Morte nel silenzio del deserto — Lombardi nel Mondo

Morte nel silenzio del deserto

Stanno morendo nel deserto, schiavi con le catene, i morti tra coloro che sono ancora vivi, donne incinte, bambini. Sappiamo tutto di loro. Sappiamo chi sono, dove sono. Sappiamo i nomi dei mercanti, abbiamo i numeri dei telefoni cellulari.

Chiamate Abo Kalid, l’organizzatore del traffico: 20176662777 oppure 20155323121. Chiamate il capocarovana Meharl, che preferisce essere conosciuto con il soprannome di Wedi Koneriel. Il suo numero è 192229135. Se è occupato, provate 175559179. Vi diranno le condizioni: 10mila dollari per liberare uno schiavo. Nessun governo europeo ha provato a telefonare a quei numeri, a offrire un riscatto o a tentare una liberazione. Ciascuna delle persone incatenate, compresi i bambini, ha già pagato 2000 dollari per essere ammessa a questo estremo viaggio che sembrava della speranza. Ma a un certo punto, in pieno deserto, il convoglio s’è fermato e la tariffa è cambiata: altri 8mila dollari per ciascuno o il viaggio finisce lì. Non è indolore. I primi 8 che hanno tentato di fuggire sono stati abbattuti a bastonate in un’esecuzione pubblica che servisse da lezione. Sei sono morti, due sono feriti gravi abbandonati in mezzo agli altri prigionieri senza soccorsi, neppure acqua, che viene distribuita in quantità minima (e senza nessuna possibilità di lavarsi) ogni 2 o 3 giorni.

Quanti sono? Circa 250. Eritrei in fuga dalla guerra senza fine. Etiopi che credevano di essere scampati al loro dittatore, somali che non hanno più un Paese ma solo signori della guerra e bande in continuo conflitto. Come mai abbiamo notizie così dettagliate? Si devono al sacerdote eritreo Don Mussie Zerai. Vive a Roma ed è presidente della Agenzia Habeshia e membro dell’Accademia Etiopica Pontificia. Il 21 dicembre il comitato per i diritti umani della Commissione esteri (Camera dei deputati) lo ha  convocato per ricevere formalmente le notizie di cui dispone. Sono presidente di quel comitato e – anche a nome degli altri deputati presenti in quell’“audizione” – la domanda più urgente era questa: Come fa a sapere? Gli Stati non intervengono, l’Europa è silenziosa e assente, i servizi segreti africani ed europei sembrano privi di tracce. Se le avessero gli Stati, almeno alcuni Stati, in nome di un minimo di civiltà, sarebbero intervenuti. Don Zerai ha risposto: “Tutti sanno tutto. Almeno tre servizi segreti conoscono con esattezza il luogo in cui le 250 persone tenute in schiavitù in attesa del riscatto stanno morendo. I numeri dei telefoni cellulari sono fatti circolare dai mercanti (compresi molti di singoli prigionieri) per rendere possibili i contatti e le offerte. Allo stesso modo è noto il numero di un conto corrente egiziano su cui si devono fare i versamenti. L’uso dei telefoni cellulari, naturalmente, rende possibile rintracciare in qualunque momento predoni e vittime. Ma i servizi segreti lo sanno. Gli Stati lo sanno. C’è evidentemente una concordata decisione di non intervenire”. L’ambasciatrice egiziana presso la Santa Sede ha fatto sapere al sacerdote eritreo: “Se le autorità egiziane intervenissero, si troverebbero a carico i migranti e questo non lo possiamo fare”.

Lo scatto di indignazione che potrebbe seguire questa affermazione va dedicato non all’Egitto, ma all’Italia, che –come è ormai noto – è la causa di questa tragedia e di molte altre che non sono e forse non saranno mai conosciute. Ma prima vediamo alcune notizie in più per ricostruire la tremenda vicenda, per capire che ci è vicina, che ci riguarda e che – come in tutti i momenti più bui della Storia – ciascuno fa finta di non sapere.
Il container o i container in cui sono imprigionati i migranti che non hanno ancora pagato il riscatto sono nel deserto del Sinai, territorio egiziano, vicinissimo al confine della striscia di Gaza. Israele, che non può intervenire fuori dalla sue frontiere, è un rifugio, come sanno i migranti che riescono a raggiungere quel Paese, come sanno i profughi che arrivano a quella frontiera sfuggendo ai mercanti. Anche perché gli Usa di Obama hanno già fatto sapere che accetteranno 40mila eritrei nel corso del 2011. Il governo egiziano ignora i passaggi e gli insediamenti delle carovane pirata, forse per ragioni che hanno a che fare con rapporti tra paesi africani, dalla Libia al Sudan, alla stessa Eritrea, nel periodo in cui Gheddafi, il despota della Libia e partner dell’Italia, è presidente dell’Unione Africana e – allo stesso tempo, e per conto dell’Italia – dedito alla caccia umana dei profughi.

Ma sappiamo altre cose. Sappiamo che Hamas è una buona base d’appoggio per i mercanti di esseri umani, così che la strada della morte ha due capolinea sicuri, la Libia che abbandona i migranti nel Sahara e Hamas che da Gaza fa da appoggio al campo del Sinai egiziano. Se è vero (ma si tratta dell’unica e atroce parte non provata della storia) che c’è espianto e commercio clandestino di organi (reni, soprattutto) i punti medici di appoggio non possono che essere nel territorio controllato da Hamas e fortemente remunerato per questo dai mercanti. Nel racconto di Don Zerai, in quelli fatti a lui per telefono dai profughi che invocano riscatto, risulta con certezza che almeno un centinaio di essi sono gli stessi che sono stati intercettati in mare mentre – in fuga dalla guerra eritrea – venivano a chiedere diritto d’asilo in Italia. Sono gli stessi che sono stati imprigionati nello spaventoso carcere libico di al Braq. L’indignazione del mondo e lo scandalo per la collaborazione dell’Italia a quella cattura (nessuno ha mai potuto chiedere diritto d’asilo) ha portato a una finta liberazione: abbandonati senza documenti nel Sahara. Una evidente offerta – forse debitamente compensata – ai mercanti. Le stesse persone che stavano venendo a chiedere l’aiuto di una presunta civiltà italiana, si sono trovate, in mano ai pirati di essere umani, nel deserto, in attesa, per molti senza speranza, di un riscatto impossibile. Tacciono i governi, che mandano (anche l’Italia) navi da guerra nel Corno d’Africa per difendere le merci dalla pirateria di mare. Ma la marcia nel deserto, la prigionia, le catene e la fine degli esseri umani non interessa nessuno.

Forse c’è una ragione. La ferrea e sbandierata alleanza  fra l’Italia di Berlusconi e la Libia di Gheddafi, che procura ai leader contraenti vantaggi ignoti, ma è una strettissima alleanza politica e militare agli occhi delle diplomazie mondiali, è un potentissimo alibi. Nulla osta alla morte senza diritti di profughi che hanno commesso l’errore di non sapere come è cambiata l’Italia, ex Paese civile.

Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2010

 

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