Il giornale di domani: motore di ricerca o strumento di serendipity? — Lombardi nel Mondo

Il giornale di domani: motore di ricerca o strumento di serendipity?

Un progetto di tesi di laurea di Zoe Frade-Blenar alla New York University indica come si possono richiamare in Google storie che ricevono poca attenzione da parte della stampa.

 Ottimo lavoro quello presentato da Zoe Frrade-Blenar per il suo progetto di tesi di laurea specialistica nel quadro dell’Interactive Telecommunications Program alla New York University. Si tratta di Current, un’applicazione Java ideata per il desktop del giornalista che serve a monitorare gli argomenti di tendenza su Google e la loro presenza all’interno di Google News. L’applicazione identifica storie che richiamano l’interesse di un vasto numero di lettori (quelle più in evidenza in Google Trends, per intendersi), ma che ricevono poca copertura da parte della stampa. In base alla teoria di Zoe, sarebbero queste le storie su cui conviene concentrare i servizi giornalistici.

Zoe mi ha invitato all’incontro che solitamente precede la presentazione finale di questi progetti e in cui si raccolgono spunti critici. Trovandomi a New York quel giorno, ci sono andato. La cosa ha mosso in me sentimenti contrastanti – da un lato mi è parso che Zoe abbia considerato l’opera di filtraggio dei giornalisti in modo estremamente riduttivo, operando un collegamento fra domanda e offerta che mi ha fatto tornare in mente Demand Media.

Nel commentare la cosa, le ho chiesto se stesse esponendo una posizione politica o parlando di un vero e proprio strumento di lavoro. Lei mi ha fatto presente – e lo ha poi ribadito anche a Brooke Gladstone su “On the Media” – che il congegno è stato ideato proprio per operatori dell’informazione che intendano realizzare servizi giornalistici per coprire i costi fissi, in modo da poter poi dedicare risorse al vero e proprio giornalismo investigativo.

Va aggiunto che sul piano visivo l’esperienza estetica è stata proprio inebriante. E che arguzia far convergere due fonti di dati. Terminata la prima serie di presentazioni, durante la pausa caffé le ho chiesto se per caso voleva collaborare con me, Hal e David al progetto Media Cloud ad Harvard… e sono davvero contento che abbia accettato.

E mentre son lì a dirmi che, per come è concepito, Current non è solo uno strumento, ma una provocazione bella e buona, salta fuori che i giganti mediatici vedono nell’idea di Zoe la strada da percorrere. Pochi giorni fa il New York Times ha dedicato un articolo a “The Upshot”, il nuovo blog d’informazione di Yahoo che, utilizzando i risultati di ricerca per stabilire l’interesse dei lettori e mettendo in campo una redazione di sei blogger e due redattori, vuole creare contenuti in grado di rispondere a questo interesse. Allora la domanda da fare a Zoe non era se stesse cercando di esprimere una posizione politica, ma se piuttosto non avesse già depositato il brevetto per la sua idea.

Molti addetti ai lavori hanno un sussulto di sgomento nel sentir parlare di mezzi d’informazione che operano sulla base di risultati di ricerca. Il mio amico Dan Gillmor ha presentato una relazione all’evento South by Southwest, intitolata “Le Content Farm sono un bene o un male? Sì, [come risposta a entrambi i casi]”. Sul fronte positivo, c’è da dire che pagano lo stipendio a chi scrive e ascoltano chi legge (cosa che i giornali veri certe volte dimenticano di fare, sostiene Dan). Sul fronte negativo, queste Content Farm sono di un cinismo pazzesco e con molta probabilità inondano i motori di ricerca di contenuti mediocri, seppur ottimizzati al massimo, magari spingendo sul fondo altri contenuti di qualità superiore.

Aggiungerei un’ulteriore annotazione sul lato maligno di questi contenuti legati ai risultati delle ricerche: si fa strada il concetto di testata come motore di ricerca piuttosto che strumento di serendipity.

La prima pagina di un quotidiano non è qualcosa che ci racconta i fatti accaduti nel mondo nelle ultime ventiquattro ore, ma contiene quel che, secondo la redazione, è importante che veniamo a sapere. Nel mondo succedono molte più cose di quelle contenute in una pagina di giornale – o finanche in una ben più ampia pagina web – e le scelte editoriali vanno a costituire l’idea di quanto, in veste di lettori, si deve conoscere, e di quanto invece si può tranquillamente ignorare. Ci sono redazioni che sanno usare con saggezza questa attitudine per sviluppare serendipity, indirizzando i lettori verso tematiche che magari non sapevano di voler conoscere, presentando contenuti meno noti ma che sono raccontati bene e possono verosimilmente richiamare l’interesse di lettori fino a quel momento indifferenti. (Di questo ho parlato più diffusamente in un post dal titolo L’Architettura della Serendipity).

Se da un lato l’idea di dar vita a una struttura d’informazione basata su quanto cercano gli utenti  – dare alla gente quello che chiede! – emana un certo populismo, che è allettante, adottarla per gestire un giornale si rivelerebbe probabilmente negativo. Si presterebbe un’attenzione eccessiva agli argomenti già “noti” per importanza per tralasciare invece temi emergenti. Si perderebbe inoltre quell’approccio critico che spinge a mettere in evidenza tematiche e aree del mondo cui i lettori possono non essere interessati, ma che è bene conoscano se aspirano ad essere cittadini impegnati e informati.

A preoccuparmi è il fatto che disponiamo di strumenti eccellenti per cercare online quanto c’interessa, e sono i motori di ricerca. Stiamo anche costruendo strumenti che ci consentono di vedere cosa piace ai nostri amici e a chi condivide i nostri stessi interessi – Twitter, Facebook, Reddit, Digg. Ma c’è poi qualcuno che lavori a strumenti capaci di farci scoprire storie che non credevamo di voler conoscere, e di cui i nostri amici non hanno ancora notizia? Chi si sta occupando di strumenti online che trascendano i motori di ricerca e le reti sociali, per favorire la serendipity?

 

Serendipity è fare per caso una scoperta felice. Indica il trovare qualcosa di prezioso mentre si cerca tutt’altro o l’imbattersi in quel che si sta cercando, ma in un luogo o in un modo del tutto inaspettato. Serendipity significa quindi, in qualche modo, la fecondità dell’errore e cioè cercare una cosa e trovarne un’altra, magari più interessante.

Una famosa frase di Pablo Picasso la sintetizza “Io non cerco, trovo”. Nel mondo anglosassone è ormai d’ uso comune, ma, benché tutti ne intuiscano il significato, pochi ne conoscono l’origine.

Il termine fu inventato dallo scrittore Horace Walpole (famoso per i romanzi “gotici”) nel 1754 con la fiaba : I tre principi di Serendip, in cui i protagonisti trovavano cose di cui non erano in cerca. Sintetizzando, il sultano di Serendip (l’antica Ceylon nonché attuale Sri Lanka) cercava l’oro, attraversò monti e vallate, ma non lo trovò. Trovò invece il tè che lo arricchì.

Trovare quello che non si cerca, fare scoperte fortunate per caso è anche una caratteristica precipua dell’indagine sociologica. Proprio questa caratteristica di ricerca quotidiana e continua accomuna il sociologo al “navigatore” in internet, per i quali le scoperte della serendipity possono acquistare ancor maggior valore. Tutti quindi possono beneficiare della serendipity. Ma perché ciò accada è necessario avere la mente sgombra e disponibile, essere sempre cioè in quello stato di veglia attenta che ci permette ancora di godere delle sorprese della vita.

 

 

Testo originale: What if search drove newspapers?. Ripreso da My heart’s in Accra: riflessioni di Ethan Zuckerman al crocevia tra media e Africa, per incrementarne la visibilità sulla scena internazionale e promuoverne lo sviluppo.  Traduzione di Tamara Nigi.

Nella foto un particolare della schermata di Current in azione

 

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/vociglobali/grubrica.asp?ID_blog=286&ID_articolo=116&ID_sezione=654&sezione=

 

Ernesto R Milani

Ernesto.milani@gmail.com

26 luglio 2010

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