La donna lombarda, una forza di modernità e di integrazione — Lombardi nel Mondo

La donna lombarda, una forza di modernità e di integrazione

Mai con le mani in mano, come raccomandava Carlo Borromeo. Si dedicano al lavoro, all’arte, alla scienza. Mescolano il risotto e il cous cous. Oggi come ieri, fanno girare l’industria e la società. Più che mai oggi le donne lombarde sono portatrici di sperimentata saggezza

Più che mai oggi le donne lombarde sono portatrici di sperimentata saggezza. Lo dice la loro età: la pattuglia più numerosa di questo esercito, un quarto del totale, ha più di sessantacinque anni. Per contro soltanto cinque su cento sono bambine in età prescolare. Se mai la regione uscirà dalla crisi, non solo economica ma culturale e morale che l’affligge, sarà per un apporto di consumata esperienza che si aggiunge alla fresca ma scarsa energia giovanile.

Non è soltanto una speranza che siano le donne a imprimere una spinta positiva alla regione così popolosa, così varia e ricca di risorse. È una solida certezza, fondata su quel che le lombarde hanno sempre fatto per il bene comune, anche in tempi lontani, quando erano nell’angolo scuro della disparità di diritti. L’operosità e la dedizione femminile sono come due pietanze regionali che vengono puntualmente servite nei momenti cruciali, tanto nelle fasi di crescita come in quelle di ripiegamento.

 

In queste terre le donne hanno preferito la parte di protagoniste a quella di spettatrici, e il fenomeno è stato per lo meno tollerato, se non benedetto dalle norme. La regione ha dovuto essere tollerante delle diversità, aperta com’è stata agli invasori e ai dominatori esterni, area di passaggio degli eserciti, dei viaggiatori, dei mercanti. In fondo già dal nome, che ha un sapore latino ma evoca un popolo venuto dal nord, si rivela questa propensione ad accettare la mescolanza di persone, di idee, di esperienze, con un blando pregiudizio etnico o di genere.

 

Sono i fatti storici a confermare come la prosperità della regione sia stata, e sia tuttora, opera congiunta di uomini e donne, e il paesaggio lombardo porta i segni di un lavorio secolare, condotto in comune da lei, da lui, da loro. La scena di varie forme e colori che va dal verde piatto della bassa, ai profili imprevedibili delle colline brianzole, fino ai pascoli bruni e ai picchi alpini, intersecata da vie d’acqua naturali e artificiali (e più recentemente da binari, ponti e strisce d’asfalto) è stata identificata fin da metà dell’Ottocento da Carlo Cattaneo nelle sue Notizie naturali e civili sulla Lombardia come una superba opera dell’intelligenza umana. Se la forza muscolare maschile dissodava i campi, scavava i canali e batteva il ferro, la destrezza manuale delle donne estraeva il filo di seta, tesseva il lino, cuciva gli abiti, spigolava tra le messi, provvedendo alla sopravvivenza delle famiglie e al futuro delle generazioni a venire.

 

Forse per questa inclinazione al fare, tra le donne lombarde si è venuto formando quel particolare tipo di severa laboriosità, quel piglio da «ehi, ci so fare anch’io» che ha lasciato nel corso dei secoli una schiera di solide lavoratrici, di dotte educatrici, di capitani d’azienda, di generose benefattrici, di operaie dal tocco svelto, di sarte dall’ago sapiente (e molto altro).

 

Negli snodi critici della storia le donne lombarde erano lì, intente all’utile: nella rinascita culturale dei lumi, nelle battaglie per l’indipendenza e per l’unità nazionale, nel decollo industria le, nelle pieghe di sofferenza della questione sociale, nel prendere il posto degli uomini al fronte in due guerre mondiali, nel fervore del miracolo economico, nella crescita civile della parità nelle professioni. E anche nell’allevare i figli, prendersi cura dei deboli e dei miseri.

 

Sono ora all’avanguardia, per forza o per amore, nel dialogo con le donne venute da lontano: hanno i figli insieme a scuola, le accolgono in casa per i lavori domestici, le assumono nell’azienda di famiglia. Di fronte alla migrazione che ha portato in tredici anni il numero di stranieri residenti nella regione dai 162 mila del 1995 ai 905 mila di oggi, la Lombardia ha dimostrato una serena capacità di assorbimento. E’ vero, qualcuno sfoga la paura e il rancore votando per candidati dalla voce grossa, ma ancora non abbiamo assistito a vere e proprie guerre tra poveri.

 

Come è tipico delle donne, più che degli uomini, le lombarde parlano, scambiando informazioni, opinioni, finché le possibili varianti del risotto alla milanese si incrociano con quelle del cous cous. Le nonne, d’altra parte, non hanno forse imparato a cuocere gli spaghetti al dente nelle successive immigrazioni dal Sud d’Italia? Quando si comincia a discorrere del prezzo del latte, si prosegue con gli usi e costumi, e finisce che di hijab e niqab una lombarda qualsiasi ne sa almeno quanto un islamista, e forse di più, perché la vita vissuta apre pieghe nascoste che non si trovano scritte né in arabo né in italiano.

 

Maria Teresa d’Asburgo. Nel 1760 impose una tassa sulle proprietàAd avviare la Lombardia verso la modernità, in fondo, è stata una donna, per giunta neppure lombarda: nel 1760 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo impose, con il catasto, una tassa sulle proprietà, redditizie o meno. E allora tanto valeva mettere a frutto le terre, in un circolo virtuoso che ha rilanciato l’economia locale. Nell’ondata di innovazione culturale dell’età dei lumi, le lombarde di alto rango offrivano un esempio, da buone allieve e seguaci, generazione dopo generazione, di Carlo Borromeo. Il grande riformatore della cattolicità raccomandava di non stare «mai con le mani in mano », perché il peccato è figlio della noia. Di madre in figlia il motto ha presieduto alle consuetudini domestiche, anche tra i laici, come una promessa di dignità nell’esistenza terrena.

Qualche volta bonariamente infastiditi, gli uomini guardavano. Al cavaliere Charles de Brosses, presidente del Parlamento di Borgogna, impegnato nel Grand tour italiano nel 1739, veniva il mal di testa soltanto all’ idea di impegnarsi nella conversazione con le troppe dotte milanesi: Clelia Borromeo, scienziata dilettante; la matematica Maria Gaetana Agnesi, la sorella di lei musicista, Maria Teresa Agnesi, la poetessa Francesca Manzoni. Non si chiedeva il permesso per dedicarsi all’arte o alla scienza, e non lo aveva chiesto la signora Orsola Dalumi Materzanini, che sul finire dell’An cien Régime produceva e commerciava il ferro, dirigendo un paio di centinaia di lavoratori nell’alta val Sabbia, dopo che tutti i maschi della famiglia erano morti nel’incendio di Bagolino del 1779.

 

Una sessantina di anni dopo, per condurre l’esperimento d’avanguardia di insegnare a leggere e scrivere ai piccoli di Locate, Cristina Trivulzio di Belgiojoso non si curava troppo di essere disapprovata da Alessandro Manzoni: «Quando tutti sapranno leggere e scrivere, domandava perplesso lo scrittore, chi vorrà più lavorare la terra?».

Ora che tutti sanno leggere e scrivere, l’agricoltura non è affatto morta e la sua economia è così varia di prodotti e servizi da avere bisogno di chi filetta le viti o calcola il cemento armato (anche se non più a mano o con il regolo come ai tempi di quello che Carlo Emilio Gadda chiamava el nost Politeknik e che è tuttora una culla di sapienza).

 

Anna Kuliscioff. L’Ospedale Maggiore rifiutò di assumerla come medico perché donna, russa e socialistaSe è vero che sul finire dell’Ottocento l’Ospedale maggiore di Milano negava ad Anna Kuliscioff, regolarmente laureata in medicina e specializzata in febbri puerperali, un’assunzione perché russa, donna e per giunta socialista, gli ospedali e le università lombarde si prendevano cura delle mamme e dei neonati ben al di là del sapere e dell’esperienza data: tra i pionieri della medicina, Edoardo Porro insegnava a salvare la vita delle madri dopo un parto cesareo e, con Luigi Mangiagalli, contribuiva a ridurre la mortalità materna e neonatale. Nei manuali di storia certe donne sono invisibili, eppure hanno lasciato un’eredità inestimabile alle figlie e nipoti. Tra i grandi lombardi è famoso Federico Confalonieri e dimenticata Bianca Milesi. Eppure erano quasi coetanei, tutti e due patrioti e, davanti agli inquisitori della congiura del 1821, Federico vuotò il sacco, confessando tutto, come quasi tutti i suoi compagni. Bianca, come le amiche, non si lasciò scappare una parola o un nome. Lui finì allo Spielberg, lei a Parigi a impiegare fruttuosamente il suo tempo a dipingere e scrivere o tradurre libri per l’infanzia, «mai con le mani in mano» in un’incessante opera di educazione e avanzamento femminile fin dall’età più tenera.

 

Terra di devozione intensa, ma anche di ferma laicità, la Lombardia ha guardato in faccia sgomenta la questione sociale generata dall’industria: che cosa fare con quelle masse abbrutite che popolano le campagne o si riversano nelle fabbriche di città? E ne ha dato soluzioni diverse e contrastanti: il mutuo soccorso e le casse rurali cattoliche, oppure il mutuo soccorso e i sindacati socialisti. Negli scioperi spiccavano le donne, perché erano operaie e contadine, mondine e piscinine, brutalmente usate come oggetti di consumo, anche carnale. E quindi, se il cardinale Andrea Ferrari si preoccupava dei poveri e sosteneva l’energica Armida Barelli, «mai con le mani in mano» nell’Azione cattolica, perché è meglio trovarsi a imparare il catechismo piuttosto che subire l’assedio dell’ozio, la socialista Ersilia Bronzini Majno provvedeva alle «povere ragazze», ospitandole all’Asilo Mariuccia, dove imparavano un mestiere e allevavano i bambini marchiati come «figli della colpa». Nel trauma nazionale dell’8 settembre 1943, più sentito nella Lombardia subito occupata dai tedeschi e sede del governo fascista di Salò, ogni donna lombarda con un po’ di coscienza ha compiuto quel che era giusto, schierandosi per un futuro meno sanguinoso e più libero: a Milano e a Torino, per una volta non più rivali, nascevano i Gruppi di difesa della donna, organizzazioni senza bandiera di partito allo scopo comune di mantenere la trama e l’ordito della società, la vita, le famiglie, i clandestini, i combattenti.

 

C’erano, le donne lombarde, a costruire il nuovo paesaggio del miracolo economico, e questa volta con il pieno diritto di parità scritto nella Costituzione repubblicana: la giovane traghettatrice del Po a Zibello fissata nella celebre fotografia di Pietro Donzelli trasmette le stesso senso di felice vitalità della commessa in grembiule nero e colletto di pizzo al Motta, delle garbate lavoratrici della Rinascente, delle operaie della meccanica e del tessile. Prima ancora che agli stilisti degli anni Ottanta, Milano deve il proprio primato della moda alle sarte come Biki, Germana Marucelli o Jole Veneziani, distinte signore che avevano incrociato la cultura e la mondanità, riscattando l’italianità dalla pomposa vergogna del fascismo.

 

Anni 60. Elvira Leonardi Bouyeure, in arte Biki, è stata una delle prime stiliste italiane, dal dopoguerra agli anni del boomNell’ultimo trentennio del Novecento il lavoro femminile si è qualificato a ritmo sostenuto, trasformando una massa di esecutrici in un esercito di lavoratrici di medio e alto livello, che al traguardo del Duemila era già più consistente di quello maschile: le lombarde, più numerose dei maschi, si laureano di più, lavorano di più e soffrono di più del carico di lavoro domestico e familiare che grava sulle loro spalle. Il prezzo di tanta fatica lo paga, in fondo, la società intera: in Lombardia si vedono pochi bambini e la famiglia media si ferma a due persone e poco più.

 

Questa media nasconde a mala pena la presenza massiccia di donne sole, per lo più sopra i sessant’anni. Eppure sono proprio loro a presiedere all’ordine e alla prosperità: se nel decollo industriale ottocentesco le signore abbienti mettevano a disposizione dei mariti e dei figli i capitali necessari all’avvio di attività sperimentali e quindi rischiose, oggi le nonne soccorrono le giovani coppie in mille modi. Un pioniere lombardo dell’ industria chimica, Giuseppe Candiani, si dichiarava «debitore, nello sviluppo dei miei affari, alla modesta dote che mi portò mia moglie» ed era uso consolidato tra i padri dell’industria lombarda, sposare ragazze ben provviste di titolo nobiliare, di terre e immobili, di capitali liquidi. Si poteva e si può stare certi che con il denaro ereditato e risparmiato, con l’intelligenza e la generosità proiettate verso il futuro, le donne lombarde sanno come resistere alla crisi. Non importa se hanno superato gli «anta»: con il suo primato nazionale di pensionate, la Lombardia sta traghettando le giovani generazioni verso un futuro più roseo. E non è soltanto questione di soldi, ma di una morale tramandata, perché la nonna calabrese ricorda che viveva in uno scantinato, la nonna di montagna che non conosceva il sapore dello zucchero e quella partigiana l’aroma del vero caffè, ma l’importante è non stare «mai con le mani in mano».

 

Di Marta Boneschi*

 

*Marta Boneschi, milanese, giornalista e scrittrice, ha pubblicato nel 1995 «Poveri ma belli», una storia del miracolo economico. Tra le altre opere «Santa pazienza» sul cambiamento della condizione delle donne nella seconda metà del ’900. È in «La donna segreta, storia di Metilde Viscontini Dembowski»

 

Fonte: corriere.it

Document Actions

Share |


Condividi

Lascia un commento