La storia di Renato Azzoni. L’italianità è una qualità — Lombardi nel Mondo

La storia di Renato Azzoni. L’italianità è una qualità

Cremonese di nascita. Il dopo guerra e la crisi lo obbligano a emigrare da solo in Uruguay, dopo tre anni tutta la famiglia lo raggiunge. Un lombardo tenece, che ha fatto del lavoro e delle sfide della vita la sua forza. Cominciare da zero e credere in se stesso. Le sue origini lombarde solide e la gratitudine verso il paese che lo ha accolto

Ho conosciuto il Sig. Renato Azzoni durante la mia piacevole visita c/o l’ALM, l’Associazione Lombarda di Montevideo. Cremonese, come me, dopo pochi minuti l’accento affiorava piacevolmente.

 

 

 

 

Lo sguardo sereno e duro del Sig. Azzoni racchiude la vita di un emigrante che non ha mai smesso di farsi domande e di credere nel lavoro come strumento di crescita personale. Tesoriere dell’ALM, ha fatto e continua a fare molto per la comunità italiana di Montevideo. Un’uomo che ha cominciato da zero, che non si è mai dato per vinto, che ha fatto dell’italianità una qualità.

Rosalia, la moglie, anche lei è italiana, non la conosco ancora, ma spero di farlo presto, sa fare i tortelli di zucca e il suo nome echeggiava durante l’incontro.

Mentre parlava della sua zona, del suo paesino, il suo sguardo rimbalzava dentro cercando dettagli e ricordi, tempo e memoria di una vita, l’appartenenza e le radici che ti scuotono, che ti definiscono sempre.

Non l’ ho intervistato, come faccio sempre, registratore e microfono in mano, il Sig. Azzoni mi promette di mandarmi la sua storia ed io aspetto la mail che non arriva, poche settimane e la sua storia mi arriva per posta, busta gialla e francobolli, un gesto che parla da solo  Ritiro la busta al – correo – , sull’autobus leggo tutto d’un fiato quella chiara calligrafia e mi commuovo sotto lo sguardo anonimo dei passeggeri.

 

Patrizia Marcheselli

Portale dei Lombardi nel Mondo

 

Dal manoscritto del Sig. Renato Azzoni

 

Re nato, è nato il Re, questa è la ragione per la quale mio padre mi ha messo il nome di Renato. In un agosto afoso e con sole da spaccare le pietre eccomi apparso io in quella Pianura della  Bassa Padana lombarda dove il cappello era obbligatorio per ripararsi dal sole violento in estate, come eppure era d’obbbligo per ripararsi dal freddo e dall’umiditá dell’inverno.

Incominciai i miei primi passi in una cascina molto grande, nell’aia davanti a casa, piena di galline, oche, anitre e con l’immancabile maiale chiuso nel porcile affinchè ingrassi al più presto.

Sempre di fronte alla mia casa, oltre l’aia, c`era la stalla: << Che bella calda era d’inverno! >>. Di fianco alla stalla, la scuderia per i cavalli ed i puledri. Sopra la stalla c’era il deposito del fieno, cibo prelibato per le mucche che si amministrava con cura perchè raccoglierlo, dava molto lavoro.

Mio nonno, poi mio padre insieme ad altri tre o quattro contadini, oltre al “vacher”, erano coloro che facevano andare avanti l’azienda che mio nonno, poi mio padre, avevano ereditato da una ricca famiglia la cui erede si sposò con uno dei nostri familiari che alla fine ereditò tutta l’azienda, trasmessa succesivamente a mio nonno.

Ero il primo bambino maschio in casa, dove c’erano le tre sorella di mio padre, ancora nubuli e mia nonna. Sono dunque diventato il giocattolo che non hanno mai avuto e passato dalle braccia di una poi all’altra ricevevo baci e morsicate che a volte mi facevano piangere. Un’infanzia serena, protetta e coccolata.

I primi passi fuori di casa mi permettevano di conoscere il mio paesino di circa 200 abitanti e di mettermi a contatto con altri bambini dell’asilo, a 50 metri da casa. Di fianco all’asilo c’era la scuola elementare e proprio lì sono cominciate le mie prime obbligazioni, le mie prime responsabilità che, la mia prima maestra “Rosa” mi ha fatto conoscere. Si doveva saper scrivere e leggere. I primi anni di scuola elementare, attorniato dalle turbolenze della guerra, dal fascio, dai tedeschi, i partigiani, e se non bastasse da aerei militari che tutti i giorni passavano rasenti e mitragliavano. Per fortuna il mio paesino, non avendo nulla da mitragliare, ne è stato risparmiato.

Quegli uccelli meccanici che si permettevano di salire e scendere con tanta facilità e con un intenso rombo di motori li ammiravo e mi emozionavano.

A 2 Km c’era il paese, io vivevo in una frazione, con il comune e la chiesa, con un parroco poco mistico ma molto severo per condurre quella massa di contadini alla messa e questo lo faceva con l’aiuto di una “stropa” , tanto per accellerare l’entrata in chiesa, soprattutto di noi ragazzi.

In questo ambiente di strade polverose, di dialetto obbligato, mai una parola d’italiano per non farsi deridere, di molta neve e di caldo afoso, di raccolti di fieno, di frumento, di granoturco, di vendemmie, di pane fatto in casa, di tortelli di zucca, di grandi bucati, di polente, di ghiaccio, di zoccoli di legno, di bachi da seta, di feste del Santo protettore della parrocchia, di “mundui” e di “garatuli”, di attesa delle pagello con il “promosso” da togliermi il fiato mi sono finalmente trovato coi pantaloni lunghi, abandonando quelli corti e quelli alla “zuava”.

Nuova tappa in collegio, a 15 Km da casa. Le prime “caragnate” dopo che mia madre mi ci lasciava e che la porta si chiudeva.

Ero solo, dovevo svegliarmi da solo, allacciare nuove amicizie in collegio, farmi il letto, cosa che non avevo mai fatto, dovevo assoggettarmi agli orari imposti dal regolamento cioè: a quest’ora …la sveglia, a quest’altra lo studio, poi la scuola, la cena e finalmente a letto, tutto secondo l’organizzazione del collegio.

Dov’erano il mio paesino, i miei amici, la mia famiglia? Molto lontano!

Qui avevo una nuova scuola, un nuovo direttore, nuove professoresse per ogni materia,  le promozioni, non sempre ottenute, rimandato perciò in alcune materie.

Sono stati anni di lotta, di responsabilità, sotto la pressione del direttore del collegio e le raccomandazioni di mia madre unite alle possibili minacce di mio padre.

Di ritorno al mio paese ho notato dei cambiamenti: il dopo guerra, il Cucciolo, la Vespa, La Balilla, il Guzzino, e l’emigrazioni degli amici in città.

Mio padre è rimasto con la metà delle “pertiche” di terra che, dopo la morte di mio nonno, sono state divise tra fratello e sorelle.

E adesso, che cosa faccio? Mia madre, avendo due fratelli panettieri, mi ha consigliato di andare a  lavorare da loro come aiutante e l’ho fatto durante 2 anni. Non ero affatto convinto di questa nuova attività.

Si è pensato allora a nuovi progetti come, andare ad abitare in qualche grande città d’Italia, ma a far che…?

Ci è venuta infine l’idea di prendere un nuova destinazione, raggiungere nuove terre sconosciute, almeno per noi e questo dopo l’informazione di cugini emigrati in Uruguay.

La mia gioventù, priva di speranze in Italia, si è versata sul pensiero di fare questo passo, di un cambio radicale pieno di interrogazioni e di molte incertezze, sia per la mia poca esperienza (avevo 18 anni), sia per gli scarsi incitamenti dei pochi amici rimasti in paese e dei familiari.

Dicembre: neve e molto freddo. Saluto mia madre, mio padre e mio fratello dalla nave mentre loro si facevano forza da una balconata del molo di Genova.

La nave stava partendo per l’America. Lentamente si allontanava e perdevo, poco a poco la vista delle sagome dei miei cari. Sono rimasto ancora una volta solo, sempre più solo. Cadeva qualche fiocco di neve insieme a qualche lacrima. Mi ha preso un senso di solitudine, il freddo si faceva sentire così come l’effetto mare che mi ha obbligato a restare a letto per tre giorni di seguito: era il mal di mare. Era la prima volta che vedevo il mare,ve lo potete immaginare?

L’Italia si allontanava, il Mediterraneo apriva le porte all’Oceano Atlantico e poi… 21 giorni di cielo e mare.

“Nuevo Mundo”: è la prima scritta suggestiva che ho letto su un cartello al porto di Montevideo. Fra le molte persone che aspettavano l’arrivo della nave ho riconosciuto i miei cugini. Un vento caldo mi ha obbligato a togliermi la giacca. I primi abbracci, le prime domande e le poche risposte da parte mia. Ero così confuso, le domande che volevo fare non le ho fatte e mi sono limitato a sorridere. L’America!!!

Dopo tre giorni di via vai, di viaggi in treno, mi sono trovato in una casa col tetto di paglia, in piena campagna, a 300 Km da Montevideo, col mio baule fabbricato apposta dal falegname del mio paesino. La casa non aveva nè luce nè acqua. Solo avevo la compagnia dei miei cugini, degli zii e molto, molto vento. Dormivo nella stanza insieme con i miei cugini e con una candela. Che tristezza! Quanta nostalgia!

Il sole mi avvolgeva, mi bruciava. Quelle lunghe ed infinite distese di verde con qualche euucalipto sparso e raggruppato e col bestiame allo stato selvaggio. Il rumore del silenzio, il verde diverso da quello del mio paese che si estendeva all’infinito, la notte buia con un cielo stellato come una pittura, lune piene che si riflettevano nell’immenso buio, i tramonti, la campagna ostile, il vento che ti stampava rughe sul viso.

A cavallo facevo i primi percorsi in quell’ambiente solitario e al non capire la lingua, osservavo attentamente gli occhi della gente per capire il loro atteggiamento: umile, a volte fastiadiato, a volte minaccioso. Ecco i miei primi tre anni d’America.

 

Poi mi hanno raggiunto i miei genitori e mio fratello. Non hanno trovato di certo il ragazzo partito tre anni prima, ma uno con la faccia bruciata dal sole, le mani callose, vestito un po’ alla “gaucha”, che mescolava l’italiano ad una lingua che loro non capivano e,  soprattutto, non troppo sicuro sul suo futuro destino.

Mia madre ha suggerito di ricominciare una nuova vita a Montevideo e non in campagna. Eccoci, quindi, noi tutti nei primi passi in una grande città.

Per noi, noi venuti dal nostro lontano paesino, Montevideo ci è sembrato molto grande, accogliente e piacevole per viverci. “Avenidas” larghe, edifici coloniali mescolati con altri più nuovi e moderni. Un lungomare (Rìo de la Plata) con spiagge mai viste prima, non sapevo persino come si andava in spiaggia, poi dopo mi sono reso conto di quanto fosse semplice. Si sono fatti i primi contatti con italiani di diverse “categorie”, alcuni falliti, altri fortunati, alcuni ma pochi, con una condotta esemplare e di successo.

Con i soldi della casa venduta in Italia, ne abbiamo comprato una a Montevideo. Prima di metterci in qualsiasi attività lavorativa volevamo sapere e capire e per questo ascoltavamo vari consigli sul, che fare?

Avevamo molta paura di perdere il piccolo capitale che mio padre amministrava a denti stretti e mani chiuse.

Finalmente è capitato, un lavoro per me presso una ditta dolciaria italiana a Montevideo dove mi sono presentato come operaio ma sono stato ammesso come impiegato. Io impiegato? Venivo dalla campagna con i calli sulle mani, la faccia bruciata dal sole e dal vento. Mi sono così trovato seduto davanti ad un tavolo facendo semplici lavori di aiutante amministrativo.

Al confermarsi la mia permanenza nella ditta, sono iniziate le responsabilità, sempre maggiori: distribuitore della merce, riscuotere con i clienti, incarico del deposito merci, amministratore, aiutante alle vendite, poi responsabile delle vendite fuori Montevideo. Questo voleva dire viaggiare. Prima per tutto l’Uruguay e poi tentare le vendite in Brasile, Paraguay, Perù, Cile, Argentina, insomma capovendite generale, 13 anni di grande e “dolce” lavoro. Questa è stata la mia scuola per un futuro passo, un lavoro in proprio.

Mi sono sposato con una ragazza italiana, anche lei emigrata in Uruguay che gestiva un’attività commerciale nel settore calzature e borse a Montevideo. Suo padre era un artigiano calzolaio ed aveva stabilito un laboratorio di 8/10 operai, specializzato nella fabbricazione di scarpe su misura per le signore, che ad ogni cambio di stagione volevano farsi fare dei nuovi modelli di nuove collezzioni. Eccomi qui, in un settore di cui non avevo la minima idea.

Mio suocero si ammalò ed ho dovuto prendere la decisione di lasciare le mie attività dolciarie e dedicarmi piuttosto al pellame, alla conceria, alla clientela ed amministare la piccola ditta che era di mio suocero e quella commerciale a cui era addetta mia moglie.

Sono stati momenti di intenso adattamento. Ancora una volta è stata messa a prova la mia volontà, la mia capacità di adattamento, per riuscire a comprendere il più velocemente possibile tutti i giri e rigiri necessari, prima, per andare avanti, poi, per propormi una meta e alla fine trionfare.

Primi passi: l’apertura dei locali commerciali in diversi punti considerati interessanti e proficui a Montevideo e Punta del Este, balneario frequentato da turisti stranieri e in particolare sudamericani; importazione ed esportazione dei nostri prodotti ed infine apertura di negozi presso gli shopping che a Montevideo hanno creato un’importante cambio nel settore vendite. Il successo non ha tardato a farsi sentire ed ancora oggi continua.

Io e mia moglie, “full time” in queste attività, siamo arrivati ad imporre uno stile, una marca, una qualità che tutt’ora in Uruguay è considerata la migliore.

Abbiamo creato ed organizzato una ditta di 60 dipendenti con impiego diretto e 200 indiretto. 40 anni di lavoro che proseguono ancora adesso.

 

Così mantengo la mia qualità d’italiano, qualità che non ho mai voluto perdere, poichè nella mia memoria ho impresso i momenti della mia infanzia, della mia fanciullezza, il suono delle campane del mio paese, i primi amici, giocare a pallone, i litigi a scuola, i pianti ed i sorrisi di “avventure” vissute insieme. Per fortuna, ho potuto rivedere il mio paesino varie volte, ho potuto riassaporare la nostalgia di momenti che non torneranno mai più.

 

Oggi, in me, ci sono due bandiere che rispetto ed amo, due inni nazionali che mi commuovono ascoltandoli, in particolare durante le celebrazioni , commemorazioni ed anniversari italo-uruguaiani, dove faccio sempre il possibile per essere presente.

La vecchiaia comincia a stendermi le braccia e la nostalgia mi rende sempre sensibile. Qualche lacrima affiora più sovente: vorrei fare…vorrei andare… Ciò nonostante il dovere sempre mi chiama ed io rispondo “presente”. Il lavoro è sempre stato il mio fedele compagno, non l’ ho mai nè rifiutato nè tradito, anzi, lo abbraccio sempre con allegria ed orgoglio e ne vado fiero.

 

Ecco la mia storia, la storia di un emigrante comune che ha voluto avvicinare con il suo prodigo lavoro due sentimenti di eterna simpatia verso l’Italia e verso l’Uruguay.

 

Renato Azzoni,

Montevideo, Uruguay

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