I primi passi nella vita missionaria. Leikhtò e Kalaw — Lombardi nel Mondo

I primi passi nella vita missionaria. Leikhtò e Kalaw

Terza puntata dedicata alla storia del missionario comasco Felice Tantardini, raccontata nel libro di Piero Gheddo “Il santo col martello. 70 anni di Birmania, storia e vita missionaria”. Editrice Missionaria Italiana

Quando Felice Tantardini giunge con i suoi due compagni (padre Vincenzo Marcuzzi e fratel Sandro Perico) a Toungoo a fine settembre 1922, il contrasto fra la città di partenza e quella di arrivo è scioccante! Dalla grande Milano con una cattedrale monumentale e una moderna e comoda casa madre del Pime, eccoli a Toungoo dove, come residenza del vescovo e cattedrale, trovano due baracconi di legno traballanti, su palafitte.

La cena è pronta: riso e curry (pezzettini di carne cotti con verdura e salsa piccante), acqua da bere in abbondanza. Per illuminare la casa e la tavola due lampade a petrolio (due per l’occasione): la luce elettrica non è ancora arrivata neppure in città. Fa un caldo afoso, ma Felice non ci bada, è arrivato in missione e questo lo rende felicissimo.

Di professione era fabbro, ma ha fatto di tutto

A Toungoo incontrano il fratello Pompeo Nasuelli (1850-1927) di Premana (paese vicino a Introbio), veterano e pioniere della missione, incaricato delle spedizioni ai padri sui monti. Assieme alle merci egli usava mandare anche un po’ di notizie: gli avvenimenti del giorno, gli arrivi e le partenze. Sei anni dopo, trovandosi Felice in una di quelle missioni (Pekong) per alcuni lavori, nel bagno dei missionari tra i fogli usati come carta igienica trova una lettera di fratel Pompeo che nell’anno 1922 scriveva al missionario del posto: “Sono arrivati un padre e due fratelli: uno di bell’aspetto e belle maniere ed è anche pittore. Farà certo buona riuscita. L’altro (che ero io, nota di Felice), minuto e con un testone, è un fabbro ma non sa neanche servire messa. Chissà cosa ne sarà di lui!”.

“Questa volta – commenta Felice – il buon Pompeo si sbagliò di grosso. Il fratello pittore e di bell’aspetto dopo pochi anni abbandonò la missione e l’Istituto, e io, col mio testone, sono ancora qui per grazia di Dio e spero di restarci per sempre”. Di professione era fabbro, ma ha fatto di tutto: falegname, ortolano, muratore, costruttore di chiese e case, meccanico… Costruisce in ciascuna missione una specie di officina, forma operai locali, provvede ciascuna missione di una macchina per fare mattoni, costruita da lui stesso, copiando una arrivata dall’Italia della ditta Rosacometta.

La vita missionaria di Felice Tantardini quasi non ha né un prima né un dopo: ha sempre fatto gli stessi lavori con grande fedeltà, entusiasmo e sacrificio. In genere abitava nel centro della missione, prima Toungoo e dopo il 1961 Taunggyi, e andava nei distretti quando era chiamato per lavori particolari, ma anche per seguire i giovani che lavoravano nelle piccole officine che vi aveva impiantato.

Il lavoro faticoso di Felice, compiuto con grande determinazione, giorno dopo giorno, senza l’aiuto delle moderne tecnologie, ma con la forza dei suoi poderosi muscoli, sotto il doppio calore della sua fucina e del clima tropicale di Toungoo, erano motivo di ammirazione per tutti coloro che lo vedevano al lavoro. Padre Mattarucco ricorda un uomo che stava per lungo tempo sulla porta della sua officina e non staccava gli occhi da Felice. Gli chiede: “Cosa fai?”. L’altro risponde: “Sto guardando il fratello. In tutta la Birmania non c’è un lavoratore come lui”.

Un turista austriaco di passaggio, vedendo Felice nella sua fucina, esclama: “Questo è uno degli ultimi veri fabbri nel mondo, che sappia lavorare così bene il ferro!”. Non riusciva a stare con le mani in mano, il lavoro era la sua passione. Alla domenica diceva che alla sera gli facevano male le mani a forza di non far niente. Padre Mattarucco dice di lui “Pareva non fosse mai stanco, nonostante il lavoro massacrante e ci si chiedeva da dove traesse, in un corpo così piccolo, tanta forza fisica. Sotto le sue braccia sembrava che il ferro si trasformasse in gomma: faceva porte, travi, capriate, intelaiature per le chiese e i conventi. A lui si deve una grande croce in ferro innalzata sul monte più alto della zona, sul modello di quelle piantate su tante montagne italiane”.

Il merito di Felice è anche di aver formato tanti giovani per i lavori che lui faceva, anche se non riuscivano a tenere i suoi ritmi di lavoro. Allora gridava: “Lazzaroni, poltroni!”. Non sopportava la mentalità fatalista dei locali: i quali gli volevano bene e a poco a poco lo seguivano, lo imitavano. Aveva un carattere felice come il suo nome ed era amatissimo dai confratelli e anche dai vescovi della Birmania, che lo conoscevano e lo invitavano nelle loro diocesi per fargli fare dei lavori, ma anche per sentirlo raccontare le sue storielle e rallegrarsi con le sue battute.

La “cara Madonna” lo salva in modo miracoloso (1924)

All’inizio della sua vita in missione, due mesi dopo che è arrivato in Birmania, fratel Tantardini è mandato a Leikthò, 50 chilometri da Toungoo. Fa il viaggio a cavallo e “per via non finivo di guardare, pieno di stupore, la magnifica foresta con i suoi giganteschi alberi secolari”.

I padri gli danno due mesi di studio per imparare un po’ di cariano: sono pochi ma devono bastare perché c’è bisogno del suo lavoro in missione. Felice si accorge di avere una capacità innata per le lingue: dopo due soli mesi incomincia a parlare la lingua cariana, in meno di un anno è pronto per fare il catechismo. Il suo primo lavoro a Leikthò è di abbassare le tre campane del campanile di legno, che era pericolante. Poi i due missionari (Rinaldo Bossi e Alfredo Lanfranconi) partono per visitare i villaggi cristiani e catecumeni. Felice è lasciato solo in missione (con quattro suore della Riparazione), dovendo assistere un centinaio di ragazzi dell’orfanotrofio e della scuola.

“Alle quattro e mezzo del mattino c’era da suonare l’Angelus e che sacrificio dovermi alzare poco dopo le quattro! Poi le preghiere da dire in chiesa insieme alla gente, ai ragazzi e ragazze dei due orfanotrofi; infine c’era da consegnare alle ragazze il risone da brillare e ai ragazzi il riso da cuocere, con contorno di sale, peperoncino e un po’ di verdura, condita con qualche goccia d’olio. Magro condimento, ma più di quello che potevano avere a casa loro. Finita la distribuzione dei lavori, alcuni ragazzi cuocevano il riso, altri andavano per il bosco in cerca di verdura (erbe amare, tuberi, n.d.r.) e legna da ardere, e altri facevano lavori di pulizia in casa. Tutti erano occupati, grandi e piccoli. Verso le nove prendevano il pasto e si preparano per entrare in classe”.

Leikthò era la stazione centrale che doveva rifornire tre altre residenze delle necessarie provvigioni. Non c’erano mezzi pubblici di trasporto, bisognava portare tutto a spalle da Toungoo a Leikthò e poi da qui alle varie residenze sui monti. Questo era il mestiere delle caste più basse cariane: i tabarà. Uomini e spesso anche donne e bambini coperti di pochi e luridi stracci si sobbarcavano giornate intere di viaggio per fare da facchini e guadagnare così qualche rupia e un po’ di cibo gratuito per alcuni giorni.

Felice soffre nel vedere tanta miseria e fame, che tocca il fondo quando, nel 1924, infierisce sui monti e in particolare in tre distretti: Leikthò, Cithaciò, Matalehò, una tremenda carestia prodotta da un’invasione di topi. Fenomeno periodico in Birmania che occorre ogni 50 anni (infatti era successo anche nel 1873), quando i bambù, dei quali vi sono immense distese, fioriscono e si riempiono di semi piccolissimi: i topi ne sono ghiotti, li divorano, ingrassano, prolificano spaventosamente e infestano i campi di riso, distruggendo le tenere pianticelle.

La fame sofferta per due anni da quelle popolazioni fu uno spettacolo desolante, in particolare se si pensa che i colpiti sono già miserabili in tempo normale. Il villaggio più sinistrato fu Cithaciò, affidato a p. Ernesto Ravasi. Il poveretto, dopo aver dato tutto quel che aveva, si dà da fare e ottiene degli aiuti dal governo: intraprende costruzioni di strade e ponti, per dare un po’ di lavoro a quella povera gente, facendo mettere a loro disposizione un bel quantitativo di riso.

“Naturalmente molti cercavano – scrive Felice – di mettere in salvo i loro bambini affidandoli ai padri e alle suore. Ciò non impedì che i più deboli, senza mamma e senza latte, se ne volassero al cielo a frotte. Solo tra quelli ricoverati in convento, erano uno o più al giorno che perivano così e la morìa durò parecchi mesi. Tutte creature ridotte a pelle e ossa. Non ricordo il numero preciso delle piccole bare che feci in quel tempo, ma non meno di 35 al mese. Io mi sarei privato delle assi del mio letto, piuttosto che permettere che quei corpicini fossero sepolti come bestiole”.

Verso la fine del 1924, i topi scompaiono e la vita riprende il ritmo normale. P. Ravasi se ne era andato lui pure in Paradiso e p. Rinaldo Bossi deve assumere la cura anche del suo distretto. Fratel Felice parla speditamente il cariano e alla domenica si reca nei villaggi più lontani per spiegare il Vangelo e far pregare la gente. Gli piace molto questo lavoro di catechista e non perde l’occasione per dire una buona parola ai fedeli nei villaggi, anche quando va per costruirvi la cappella.

Verso la Pasqua di quel 1924, mentre si trova da solo in residenza (i padri erano andati a Toungoo per le funzioni della Settimana Santa), alle dieci del mattino non si sente bene, gli mancano le forze, si butta su una sedia a sdraio per riposare qualche minuto: entra il figlio del catechista, si alza per riceverlo, ma un forte dolore improvviso e acuto all’inguine destro, gli impedisce di reggersi in piedi. Non si spiega perché quel dolore e non gli resta che sdraiarsi e stare a riposo. Al catechista ordina di suonare la campana per le preghiere, l’Angelus a mezzogiorno e altri piccoli incarichi.

Quando il mercoledì dopo Pasqua tornano i due padri da Toungoo in compagnia del vescovo, Felice è ancora a letto con forti dolori, a stento riesce a sollevarsi per prendere un po’ di cibo. Consultatisi fra di loro con un manuale di medicina missionaria in mano, diagnosticano appendicite acuta e decidono di mandarlo in ospedale per un intervento urgente, possibile solo a Toungoo. Felice sarà portato a spalle su una barella di bambù, da otto uomini che si danno il cambio: 50 chilometri, per sentieri ripidi e fra campi senza strade, sballottato per almeno tre giorni!

Ma quando Felice sta per essere messo sulla barella, si fa portare in chiesa e appoggiandosi ad un bastone va all’altare della Madonna, della quale è sempre stato devotissimo: diceva il rosario tutti i giorni fin da giovane. Anche nelle sue lettere si riferisce spesso alla “cara Madonna”. Non occorrono molte parole per spiegarle il motivo della sua venuta. Felice e Maria si capiscono:

“Mia buona Madre ora è il momento giusto di far vedere che sei veramente mia Madre. Guariscimi subito da questa strana malattia o farai brutta figura, e forse saranno finiti i miei sogni di lavorare per la gloria tua e del tuo Figlio Gesù. Se mi farai questa grazia, ti prometto di dire ogni giorno il rosario intero”.

La richiesta di fratel Felice Tantardini è esaudita: si alza da solo, il dolore è scomparso e con tanta gioia esce dalla chiesa buttando il bastone e gridando: “La Madonna mi ha guarito”. Il vescovo, i padri, i barellieri e la gente del villaggio venuti a salutarlo, pieni di stupore gridano al miracolo. Da quel momento fratel Felice non soffre più di quel male misterioso. Mantiene la promessa di recitare tre rosari al giorno: 150 Ave Maria! Nella sua vita ha parecchi fatti del genere, certamente grazie straordinarie, come quando i giapponesi lo arrestano e lo condannano alla fucilazione. Ma improvvisamente cambiano idea e lo lasciano libero…

Quando svela il suo voto di recitare ogni giorno il santo rosario intero, mons. Emanuele Sagrada (1860-1939) gli fa osservare ch’era stato imprudente: prima di fare il voto doveva chiedere il permesso al confessore. Felice tace, ma in cuor suo pensa che dopo tutto è affare suo, il rosario deve dirlo lui e non il confessore.

Tre “fioretti” di Felice Tantardini (1924-1926)

Fratel Felice era limpido, trasparente, semplice, un ingenuo colossale: non concepiva la possibilità di dire una bugia, nemmeno per scherzo. Nella vita era intelligente, furbo, avveduto, capace di realizzare quel che aveva in mente: ma si fidava troppo degli altri, specialmente se preti, avendo per loro un’enorme venerazione. Insomma, si faceva volentieri prendere in giro. Mentre era a Leikthò, il padre Rinaldo Bossi, bel tipo di lodigiano, spassoso e capace di battute e di scherzi, rideva spesso alle spalle di fratel Felice; e faceva ridere, raccontando i suoi “fioretti”, l’intera combriccola dei missionari di Toungoo. Uno di questi scherzi lo racconta Felice stesso nel suo libro “Il fabbro di Dio”: “Fra le mie occupazioni c’era anche quella di dover attendere alla chiesa, suonare le campane, accedere le candele, curare la lampada del Santissimo. Alla sera del giorno dell’Epifania, stavo rimuovendo dall’altare maggiore la statua del Bambino Gesù, quando una forte scossa tellurica fece traballare la chiesa che era di legno. Spaventato, rimisi il Bambino al suo posto, di corsa uscii di chiesa e salii in casa, dove c’erano i padri Lanfranconi e Bossi. Essendo quella la prima volta che sentivo un terremoto, domandai cosa era successo. Padre Bossi con volto serio mi disse:

– Cosa stavi facendo in chiesa?

– Stavo rimuovendo il Bambino dall’altare.

– Sfido io, con queste tue rozze manacce gli avrai schiacciato il pancino e perciò è venuto il terremoto!

Padre Lanfranconi rideva ma taceva. Ritornai in chiesa, rimossi il Bambino, recitai le mie preghiere della sera e me ne andai a dormire. Le parole di padre Bossi mi risuonavano nell’animo e mi turbavano un po’ la pace. Eppure io ero sicuro che il Bambino Gesù lo avevo trattato con tutta delicatezza, quasi come fosse un bambino vivo, in carne e ossa”.

Un secondo scherzo, sempre fatto da padre Bossi all’ingenuo Felice mentre erano assieme a Leikthò, è raccontato da padre Mattarucco. Bossi doveva allontanarsi per qualche giorno dalla missione e Tantardini rimaneva solo con le quattro suore italiane. Bossi gli dà disposizioni per la casa, la chiesa, i lavori in corso e aggiunge: “Oggi è il giorno di confessione delle suore. Ho detto loro di venire da te a confessarsi e tu confessale. Ti dò io il permesso”.

Felice, confuso, risponde: “No, io non sono un prete, non posso fare questo, non sono capace, non mi sento”.

Bossi riprende: “Come no! Io sono il parroco e ti dò l’autorità di confessarle. Qui in missione abbiamo delle facoltà che non avete in Italia: quando non c’è il prete, anche i fratelli possono confessare. Celebrare la messa no, ma confessare sì. Tu confessa solo le suore, non altri, perché le suore non hanno niente di grave da dire”.

E poi parte, senza avvisare le suore dello scherzo. Appena partito il padre, Felice prende qualcosa da mangiare e se ne va nella giungla per tutto il giorno. Ritorna solo alla sera. Nel cortile incontra una suora che gli dice: “Dove sei stato tutto il giorno? Non ti abbiamo più visto…”. Senza fermarsi, Felice dice alla suora: “Non ho tempo, non ho tempo, lasciatemi stare”, e corre difilato in casa, chiudendosi dentro. La suora rimane stupita perché il fratello era sempre gentile con tutti. Qualche giorno dopo, quando ritorna padre Bossi, l’equivoco è chiarito: era stato uno scherzo e ne ride anche Felice: la sua semplicità e fiducia nel padre lo avevano tradito un’altra volta!

Un terzo “fioretto” è ancora raccontato da padre Mattarucco e si riferisce sempre al burlone padre Bossi (che faceva scherzi a tutti). In una certa Pasqua delle prime che Felice passò in missione, Bossi aveva preparato la cerimonia del Venerdì santo con la lettura della Passione di Cristo e i canti dei fedeli. Padre Lanfranconi faceva il “lettore” della Passione, Bossi la parte del Cristo e un catechista cariano dalla bella voce leggeva le parole di Pietro, di Pilato e degli altri personaggi della Passione. E Felice? Bossi lo chiama e gli dice: “Senti, ho pensato che tu potresti fare la parte del gallo, che canta tre volte quando Pietro tradisce Gesù. Prova un po’ a fare chicchiricchììì”…”.

Felice, obbediente, respira profondamente e prorompe in un bel “chicchiricchììì…”. Ma Bossi dice: “No, no, non va. Devi alzare la voce, più forte, devono sentirti tutti…”. Felice alza il tono e il volume: “Chicchiricchììì… Chicchiricchìììì…”.

Padre Alfredo Lanfranconi, che era nella stanza accanto, accorre a vedere cosa succede. Bossi gli spiega che stanno facendo le prove del canto del gallo per la Passione di Cristo e tutti e due fanno ripetere più volte all’ingenuo Felice quel “chicchiricchììì…”, fin che si dichiarano soddisfatti. Il giorno dopo, poco prima della lettura della Passione, spiegano al fratello lo scherzo e ridono assieme a lui.

Era bello scherzare con Felice e approfittare delle sue ingenuità, dice padre Mattarucco, perché non se la prendeva mai e rispondeva con una battuta delle sue, quando si accorgeva che ridevano di lui. Una volta suor Giuseppina delle suore della Riparazione, maestra delle novizie cariane, gli dice: “Vicino a padre Noé lei sembra un nano”. Felice risponde: “E lei, con le sue novizie, sembra una chioccia con i pulcini attorno”.

Dopo questi racconti si può comprendere il giudizio di padre Pasquale Ziello, che diceva: “Per me, fratel Felice ha conservato intatta l’innocenza battesimale”.

La caccia alla tigre e al serpente

La Birmania orientale, ricoperta di fitte foreste vergini, è il luogo ideale per il proliferare di bestie selvatiche e, a volte, feroci. Felice dedica alcune pagine del suo libro agli animali della foresta, fra i quali gli orsi neri e chiari, questi ultimi

 

“molto cattivi, assaltano all’improvviso e graffiano orribilmente, mirando di preferenza alla faccia”. Vi sono poi cani selvatici dal pelo giallo, che si aggirano in mute di trenta e più elementi e rincorrono vacche e buoi “morsicandoli nel deretano e strappandone fuori le viscere. Assomigliano ai lupi. Una sera stavo per entrare in un villaggio quando, a circa trecento metri da esso, sentii grida di allarme. Mi affrettai e vidi la gente, armata con lance e fucili, correre verso l’estremità del villaggio. Pensavo fosse una tigre. Invece essi ricacciavano indietro una muta di grossi cani selvatici, che avevano inseguito fino all’entrata del villaggio una ventina di giovenche e vitelli”.

Ma il vero pericolo sono tigri e leopardi, per i quali, a quel tempo, il governo coloniale inglese pagava una grossa somma per ogni capo abbattuto, tanti erano gli uomini e gli animali domestici uccisi da questi felini predoni e cacciatori e il terrore che la loro presenza seminava nei villaggi.

In una lettera alla sua parrocchia di Introbio, Felice ricorda: “Specialmente nei primi anni della mia vita missionaria, nella foresta di montagna abitata da povera gente ancora quasi primitiva e con pochi mezzi per difendersi dalle belve feroci che vivevano indisturbate, io acquistai l’ingegno di fare trappole per acciuffare le bestie più feroci e pericolose. Certo il mio campo di lavoro poteva arrivare poco lontano, però con la grazia del buon Dio e della cara Madonna ben poche furono le vittime e anche la mia vita fu salva più d’una volta; se sono ancora al mondo è per l’aiuto che ebbi dalla cara Madonna”. “Più d’una volta – scrive ne “Il fabbro di Dio” – mi toccò vegliare un’intera notte in foresta, tenendo il fuoco acceso, per allontanare tigri e leopardi e salvare il nostro cavallo”.

Un giorno a Leikthò, verso le quattro del pomeriggio, fratel Felice è al lavoro e sente i suoi ragazzi gridare: “La tigre! La tigre!”. Afferra il fucile, vi inserisce due pallettoni di grosso calibro ed esce di corsa all’aperto. A 300 metri da casa, vede sul sentiero uno dei suoi buoi lungo disteso, sanguinante e impotente a rialzarsi. E’ stato vittima del grosso felino, di cui si vedevano le impronte nella polvere. La tigre assalta un animale, lo azzoppa in modo che non possa muoversi e poi, quando viene la notte, se lo trasporta nella sua tana.

Felice chiama i suoi ragazzi, uccide il bue, lo squarta, lo taglia a pezzi e consegna ai ragazzi i tocchi di carne da portare a casa. Lascia sul sentiero la carcassa del bue e prepara una trappola, accuratamente camuffata e a fior di terra. Poi si mette di guardia affinché nessuno passi sul sentiero. Ma quella notte “la tigre, furba, non ritorna. Per paura che qualcuno rimanesse preso nella trappola, la feci scattare e la riportai a casa. Alcuni giorni dopo i nostri cinque cavalli, reduci dal pascolo, scapparono a casa al gran galoppo. La tigre era di nuovo nei paraggi. Il sospetto fu confermato dalla perdita di un bel cavallo bianco, che essa aveva azzannato e si era trascinato via sino in fondo valle, aprendosi il varco tra alberi e arbusti.

Allora tesi di nuovo la trappola. Questa volta la tigre venne e vi cadde dentro con una zampa. Appena si accorse di essere stata scoperta e assalita con una fucilata, che però non la colpì, divenne furibonda. Mandava ruggiti che mettevano i brividi di terrore a sentirli e che fecero passare a chiunque la voglia di avvicinarla. Allora alcuni uomini si arrampicarono su delle piante e dall’alto spararono alla belva e solo dopo parecchie fucilate la finirono. Ci vollero sei persone per trasportarla nel villaggio, tanto era grossa. I paesani la spellarono, la squartarono e se la divisero. Ne toccò anche a noi una buona porzione. Io ne ebbi a tavola per vari giorni e trovai la carne molto saporita. I due padri avevano lo stomaco sconvolto avendo mangiato carne di orso e non vollero assaggiarne. Così io feci la loro parte”.

Un’altra volta, a Yadò, padre Basilio Massari, alla sera, va in chiesa e poi corre fuori dicendo a Felice: “Vai ad uccidere quel serpentaccio che sta sotto la lampada del Santissimo. Io ho paura!”. Felice si arma di un grosso coltello ed entra in chiesa, seguito a distanza dal padre.

“Mi avvicinai, cauto, stetti un attimo col coltello levato, vibrai un colpo al serpente proprio sotto la testa e con un taglio netto lo divisi in due. Il mozzicone con la testa tentò di scappare, ma con un salto gli fui addosso e lo schiacciai. Il troncone continuò a dimenarsi per alcuni istanti, poi si irrigidì. Lo raccolsi, lo gettai dalla finestra e me ne andai a dormire, seguito dal padre, tutto esultante per la mia impresa”.

“La suora si dimenticò di accendere le candele”

Nel 1926 Felice Tantardini riceve l’ordine di andare a Kalaw per lavorare con fratel Carlo Gusmaroli alla costruzione della scuola del convento, due bei fabbricati. Il nuovo campo di lavoro significa studiare un’altra lingua: a Kalaw, stazione climatica molto frequentata da inglesi e anglo-indiani, si parla quasi solo l’inglese, ma fratel Tantardini non ha mai avuto necessità di parlarlo. Con fratel Carlo va a scuola da una giovane insegnante anglo-indiana. Felice, impegnato tutto il giorno in lavori pesanti, può studiare solo la sera, ma con la memoria ferrea che il buon Dio gli ha dato e la sua tenacia nello studio, ottiene presto buoni risultati.

“Dopo le preghiere, coricato sulla branda, al fioco lume di una candela, mi mettevo a scartabellare il vocabolario italiano-inglese per controllare le parole udite e apprenderne delle nuove. Quando il sonno mi vinceva mi addormentavo, senza nemmeno mettere via il libro. Più d’una volta, svegliandomi al mattino, me lo trovavo ancora tra le mani, appoggiato sul petto.

Ai miei sforzi accompagnavo poi la preghiera. Specialmente importunavo come un bambino la mia cara Madonna, la quale, come sempre, non mi fallì. In quattro mesi riuscii ad ottenere una sufficiente padronanza della lingua, sicché da allora in poi ho preferito sempre la lettura di libri in inglese a quella di libri in italiano”.

Padre Valentino Rusconi (missionario a Kengtung e poi in Brasile) racconta questa storia curiosa sentita da Tantardini, che si riferisce a quel periodo di studio dell’inglese con fratel Carlo Gusmaroli a Kalaw. L’insegnante era una signorina anglo-indiana. Felice ricorda che loro due erano seduti da una parte del tavolo e la ragazza dall’altra. L’insegnante faceva gli occhi dolci a fratel Carlo, geometra, bell’uomo, simpatico. Felice non se ne accorgeva, ma ogni tanto sentiva qualcuno che gli toccava un piede. Spostava le gambe e tutto finiva. Questo succedeva varie volte. Tempo dopo, fratel Carlo esce dall’Istituto e sposa l’insegnante. Felice dice a padre Valentino: “Allora ho capito: sbagliava il piede che voleva toccare!”.

A Kalaw, mentre fa i suoi lavori, Felice è oggetto di ammirazione per le ragazze e bambine della scuola delle suore. Aveva braccia e torace muscolosi che, data la sua piccola statura, risaltavano ancora di più. “Tra le studentesse – come del resto un po’ ovunque in Birmania – le mie braccia muscolose erano oggetto di meraviglia e di curiosità. E non erano soddisfatte se non quando potevano toccare con le loro mani quei grossi fasci di muscoli. Specialmente le più piccoline facevano a gara per aggrapparsi, rannicchiandosi, una ad un braccio e l’altra all’altro e io, così appese, le sollevavo da terra senza tanto sforzo. Naturalmente appagavo queste vogliuzze fuori del lavoro. Se venivano a disturbarmi durante il lavoro, le mandavo a spasso e quelle che mi tormentavano di più bastava una carezza sulle guance con le mie mani sporche e annerite e così le tenevo quiete almeno per un po’ di tempo”.

A Kalaw succede a Felice un incidente che egli definisce “tragicomico”. Ecco come lo racconta. “Avevo portato da Toungoo tutti gli attrezzi occorrenti, incudine, forgia, trapano, morsa, ecc. Per la prima fabbrica, essendo già pronti i blocchi forati (tipo Rosa Cometta), in un mese le mura furono ultimate. Io avevo già preparato su misura le capriate occorrenti, le quali dovevano essere sollevate, per mezzo di carrucole e di funi, sino alla sommità dei muri perimetrali, e poi fissate tra loro con correnti di ferro che servivano per la posa delle lamiere del tetto. C’erano con me vari manovali.

Preparate le carrucole e le funi, mi unii a tre di questi uomini per aiutarli da un lato e per dirigere l’operazione; dall’altro lato altri tre uomini tiravano su l’altra parte della capriata. Mentre la capriata dal lato dov’ero io veniva sollevata ed era giunta a brevissima distanza dell’altezza dovuta, una fune si spezzò. I miei tre uomini, presi da panico, scapparono. Io rimasi solo a sostenere tutto il peso, per impedire che la parte della capriata sostenuta da me avesse a cadere e trascinare nella caduta anche l’altra, a rischio di uccidere gli uomini che vi erano sotto.

Fu tale lo sforzo che feci, che la pur forte cinghia dei miei pantaloni si spaccò in due e i miei calzoni cominciarono a rilasciarsi, sicché io, per trattenerli, dovetti ripiegarmi tutto sui ginocchi. Erano là presenti, a una certa distanza, un gruppo di studentesse e di suore, le quali, a veder quella scena, si misero a strillare ed ad alzare trepidanti le mani. Meno male che la prova durò pochi istanti, perché alcuni uomini rapidamente salirono sull’estremità del muro e portarono la capriata al suo posto. Così anch’io, liberato dal peso, potei tirar su i calzoni al loro posto.

Devo notare ch’era mia abitudine, quando stavo per intraprendere lavori un po’ rischiosi, fatti per giunta con l’assistenza di operai inesperti, di ricorrere alla mia cara Madonna e accendere due candele davanti a una sua immagine, almeno per la durata dell’operazione. La sua protezione non mi venne mai meno nelle fabbriche a cui misi mano in tanti anni, e nessun accidente mai mi capitò. Il parziale fallimento questa volta fu dovuto, credo, al fatto che la suora, a cui avevo detto di accendere le candele, non lo fece, forse per dimenticanza”.

Fratel Felice fuori dal Pime? (1928)

Durante il soggiorno a Kalaw, Felice Tantardini ha la seconda “crisi di vocazione”. Nel 1928 scadeva il tempo del suo giuramento di fedeltà all’Istituto, ma lui non se ne accorge. Il padre Domenico Barbieri, superiore dei fratelli in Birmania, trovandosi un giorno a Kalaw in visita ai suoi cristiani tamulici,”mi disse a bruciapelo che ero fuori dell’Istituto. Io rimasi di stucco, non sapendo cose fosse potuto succedere di così grave. Del male non ne avevo fatto a nessuno e avevo sempre lavorato secondo gli ordini del mio Vescovo e dei padri. Chiesi una spiegazione e mi fu detto che avevo lasciato passare alcuni mesi dalla data in cui spirava il mio giuramento. Che mondo birbone questo, non basta la parola d’onore di un galantuomo, ma bisognava appoggiarla a una formalità! Comunque la sera di quel giorno stesso, rinnovai il mio giuramento davanti al Santissimo esposto ed a due testimoni e così ridiventai membro del Pime”.

Nel 1929 Felice è ancora a Kalaw per costruire la chiesa con fratel Sandro Crotta, da poco giunto dall’Italia, esperto in edilizia. Intanto però è stato a Pekong per installare le canne per l’acqua e una pompa a mano; a Leikthò per aiutare padre Bossi; a Dorokhò per lavori al nuovo convento e a Taunggyi per costruire la casa parrocchiale di padre Domenico Pedrotti (1884-1973). A Kalaw Felice costruisce la chiesa in muratura, larga otto metri e lunga 40, ad una sola navata. Con Sandro Crotta e cinque muratori indiani finiscono il lavoro in cinque mesi, utilizzando i blocchetti di cemento già preparati in precedenza.

Dato che le richieste delle varie missioni erano sempre superiori alle possibilità di lavoro dei pochi fratelli disponibili, Felice lavorava a ritmi intensi e accumulava giorno per giorno una grande stanchezza. Dormiva bene tutte le notti, ma dormiva poco perché si alzava prestissimo per pregare. Di modo che, quando poteva, dormiva giorno e notte in continuazione. Ecco il racconto del viaggio su un barcone a motore del trasporto pubblico, per andare da Yaungshwe a Pekong, attraverso il lago Inle e un lungo canale. Imbarcatosi poco dopo mezzogiorno, mangia e poi sente una grande spossatezza.

“Mi distesi sulla stuoia e mi addormentai, pensando che mi sarei svegliato la sera, quando la barca si sarebbe fermata in qualche luogo per passare la notte. Invece non mi accorsi affatto di alcuna fermata e mi svegliai solo il mattino seguente, quando il sole era già alto e la barca molto lontana dal lago e in pieno canale. Mi lavai un po’ la faccia con l’acqua del fiume a portata di mano, recitai le mie preghiere e presi un po’ di pane e caffè. Essendo abbastanza caldo, mi sdraiai di nuovo e dormii fino a sera. Così, quasi non feci altro che mangiare e dormire fino al mio arrivo a Pekkong. Figurarsi le risate dei padri, quando sentirono la storia del mio viaggio e del mio sonno quasi continuo!”.

“Di qua e di là, di su e di giù” (1930-1933)

Il titolo di questo paragrafo è dato da Felice stesso, nella sua autobiografia “Il fabbro di Dio”: sta ad indicare che, a partire dalla fine degli anni venti, dopo aver superato il periodo di ambientazione nella vita missionaria, fratel Tantardini entra nel vortice dei continui impegni nella diocesi di Toungoo, ma anche in altre diocesi birmane. Lo chiamano da tutte le parti. La fama della sua abilità di fabbro, di falegname, di costruttore, è rimbalzata negli ambienti ecclesiali e deve correre “di qua e di là, di su e di giù”; Felice era inoltre famoso per il bel carattere, la semplicità, la santità, la capacità di raccontare storie e fatterelli quotidiani, divertendo vescovi, preti, suore, laici. Padre Paolo Noè ricorda: “Della santità di fratel Felice sono tutti convinti a Taunggyi e anche nelle altre diocesi della Birmania, perché aveva lavorato anche con altri vescovi. Mons. Falière, arcivescovo di Mandalay, era cotto di lui: lo chiamava per lavorare ma ancor più per sentirlo raccontare. Si divertiva un mondo per il suo modo di parlare. Fratel Felice era ingenuo, vivace e sapeva bene l’inglese”.

Dopo i lavori a Kalaw ritorna a Toungoo: bisognava costruire la nuova tipografia, per la quale oltre alle solite capriate, anche le finestre (a vetri) dovevano essere in ferro come Felice aveva già fatto per la chiesa del seminario. Nel centro della missione lavora nella sua fucina e officina di fabbro per lavori in serie a servizio delle missioni sui monti, visitandole tutte, una per una, quasi sempre con viaggi a piedi di uno-due-tre giorni.

“In quel tempo le residenze erano sfornite di letti. V’erano in ciascuna solo due o tre trabiccoli con quattro assi appoggiati su quattro gambe, con sopra una stuoia e per guanciale un pezzo di legno. Dormire su questi trabiccoli e dormire sul pavimento era la stessa cosa. A Hoya cercai e trovai una stuoia e la distesi sul pavimento, anch’esso di legno come la casa. Su quella mi sdraiai e mi addormentai di colpo. Dimenticai di procurarmi un pezzo di legno per cuscino, ma feci a meno anche di quello. Al mattino mi levai fresco, ascoltai le messe dei tre padri ed ebbi la soddisfazione di vedere con i miei occhi come vivono e dove abitano i poveri figli del bosco.

Apprezzai anche la invitta pazienza del padre Giovanni Battista Cadorin, che viveva con loro e condivideva tutti i loro disagi. Durarla per venti, quaranta e anche cinquant’anni e più, e quasi tutto il tempo da solo, senza comunicazioni, senza potersi incontrare con un confratello per mesi e mesi, a causa dei fiumi pericolosi e senza ponti, è cosa che si fa presto a dirla, ma a viverla è vero eroismo. Eppure padre Cadorin era sempre faceto e di buon umore e voleva tanto bene sia ai suoi cristiani che ai pagani”.

All’inizio degli anni trenta inizia la costruzione del seminario, un edificio imponente, resistente alle scosse telluriche, ammirato da tutti, anche da ingegneri inglesi, che allora erano gli unici dirigenti del genio civile, delle ferrovie, strade, ecc. Aveva anche un bel portico con archi e colonne artistiche, un cortile spazioso, tutto cintato da una bella cancellata di ferro lunga oltre 120 metri, con due cancelli. Felice costruisce anche 40 letti di ferro per i seminaristi. Insomma nella costruzione di questi edifici il fratello Sandro Crotta e il nostro Tantardini ci mettono tanta passione, ingegno e muscoli, da farne dei veri capolavori.

Alla cattedrale di Toungoo occorreva un campanile: Felice ne costruisce uno con struttura in ferro, alto 20 metri fino alla guglia, che misura sette metri. Ai quattro lati sotto la guglia fissa un vecchio orologio da torre, a quattro quadranti che già avevano in casa. Funziona a meraviglia, suona le ore e le mezze ore, va a peso e si carica una volta alla settimana. Monta pure cinque campane, d’antico stampo, senza ruote.

Essendo la chiesa situata sopra il rialzo di terreno più elevato della città, il campanile era ben visibile – punto di riferimento per gli aerei – e il suono delle campane si udiva anche nei villaggi lontani. La guglia sosteneva una croce di ferro, alta due metri e mezzo, fatta doppia, ossia con le pareti di vetro dove Felice mette cinque lampadine elettriche che, accese di notte, le danno l’aspetto di un’apparizione luminosa sospesa nell’aria. Questo campanile con la sua croce di ferro è l’unico edificio sopravvissuto all’universale distruzione dei fabbricati della missione nella seconda guerra mondiale. Ma del bell’orologio, vanto dei cristiani e della città, restano solo i quadranti con le lancette immobili. L’interno fu sventrato dai giapponesi.

Come premio per il bel lavoro fatto, mons. Sagrada concede ai nostri due e ad altri due fratelli, una vacanza di cinque giorni, per una gita a Mandalay. Visitano così la città sacra del buddhismo birmano e la reggia con i suoi magnifici troni dorati, le sue sale, i quartieri dei servi e dei soldati, e un vasto giardino. Un complesso di edifici che coprivano un’area di un chilometro quadrato e mezzo ed erano difese da alte mura con torrette di guardia e, di fuori, tutto in giro, un largo fossato pieno d’acqua, come le antiche fortezze reali birmane. Visitano pure Amarapura, una delle antiche capitali dell’impero, dove furono imprigionati e morirono un vescovo e tre padri Barnabiti (8). Alcune loro tombe, abbandonate tra i roveti fuori della città, portavano ancora le iscrizioni con i loro nomi.

A Mandalay alloggiano nell’episcopio. Il vescovo, un francese, era pieno di premure per i nostri; per Felice poi aveva un debito speciale che non mancava di esternare allora e anche in seguito, come quando alla presenza di padri e di vescovi disse: “Fratel Felice è il più grande missionario della Birmania!”. Il povero fratello divenne rosso e cercava di nascondersi, ma ormai la frase era detta e registrata dai presenti.

La grande croce sul monte Dilimikhò (1933)

Il 30 ottobre 1933, nell’anno del Giubileo per i 1900 anni dalla Redenzione di Cristo, viene eretta una grande croce sulla cima del monte Dilimikhò, il più alto e centrale della regione cariana (1.800 m.). Memorabile impresa, a cui partecipa anche fratel Felice Tantardini con altri fratelli, per dirigere il lavoro dei locali; l’hanno decisa nella loro riunione annuale i capi cariani cristiani ed è portata avanti coralmente da tutto il popolo, ciascun villaggio e ciascuna regione con i propri compiti da svolgere: un’organizzazione creata dai cariani stessi che danno prova delle loro capacità.

La croce è alta 22,50 metri, di legno-ferro: divisa in tre travi larghe un piede (29,56 cm.) incastrate l’una nell’altra, con il braccio trasversale di 7 metri. Nella parte superiore della Croce, quattro grandi specchi ben fissati nel legno, in modo che la luce del sole venga rilanciata e la croce sia visibile anche da grande distanza. Il p. Rinaldo Bossi, che ha diretto l’operazione finale, racconta la parte più difficile dell’impresa:

“Avevo dato ordini severi che si facesse assoluto silenzio. Solo io ero autorizzato a dare ordini. Al mio grido, più di 200 braccia alzarono un bel po’ la croce e poi, man mano che davo il tempo, la croce continuava ad alzarsi magnificamente bene. Chi spingeva in su, chi tirava le corde (anche i cariani sanno che bisogna bagnarle). Ognuno faceva il suo lavoro in silenzio. Mancava ancora poco per l’ultimo sforzo, quand’ecco le sei bande musicali, poste ad igienica distanza, si mettono a suonare credendo ormai finita l’operazione. Momento terribile. D’un tratto la croce piegò da una parte e ancora adesso non so perché non si è abbattuta pesantemente su di noi. I cariani dicono che il Signore l’ha presa per la testa e l’ha raddrizzata: dev’essere stato proprio così! Nella confusione che subito si fece, non ci capivamo più e io mi sgolavo inutilmente. Che paura! Successe un pandemonio indescrivibile. Tuttavia, dopo alcuni tentennamenti, la croce fu vista raddrizzarsi e stare immobile, trionfante nel ben cielo azzurro. Intanto che alcuni ne consolidavano la base, successe il finimondo!”.

Ritornato a Toungoo, Felice Tantardini parte per Dorokho per fare le finestre alla nuova chiesa e per l’ospedaletto che necessitava di letti di ferro; e vi era la Grotta della Madonna di Lourdes da riparare. Di là passa a Pekong per ultimarvi il campanile e istallarvi dentro tre grosse campane. Poi a Loikaw per letti di ferro e un grosso cancello all’entrata dalla strada alla chiesa. Le verghe di ferro erano quadrate, due centimetri per lato: fratel Felice le torceva da solo.

Capita a Pekong, a visitare padre Bartolomeo Peano, un ingegnere inglese con un amico. Vede il cancello, lo esamina e chiede al padre dove se l’è procurato. Felice non è presente; rientra poco dopo e l’ingegnere sentito che il cancello è opera sua gli chiede come ha fatto a torcere simili ferri, a freddo e senza aiuto di altri. Felice cerca di spiegarglielo, ma la sua piccola statura rendeva quasi incredibile tale forza muscolare. Il buon uomo gli dice sorridendo: “Non vorrei incontrarmi con te di notte: con la mano che ha torto questi ferri, potresti torcermi il collo!”. Felice gli fa osservare che le sue mani e i suoi muscoli sono solo per il ferro, non per la gente. “Bene – conclude l’inglese – mi cavo il cappello”.

Terminati i lavori a Loikaw lo richiamano a Toungoo per dare il cambio a fratel Alessandro Crotta che deve recarsi a Momblò per la costruzione di un convento. Ma la Provvidenza dispone diversamente. Trova fratel Crotta in ospedale affetto da una grave infezione al braccio. Accommiatandosi da lui gli augura pronta guarigione, ma lui rispose: “Ci rivedremo in Cielo”. Crotta muore tre giorni dopo. Felice si addolora pensando che Alessandro dopo solo sette anni di missione si è già guadagnato il Paradiso, mentre lui…

 

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