Se Israele attacca l’Iran — Lombardi nel Mondo

Se Israele attacca l’Iran

Le voci secondo cui Israele sarebbe ormai pronto a lanciare un attacco armato contro l’Iran si fanno sempre più insistenti. La stampa israeliana lo ha ripetuto spesso negli ultimi giorni. Lo scorso 2 febbraio, lo ha scritto a chiare lettere sul Washington Post David Ignatius, che ha definito non casuale la decisione del ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, di posticipare un’esercitazione militare congiunta israelo-americana che si sarebbe dovuta tenere in primavera. L’intenzione del governo israeliano sembrerebbe essere, infatti, quella di lanciare un attacco militare proprio nei mesi primaverili, tra aprile e giugno

Opposte visioni
Già qualche tempo fa, l’ex capo del Mossad Danny Yatom ha sostenuto che il prezzo che Israele pagherebbe come ritorsione per un attacco preventivo sarebbe notevolmente inferiore al costo di avere un Iran dotato di armi nucleare. Un’opinione differente l’ha, invece, manifestata un altro ex capo del Mossad, Meir Dagan, che ha definito “stupida” l’idea di attaccare l’Iran, dal momento che le conseguenze sarebbero devastanti, per Israele e il Medio Oriente tutto.

Yatom, dal canto suo, minimizza i rischi che Israele correrebbe in caso di attacco armato contro l’Iran, sostenendo che un eventuale lancio di missili da Gaza e dal sud del Libano a mo’ di ritorsione porterebbe ad una risposta israeliana “così dolorosa e tremenda” da cessare in tempi rapidi. D’altronde, secondo Yatom, sarebbe ormai stata superata la linea rossa – la produzione di uranio arricchito al 20%, cioè utilizzabile per armi nucleari, nell’impianto sotterraneo di Fordow, vicino Qom – e dunque resterebbe un solo anno di tempo per intervenire e bloccare l’Iran prima che si doti di un arsenale atomico.

Che credito dare alle voci di un attacco armato? Ci sono due diverse interpretazioni. Secondo alcuni, Israele sta minacciando un attacco armato per fare in modo che la comunità internazionale adotti sanzioni ancora più forti contro il regime iraniano. I risultati di questa strategia, effettivamente, sono visibili. L’amministrazione americana ha adottato pochi giorni fa nuove e più pesanti sanzioni, andando a colpire anche la banca centrale iraniana. Secondo altri, invece, l’attacco armato è una possibilità del tutto concreta. D’altronde la lettura che il governo israeliano sembra dare della vicenda lascerebbe pochi margini di azione alla diplomazia.

Secondo il Begin-Sadat (Besa) Center for Strategic Studies di Tel Aviv, il principio della deterrenza – che ha regolato i rapporti tra Usa e Urss negli anni della guerra fredda – non può funzionare con l’Iran, che non agisce sul terreno delle relazioni internazionali come un attore razionale. Nella visione del think tank – condivisa da ampi settori della politica e della società israeliana, incluso il governo – nessuna sanzione, per quanto dura, sarà sufficiente per arrestare Teheran nella corsa verso il nucleare, e non esisterà alcun deterrente nel momento in cui il regime degli ayatollah si fosse dotato delle armi nucleari.

Washington contro
È quanto accaduto, ad esempio, con la primavera araba. Questo atteggiamento di chiusura ha spinto il governo israeliano ad appoggiare il presidente egiziano Mubarak e, almeno all’inizio, quello siriano Assad, ritenendo che una loro caduta avrebbe lasciato inevitabilmente spazio a regimi islamisti ispirati al modello iraniano. Ed è questo stesso atteggiamento che porta una parte considerevole della politica e dell’opinione pubblica israeliana a ritenere preferibile il rischio di una guerra regionale all’ipotesi che l’Iran si doti di armi nucleari.

La partita, a questo punto, si giocherebbe tra Israele e Stati Uniti. In che modo si muoverà l’amministrazione americana nei prossimi mesi? Nel giugno del 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol attese a lungo il semaforo verde del presidente americano Lindon Johnson prima di attaccare Egitto, Giordania e Siria. La storiografia non ha ancora chiarito che cosa sia accaduto esattamente. Certamente, non ci fu un semaforo rosso da parte di Washington. Che cosa accadrà oggi, con un’amministrazione americana così fortemente contraria ad un attacco armato?

Il segretario alla difesa Leon Panetta – già piuttosto critico, negli scorsi mesi, della politica israeliana in ambito di processo di pace con i palestinesi – è stato al riguardo molto chiaro. Washington non darà ad Israele il via libera all’azione. Gli Usa non hanno alcun interesse a lasciarsi trascinare in un conflitto, il terzo nella regione nel giro di un decennio. Il che sarebbe molto probabile in caso di attacco armato israeliano. Se, infatti, l’Iran colpisse come ritorsione le navi americane di stanza nella regione, gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere. Tuttavia, in caso di un attacco armato israeliano, difficilmente Obama potrebbe redarguire Israele in un anno di campagna elettorale, proprio mentre i candidati del partito repubblicano fanno a gara per esprimere il proprio totale sostegno a Israele.

La presidenza Obama farà, dunque, di tutto per evitare che l’attacco israeliano abbia luogo. Sarà molto interessante, nel caso in cui ciò avvenga, capire cosa accadrà nelle relazioni tra i due paesi. Sarà l’occasione per rafforzare una relazione che, durante la presidenza Obama, ha vissuto troppi alti e bassi o, al contrario, sarà la goccia che fa traboccare il vaso, già piuttosto colmo per una serie di “incomprensioni” avvenute tra governo israeliano e amministrazione americana negli ultimi anni?

Arturo Marzano
assegnista di ricerca in Storia delle relazioni internazionali, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Pisa
www.affarinternazionali.it

Document Actions

Share |


Condividi

Lascia un commento