro Giudici (costruttori in muratura);

– Sandro Perico (pittore);

– Giuseppe Salvi (falegname);

– Felice Tantardini (fabbro);

– Francesco Gorla, Giovanni Antonio Dal Pozzo, Martino Frangi, Pompeo Nasuelli, Giuseppe Salvi, Davide Fumagalli, Pietro Manzinali, ecc.

Fra i molti, vanno ricordati in modo particolare il tipografo fratel Santo Pezzotta e fratel Pompeo Nasuelli, morto il 24 settembre 1927 a Toungoo dopo 55 anni di missione, di cui mons. Sagrada ha scritto:

“S’intendeva abbastanza di medicine e veniva spesso chiamato per ammalati. Assistette colerosi e vaiolosi e siccome i cariani per paura del contagio li abbandonavano, così egli stesso molte volte seppellì gli appestati. Fu appunto nel curare un ragazzo vaioloso che contrasse lui stesso il vaiolo… Era di una attività sorprendente e sembrava non sentisse il peso di tante e continue fatiche. Era poi di una pietà ammirabile, nessuna cosa valeva a fargli troncare le sue pratiche di pietà. Ultimo a coricarsi, infallibilmente alle 4,30 era in piedi, faceva la sua meditazione, ascoltava la S. Messa ed era l’ultimo ad uscire di chiesa….

Falegname esperto, costruì chiese, cappelle e residenze sui monti cariani ed attese con alacrità alle piantagioni di caffè… Nonostante le molteplici occupazioni, aveva trovato il tempo d’istruirsi, un vero autodidatta, e fin dai primi anni di missione era ricordato come catechista… Conosceva l’inglese, il birmano, il ghebà, il ghekù, il sokù, il pré, parlava con tutti facendosi intendere da tutti. Sempre pronto a tutto, c’era un’ora nella quale non lo si poteva trovare in casa. Dalle 17 alle 18 era in ginocchio a fare la sua ora di adorazione quotidiana… Sobrio e mortificato, seppe per 55 anni conservarsi in buona salute nonostante le insidie del clima tropicale. Quando da noi si bisbigliava: Pompeo ha preso la sua medicina!”, si voleva dire che invece di prendere il pasto comune si era fatto preparare una tazza di acqua calda salata, nella quale inzuppava un po’ di pane. Con questo suo regime spartano, il giorno dopo lo si vedeva al lavoro ristabilito”.

 

 

 

Document Actions

Share |


Condividi

Lascia un commento