Pasta, mozzarella e cappuccino a New York, l’ italiano in tavola — Lombardi nel Mondo

Pasta, mozzarella e cappuccino a New York, l’ italiano in tavola

Il sito della Società Dante Alighieri chiede ai suoi visitatori quali siano le parole inglesi più detestate: vincono weekend e ok, seguiti dagli aziendalistici briefing, mission, know how, e dai politici authority, privacy, premier e bipartisan

Dilagare: questo è il bel verbo – naturalmente italiano – che si usa quando si deplora la presenza di parole anglofone nella nostra lingua, una presenza appunto dilagante che pare autorizzare preoccupazioni sullo stato di salute della lingua medesima. Il sito della Società Dante Alighieri chiede ai suoi visitatori quali siano le parole inglesi più detestate: vincono weekend e ok, seguiti dagli aziendalistici briefing, mission, know how, e dai politici authority, privacy, premier e bipartisan. L’ informalità del sondaggio dà esiti comunque corrispondenti all’ idea che ci si può fare della presenza anglofona nel lessico attualmente usato dagli italiani.

Per avere un quadro completo della salute della lingua italiana nel mondo, e in particolare in quello anglofono, però, bisognerebbe considerare quali apporti linguistici l’ italiano offra fuori dai confini nazionali: quante persone lo studino, nelle scuole pubbliche o nei corsi privati, quanti termini italiani siano conosciuti e correntemente impiegati e a quali aree del vocabolario italiano essi afferiscano. Le linee di diffusione di una lingua seguono quelle dell’ economia, del commercio, dell’ egemonia in un dato settore. E’ la ragione per cui, come raccontava Michel Platini, incontrando negli anni Ottanta Diego Armando Maradona, saluti e conversazioni avvenivano in italiano: all’ epoca la nostra era la lingua internazionale del calcio, in cui si primeggiava per la forza della nostra Nazionale e per la relativa potenza economica che consentiva di avere nel campionato italiano un numero rilevante di campioni stranieri. Ora certamente non è più così.

Scoprire in quali settori gli stranieri sono costretti a conoscere almeno qualche rudimento di italiano significa dunque sapere dove siamo realmente forti, e dove questa forza ci è riconosciuta come specificamente italiana. La moda? Forse sì, fra gli operatori del settore. Ma per quanto riguarda il pubblico generico una passeggiata per Manhattan mostra come l’ apporto linguistico dell’ italian style si limiti ai nomi propri, di persona o di luoghi, trasformati in marchi. Armani, Dolce & Gabbana, Versace, Valentino oppure Montenapoleone, e altri nomi anche molto meno noti al pubblico non specializzato, nomi che evidentemente connotano comunque italianità. Ma in quanto

alle denotazioni, sono tutte in lingua inglese. Un discorso analogo si potrebbe fare per il design, con la diffusione di nomi propri italiani (di marche, autori e modelli) ma nessun nome comune di oggetto lasciato filtrare sino al consumatore minuto. Nomi propri si leggono anche sulle insegne di negozi molto meno pretenziosi, come gli alimentari Zingone Bros o Esposito Sausage, che allora espongono spesso anche l’ anno da cui i titolari operano e sono proprietari. Una variante aggiornata è costituita da insegne più sbarazzine come “I tre ragazzi” o “Gelati come una volta”, in cui l’ italiano segna una provenienza ma soprattutto un’ identità, un riferimento quasi esotico, un richiamo a un altrove nello spazio prima che nel tempo.

L’ unico settore in cui sia possibile riscontrare una presenza relativamente autorevole dell’ italiano, e con cui il pubblico indifferenziato deve fare i conti, è certamente quello alimentare. Anche qui si incomincia con le insegne (“Il palazzo”, “Il gattopardo”, “La famiglia”…), e si passa per molti e pregiati nomi propri, di chef e di vini; ma dove il fenomeno si fa vistoso e unico è nelle liste, anche di ristoranti di cucina niente affatto italiana. «Pizza», si sa, non è neppure vissuta come una parola italiana e probabilmente è la nostra parola più conosciuta all’ estero, assieme a «ciao». Incuriosiscono di più le onnipresenti offerte di Starbucks per «Cappuccino», ma anche «Caffellatte», in misure come «Grande» o «Venti», fino ad arrivare a un fantastico caffè «Americano» (un po’ come se noi chiamassimo il carattere corsivo italics, come si fa appunto in inglese). Ovunque si trova l’ «Espresso» e la «Pasta», con diverse specificazioni, oltre ai classici «spaghetti»: «ravioli», «tagliatelle» e i commoventi «linguini».

Più elaborati dei sandwich sono i «Panini», che rispetto all’ originale italiano si chiamano così anche al singolare, mentre al plurale possono conseguentemente diventare «Paninis»; avvistata anche l’ insegna «Panini & Pizzetti». Qualche apporto fra le salse, con «Pesto» e «Marinara»; diffusissima la «Ciabatta» nel senso del pane (anche in versione «Semolina Ciabatta»), come anche «Mozzarella» e «Prosciutto». Già Frank Zappa cantava di «Salami», «Zucchini» e «Rosetta» (sempre come pane); il goloso potrà ordinare a New York l’ ortograficamente ineccepibile, e anzi ricercato, «Gianduja» e la perdonabile «Sambucca». E siamo ai dessert. Il «tiramisu» è globalizzato da tempo, ma forse si pensa che sia di origine giapponese come il sudoku, l’ origami e il tofu. Molto presenti i «Biscotti», al singolare come «Panini». Una volta si è fatta notare la precisazione: «Biscotti Cookie».

Apparentemente, individui e aziende italiane che esportano negli Stati Uniti si anglicizzano: gli scrittori – neanche pochissimi – che vengono tradotti; la cantante Elisa che ci sta provando con una sua tournée americana; architetti e finanzieri; cervelli riparati all’ estero e attori volenterosi. E’ probabilmente inevitabile. Ma il caposaldo della culinaria indica, nel suo isolamento, che siamo considerati innanzitutto un paese rurale, i cui unici prodotti esportabili assieme al loro nome sono buone cose da mangiare?

STEFANO BARTEZZAGHI

http://ricerca.repubblica.it

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