Nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale — Lombardi nel Mondo

Nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale

Pubblichiamo la quarta puntata dedicata alla storia del missionario comasco Felice Tantardini, raccontata nel libro di Piero Gheddo “Il santo col martello. 70 anni di Birmania, storia e vita missionaria”. Editrice Missionaria Italiana

La vita missionaria di fratel Felice Tantardini può essere sintetizzata in tre parole: preghiera, lavoro, viaggi (da una missione all’altra). Quando Felice giunge in missione (1922), il vicariato apostolico di Toungoo era esteso 79.800 kmq., poco meno di un terzo della nostra Italia: comprendeva i territori di tre diocesi d’oggi: Toungoo, Taunggyi (archidiocesi staccata dalla missione madre di Toungoo nel 1961) e Loikaw (staccata da Taunggyi nel 1988). Fratel Tantardini percorre molte volte in lungo e in largo questo territorio senza strade e in gran parte inesplorato, per aiutare a impiantare varie residenze missionarie.

Erano viaggi faticosi, a piedi o a cavallo (pochi tratti in camion o in barca), fra colline e valli, su erti picchi, precipizi, in foresta o guadando fiumi senza ponti, sotto il sole cocente o le piogge torrenziali, spesso vittima di morsicature delle sanguisughe che lo facevano sanguinare, a volte incontrando serpenti e bestie selvatiche.

Anche 14 ore a piedi da una missione all’altra

Proverbiale la sua capacità di camminare: era arrivato a superare la velocità dei nativi, portando carichi pesanti sulle spalle. Percorreva anche 40 chilometri al giorno su sentieri impervi, per andare da una missione all’altra, in zone senza strade. Ricordando uno dei suoi viaggi negli anni trenta, Felice scrive: “Allora ero un camminatore formidabile. Partii con quei tre padri, di cui solo due avevano un cavallo: l’altro padre e io facemmo a piedi le necessarie quattordici ore di cammino e arrivammo alle otto di sera alla prossima stazione, Hoya. Fortuna che c’era la luna a rischiararci il percorso. A Hoya i ragazzetti del prete sono tutti cuochi nati, sebbene non ci voglia una grande abilità a preparare i molto frugali pasti del prete. Vestiti poi come sono, poco più che di aria e di luce, questi marmocchi non sono affatto modelli di igiene e pulizia. Debbo dire, tra parentesi, che anch’io non mi sono mai curato della lindura della persona: i miei capelli non hanno mai visto il pettine, né i miei denti hanno mai sentito il profumo di un dentifricio: me li pulisco col carbone. Questo anche in conseguenza della mia lunga prigionia di guerra”.

Un’altra volta, con una guida locale parte da Loilem e va a Hoya per aiutare padre Rovagnati a costruire la sua casa in blocchi di cemento.

“C’erano sette ore di strada da fare a piedi e un fiumaccio da attraversare. Circa due ore prima di arrivare a Hoya il mio uomo, che mi precedeva ad una certa distanza, prese una scorciatoia senza che io lo vedessi e scomparve, piantandomi da solo sulla strada. Era la prima volta che facevo quel percorso; quindi, trovandomi ad un bivio, non sapevo in quale direzione proseguire e restare solo nel bosco, tra quelle gole di monti, fu una brutta sorpresa. Ma la Provvidenza mi venne in aiuto”.

Una donna, che veniva nel senso opposto con una gerla di riso, gli indica un sentiero e gli dice: “Sali fin sulla cima del monte e di là vedrai Hoya”. Giunge ad Hoya con ore di cammino, sudato e ansante, ringraziando il Signore di non essere rimasto in foresta durante la notte. Subito dopo viene mandato a Tithasaw (altre sette ore di cammino), dove rimane circa un mese per mettere i canali sui tetti del nuovo convento.

“Durante questo viaggio, nello scendere da un’erta montagna, perdetti non so come la pipa. Me ne accorsi solo quando, arrivati in fondo, ci fermammo ad un ruscello per prendere un po’ di cibo e di riposo. Questa fu per me una grave perdita, non per il valore materiale, ma per quello sentimentale della mia pipa che, assieme al rosario, è sempre stata e sempre sarà la mia compagna indivisibile. Purtroppo, nonostante accurate ricerche, dovetti abbandonare la speranza di rintracciarla”.

Le avventure dei viaggi sono tante. Andando verso Mushò con un “ometto” più piccolo di lui (che sapeva la strada), giungono ad un grande fiume ingrossato per le piogge di quei giorni. Come al solito è senza ponte. Cosa fare? Tornare indietro dopo tre ore di cammino? Decidono di andare avanti. “Vi scendemmo dentro per guadarlo e tastavamo il fondo per assicurarci che si potesse procedere. Ma più avanzavamo e più profondo diventava. A un certo punto l’acqua mi arrivava al collo, poi ancora un po’ avanti addirittura mi sfiorava la bocca. L’uomo che mi precedeva, essendo più piccolo di me di statura, era già tutto immerso e per alcuni secondi scomparve completamente sott’acqua, lui e il fagotto che portava sulle spalle. Lo vidi subito riaffiorare, prima il fagotto, poi lui.

Quando raggiungemmo l’altra sponda eravamo conciati per bene. Ero tuttavia riuscito a salvare dall’acqua alcuni sigari che avevo messo sotto il casco, ma la scorta di cibo che avevamo portato si era squagliata nel fiume. Riprendemmo la strada e dopo due ore giungemmo ad un villaggio. Ci fermammo all’entrata della chiesa che allora era di bambù. La pioggia, che ci aveva accompagnati fin là, cessò, e da uno squarcio di nubi sbucò un fascio di raggi di sole accolti da noi con molta gioia. Mi ero appena accoccolato per terra al sole, che i cariani mi portarono una pentola di caun” (birra di riso), di cui bevvi alcune tazze ristoratrici. Il mio uomo venne invitato a mangiare in casa loro. Appena fuori del villaggio la pioggia riprese, accompagnata da una fitta nebbia, così fitta che non si vedeva oltre cinquanta passi…

Finalmente, all’imbrunire eravamo a Hoya, in casa del padre, il quale mi porse un paio di calzoni, nei quali ci stavo tre volte, essendo lui un gigante nei miei confronti. Poi accese un bel fuoco per far asciugare i miei panni, che naturalmente si affumicarono un poco… Dopo una giornata di sosta ad Hoya, proseguii per Mushò con altre otto ore di cammino…”.

“Non ho mai avuto paura della lebbra”

Nel 1936 Tantardini viene mandato nel lebbrosario di Loilem, appena iniziato da padre Rocco Perego e dalle suore di Maria Bambina, per fare un impianto di acqua potabile con canne di bambù: presa da una fonte su una collina vicina, l’acqua viene portata dal bambù e distribuita nel piccolo ospedaletto e fra le capanne del lebbrosario. Incanalare acqua di fonte è il primo lavoro e il più urgente. L’acqua potabile eviterà molte infezioni intestinali a beneficio di tutti.

Loilem sorge a 1.400 metri sul livello del mare, in un’amena posizione, circondata da pini: il villaggio dei lebbrosi, afferma Felice, “è il più bello fra i cinque lebbrosari cattolici della Birmania”: un segno importante del lavoro che i missionari hanno svolto e svolgono per la gente più umile e sfortunata. L’annunzio di Cristo, questo vale per tutte le missioni ma in particolare fra i tribali della Birmania, è fatto, più che con prediche, aiutando a rendere più umana la vita dei locali.

Inaugurato nel 1938 col direttore p. Rocco Perego che l’ha costruito e diretto fino all’inizio degli anni ottanta (1), il villaggio dei lebbrosi di Loilem nel 1940 aveva 120 ospiti. Felice è contento di andare a vivere per qualche tempo fra quei poveri fra i poveri e “di spendere un po’ delle mie forze per il loro bene”. Anche scrivendo dei lebbrosi ha una riflessione spirituale profonda.

“Non ho mai avuto paura della lebbra e anche sopporto facilmente l’odore sgradevole che i lebbrosi emanano. La vista delle loro piaghe, di quelle mani e piedi senza dita, di quei moncherini e di quelle facce sformate, non è certo una cosa piacevole, ma chissà quanti di questi infelici hanno l’anima pulita e bella, ammirata dagli angeli, mentre tanti, con il corpo sano, hanno l’anima sfigurata dal peccato e sono oggetto di orrore per gli angeli. Ci sarebbe una forte ragione di andarsene sulla luna per sfuggire al fetore di questa pestilenza che è il peccato, tanto più nauseante della lebbra del corpo”.

I lebbrosi sono di varie etnie, ma convivono pacificamente nello stesso villaggio, uniti dalla stessa sofferenza e speranza di guarigione: cinesi, birmani, shan, cariani, indiani… Sotto la guida di p. Perego e delle suore diventano esperti in vari mestieri: falegnami, muratori, fabbri, agricoltori, ortolani e persino scultori e pittori. Le accoglienti casette in blocchi di cemento, la leggiadra chiesina, l’ospedaletto, l’aula che fa da teatro per le feste e le celebrazioni e da scuola di catechismo, tutto è stato fatto dagli stessi lebbrosi.

“Io feci solo la guglia alla cupola della chiesa in stile birmano – scrive Felice – e il campanile di ferro, sempre però aiutato dai lebbrosi e sempre avendo il tempo strettamente misurato dall’obbedienza”.

A Loilem Felice si ferma un mese, il tempo di finire i lavori per cui era stato chiamato. Poi si rimette in cammino per altre residenze. A pochi chilometri da Mushò, dopo sette ore di faticosa scarpinata per i monti, è colto da “un temporale con acqua, grandine e tuoni così cupi e fragorosi, da sembrare che volessero spaccare la montagna. Correre mi era impossibile: ero troppo stanco. L’ombrello era inutile. Solo il casco mi difendeva la testa dai grossi chicchi di grandine. Per il resto ero tutto inzuppato d’acqua, che mi colava a rigagnoli dalle vesti e fuori dalle scarpe. I due ragazzi che erano venuti con me, essendo più pratici dei luoghi, trovarono rifugio in una piccola caverna, che li difese dalla pioggia e preservò quasi asciutti i vestiti che avevo dato loro da portarmi. Arrivai così tutto bagnato alla soglia della residenza di padre Eugenio Borsano (1890-1959), che mi diede un paio di calzoni e una camicia; ma dopo un’oretta arrivarono i ragazzi con la mia biancheria, che era solo leggermente bagnata, così potei cambiarmi”.

La città di Loikaw con capanne di paglia (1939)

A leggere l’autobiografia “Il fabbro di Dio” (da cui traggo in genere le citazioni di fratel Felice), si resta ammirati e sbalorditi delle fatiche per i continui spostamenti che erano richiesti a fratel Tantardini, con viaggi di decine di chilometri quasi sempre a piedi! Dopo l’avventura del temporale con grandine e acqua a torrenti, riportata nel paragrafo precedente, che Felice subisce del tutto indifeso, il mattino seguente prosegue da Mushò per Loikaw, distante 33 chilometri; fa la strada metà a piedi e metà su un camion di passaggio.

Finalmente eccolo da p. Peano contento di vederlo “e io ancor più contento di essere arrivato sano e salvo”, osserva Felice. Qui si sta costruendo una bella canonica in blocchi di cemento situata in un grande terreno a un chilometro e mezzo fuori della città e anche una casetta per le suore di Maria Bambina, che erano appena arrivate, come infermiere nell’ospedale governativo.

“Allora Loikaw era un grosso villaggio, residenza di un saboà, cioè un principotto di uno dei piccoli regni in cui era diviso lo stato Shan. Vi era pure un ufficiale del governo inglese e mercanti con botteghe fisse, in maggioranza indiani. Ogni cinque giorni vi si fa mercato e vi accorrono dai dintorni venditori con barche cariche delle loro mercanzie, gente di ogni razza e paese per compere o scambio di merci.

Loikaw aveva dunque il nome di città, ma qui si dà tale nome anche a villaggi con una popolazione che non raggiunge neanche il migliaio, purché siano sedi di qualche autorità civile. Certo viene da ridere chiamare città un paese che ha un centinaio di casupole, per giunta di bambù, e con strade così infami che ci vogliono i trampoli per attraversarle durante le piogge. Tale era allora Loikaw (2)”.

A Loikaw padre Bartolomeo Peano (1880-1953) sta costruendo la sua residenza come base di approccio per i villaggi pagani della zona e anche per i missionari sparsi nelle varie residenze all’intorno. Quando Tantardini arriva a Loikaw, i cattolici erano solo il padre, le quattro suore e due donne addette alla brillatura del risone e all’allevamento delle galline e dei maiali.

Il lavoro principale di Felice è di sistemare i canali di scolo dell’acqua sul tetto, far le ringhiere alle scale, una ventina di letti in ferro, alcune inferriate alle finestre, sei altri letti per le suore, dodici lettini con le sponde per i trovatelli assistiti dalle suore e sistemare la stanza adibita a cappella. P. Peano era molto pratico nel costruire in blocchi di cemento: in pochi mesi costruiva le sue case e chiese senza molti disegni e calcoli, eppure le sue costruzioni erano solide e belle.

Infatti, dopo aver finito la residenza di Loikaw, riceve l’ordine di aprire una nuova residenza a Mong Pan, 400 chilometri a nord di Loikaw dove il locale “saboà” invitava ad erigere un convento ed una scuola. Sempre obbediente agli ordini del vescovo, Peano noleggia un automezzo e Felice si offre di accompagnarlo; il saboà li alloggia in un capannone e li invita a cena con lui: buona cena e cordiale conversazione, in cui si discutono i progetti edilizi e l’apertura della missione.

Il giorno seguente, domenica, il padre celebra la s. Messa, poi improvvisano una cucinetta dove preparare i loro pasti. Per letto, due brande portate da Felice. Dopo pranzo il padre fa la siesta e Felice gira per la città dove incontra un ufficiale inglese che l’aiuta a trovare un terreno adatto per iniziare le costruzioni. Felice vi rimane solo pochi giorni, il tempo stabilito dal vescovo, quindi ritorna a Loilem.

Ma, dovendo percorrere centinaia di chilometri a piedi, per strada si ferma in alcune residenze dove c’è sempre qualcosa da fare. A Yadò trova un messaggio del vescovo che lo chiama a Leikthò distante più di cinquanta chilometri: percorso che abitualmente copriva in 12 ore e in una sola giornata di cammino, naturalmente portando sulle spalle i suoi attrezzi. Ma questa volta le gambe lo tradiscono, pernotta in un villaggio e arriva a destinazione alle otto del mattino del giorno seguente. Chiede subito del vescovo, che si trova in visita pastorale in un villaggio vicino. Va a trovarlo e riceve una nuova destinazione: Toungoo, il punto da cui era partito quasi vent’anni prima.

“Passai la notte in quel villaggio, dormendo sulla predella della chiesetta di bambù, nella quale però non c’era il Santissimo. Al mattino seguente mi incamminai verso Toungoo. Arrivai che mi bruciavano i piedi. Da Mong Pan a Toungoo, dall’uno all’altro estremo della missione, sempre a piedi e senza tregua: era stato un viaggio proprio massacrante”.

Felice si ferma sei mesi a Toungoo, cioè fino al luglio 1940, quando riceve l’ordine di recarsi ancora a Loilem.

“Fermatomi là un paio di mesi, fui mandato a Loikaw e di là a Toungoo, sempre attraverso i monti e a piedi. Passando da Hoya dovetti fermarmi qualche giorno per mettere a posto le canne, che si erano ingorgate. Altra breve sosta a Yadò, dove una frana aveva rovinato le canne di bambù”.

Avventure con i giapponesi durante la guerra (1942-1944)

Finalmente, a metà del 1940, arriva a Toungoo, dove ha una brutta sorpresa: un insolito assembramento di giovani padri del Pime, provenienti dalla missione di Toungoo e da quella di Kengtung; una trentina, cioè tutti quelli che non avevano ancora dieci anni di missione. Erano stati concentrati per ordine del governo inglese, in seguito all’entrata in guerra dell’Italia.

“Questi 30 giovani missionari, sparsi sui monti e nel profondo delle foreste, quasi ignari della guerra nel mondo, si capisce che costituivano un formidabile pericolo per l’Impero britannico. Tant’è vero che la paura fa impazzire anche un elefante davanti ad un moscerino!”.

Quando l’Italia entra nella seconda guerra mondiale (giugno 1940), nelle loro colonie gli inglesi lasciano libere le suore ma internano i missionari italiani: i più giovani nei campi di concentramento in India (una trentina), alcuni fra gli “anziani” (cioè con più di dieci anni di Birmania) a Kalaw, città climatica: qui erano concentrati sei di Toungoo e sette di Kengtung, mentre a Toungoo il vescovo e diversi missionari erano riusciti a restare nelle loro sedi. Con l’entrata in guerra del Giappone (dicembre 1941) e l’invasione giapponese della Birmania (aprile 1942), essendo l’Italia alleata del Giappone i missionari di Kalaw sono liberati e tornano alle loro missioni, trovandole spesso distrutte, con i cristiani dispersi. Il paese è attraversato da militari inglesi e dai loro alleati birmani e cinesi, e poi da giapponesi e siamesi (thailandesi).

Torniamo a Toungoo. All’inizio del gennaio 1942 i giovani missionari italiani sono portati alla stazione ferroviaria di Toungoo e di là in treno fino a Rangoon; poi, in nave, verso il campo di concentramento in India. La fulminea rapidità dell’avanzata giapponese, alleati dell’Italia, blocca il piano di internare a Kalaw quasi tutti i missionari più anziani.

Felice rimane libero e realizza un lavoro particolarmente apprezzato per la sua pratica utilità. Con la sua abilità nel lavorare il ferro, costruisce blocchiere (sul modello della italiana “Rosacometta”) che servono a fare blocchi e blocchetti di cemento per case, chiese, scuole: il metodo di costruzione più solido e a buon mercato. Ne costruisce sette, subito distribuite fra i distretti missionari; in seguito ne prepara altre in modo che tutte le stazioni con un padre residente ne avevano una. Felice se ne costruisce una per sé.

All’inizio del 1942 padre Rocco Perego e fratel Tantardini sono invitati da mons. Usher, vicario apostolico di Bhamo (nel nord della Birmania), e dai padri irlandesi di san Colombano che avevano là una fiorente missione. Qui Felice porta la sua blocchiera e si mette subito all’opera costruendo mattoni e tegole fino ad esaurimento del cemento ed anche perché l’avanzata giapponese blocca i piani edilizi della missione. Intanto la guerra continua: la popolazione inglese e anglo indiana si rifugia in India e gli inglesi che avevano invitato in Birmania i cinesi dell’esercito nazionalista di Chang Kai-shek, promettendo loro di fermare assieme l’avanzata del comune nemico, sono sbaragliati dai giapponesi che fanno di loro un’ecatombe (non tenevano prigionieri).

Durante l’occupazione giapponese della Birmania (aprile 1942 – agosto 1945) i missionari del Pime rimangono ai loro posti e mons. Usher, che come irlandese era neutrale nella seconda guerra mondiale, rimane anche lui sul posto con molti dei suoi missionari (solo quelli di nazionalità inglese riparano in India), anche se poi i giapponesi li mettono a residenza sorvegliata, praticamente in prigione. Mons. Usher assegna a padre Perego ed a fratel Tantardini diverse incombenze fra le residenze del suo vicariato apostolico.

Ne “Il fabbro di Dio”, Felice racconta in modo minuzioso le sue avventure e spostamenti nella missione di Bhamo: da una missione all’altra a riparare porte e finestre, sistemare muri pericolanti, mettere lamiere sui tetti che lasciano passare l’acqua, impiantare piccoli acquedotti con canne di bambù, esercitare l’arte del fabbro e del falegname, ecc. Passa da Bhamo a Mainkat, poi a Giomò, a Pak’, Nalain, Kudon, ecc.

Va detto che proprio fratel Felice, con la forte predisposizione che aveva per le lingue, impara subito un po’ di giapponese e riesce a sbrigarsela con ufficiali e militari nipponici, che da parte loro si sforzavano di parlare inglese. Entra nelle loro simpatie, è riconosciuto e rispettato da tutti e anche aiutato nelle necessità delle missioni e dei missionari. Un fatto veramente strano, forse unico fra tutti i missionari del Pime in Birmania, i più fortunati dei quali, come padre Clemente Vismara, internati dagli inglesi a Kalaw e poi, liberati dai giapponesi, ritornano alle loro missioni e non si muovono più fino alla fine della guerra.

Felice invece è in perpetuo movimento anche in questi anni tumultuosi, senza destare sospetti nei sospettosissimi giapponesi!

Negli ultimi anni di guerra infatti, sotto il dominio della terribile polizia militare giapponese (“Kempetai”), alcuni missionari del Pime, accusati di essere spie degli inglesi, sono battuti e torturati: mons. Erminio Bonetta (vicario apostolico di Kengtung, 1881-1949), battuto sul volto, perde quasi del tutto la vista; fratel Pietro Manzinali (1902-1975) subisce ferite e conseguenze gravi; padre Gerolamo Clerici (1905-1967) è torturato crudelmente, ridotto a pelle e ossa. Non avendo più sue notizie lo si ritiene morto, quando ritorna dopo la guerra appare come un risorto. I thailandesi, alleati dei giapponesi, pensavano di stabilire il buddhismo anche fra i tribali, iniziando una vera persecuzione contro i cristiani, specialmente contro i catechisti.

A Bhamo liberano vescovo e missionari irlandesi

Nella sua autobiografia Felice è discontinuo. Come vedremo in seguito, ha scritto “Il fabbro di Dio” negli anni cinquanta per ordine del suo vescovo mons. Alfredo Lanfranconi. Il libro, testimonianza preziosa su questo santo fratello missionario, non è un’opera storica e nemmeno un diario. Felice scriveva quel che ricordava, senza preoccuparsi molto dei tempi e di ambientare storicamente le sue avventure. Infatti non cita quasi mai l’anno in cui si snoda il suo racconto. Non importa, i fatti che ricorda sono autentici e significativi, anche indipendentemente da quando sono successi.

Nel periodo della sua permanenza nella missione di Bhamo, mentre la guerra furoreggiava (compresi bombardamenti aerei da parte di americani e inglesi), Felice e padre Perego trasferiscono cinque suore italiane di Maria Bambina e cinque loro ragazze da Paké a Nalain, posto più sicuro. Giungono al fiume Tapain il cui ponte in legno era inservibile essendo bruciato: per fortuna trovano una colonna di militari giapponesi che con i loro barconi li traghettano dall’altra parte. Il giorno seguente Felice ritorna a Paké e porta a Nalain le altre cinque suore, tutte felici di trovarsi di nuovo assieme.

Ma vengono a sapere che un’ultima suora italiana, suor Francesca, è rimasta isolata nella residenza di Kudon. Perego e Tantardini vanno, a piedi, a Kudon e la persuadono ad andare con loro a Bhamo per farle avere un lasciapassare giapponese.

“Venne dunque assieme ad una suora nativa, con un carro a buoi sul quale intendevamo recarci a Nalain, da dove avremmo proceduto con un camion fino a Bhamo. La strada era in pianura, ma attraverso il bosco. Le due suore presero posto sulla parte anteriore del carro, p. Perego e io seguivamo a piedi e a volte sul carro. C’era la luna che permetteva di vedere la strada e le buche da schivare. Dopo circa un’ora di cammino, ecco sbucare da un viottolo sette figuri dalle facce torve, con in mano coltellacci che luccicavano sinistramente al chiarore lunare.

Seguivano dietro al carro senza dir parola e così per circa due chilometri. Dissimulando la mia paura, ogni tanto rivolgevo loro qualche domanda su cose indifferenti: ma loro davano una risposta secca e poi tornavano muti. Io non lasciavo un istante di sgranare la mia corona. Finalmente essi svoltarono in una stradicciola e scomparvero. Fortuna che le suore non si accorsero mai di loro. Io penso sia stata la Madonna a salvarci. Dopo tre ore di trepidazione, arrivammo a Nalain che erano le dieci di sera”.

I giapponesi insistono perché Perego e Tantardini si trasferiscano da Nalain a Bhamo con le suore italiane, offrendo ai due missionari una bella casa e alle suore il convento prima occupato dai militari. Quando sono a Bhamo, visitano regolarmente il vescovo irlandese, i suoi missionari e le suore a domicilio coatto, ma con una certa libertà di contatti con l’esterno.

“Dopo alcuni mesi, riuscimmo a intercedere per loro e ottenerne la liberazione e allora, non essendo più necessaria la nostra presenza a Bhamo, prendemmo la via del ritorno alla nostra missione”.

Ma le avventure del tempo di guerra non sono finite. Invece di andare direttamente da Bhamo a Toungoo (in treno o in camion) passando per la via più sicura e rapida di Mandalay, i due missionari passano per Namtu e Lashio, per visitare quelle missioni affidate al Pime e i loro confratelli, e andare a Loilem, sede del padre Perego. Intanto, un cattolico a cui avevano salvato la vita dona loro due camions e un’auto. Partono con questi mezzi, portando con sé le suore italiane, le loro ragazze e le loro proprietà.

Per strada incontrano gruppi di profughi diretti in India, che muoiono di stenti e di fame: ne caricano più che possono sui camions trasportandoli per 50-60 chilometri, poi le strade divergono. Alle otto di sera giungono a Lashio e incontrano padre Pietro Manghisi, futuro martire (1899-1953). Col permesso dei giapponesi proseguono per Loilem, dove giungono al lebbrosario di padre Perego: “200 lebbrosi con le suore che, durante l’assenza del padre, si erano prodigate per quei poveretti”. Felice vi si ferma quindici giorni, sistemando l’acquedotto e facendo altri lavori, poi con un viaggio di due giorni va a Toungoo dal vescovo.

“A Toungoo i fabbricati della missione e del convento – un vero fiorente villaggio – erano stati tutti rasi al suolo dai cinesi in ritirata, sobillati da un fanatico ministro battista. Rimaneva in piedi solo la cattedrale, chiesa in legno, vetusta di cent’anni, ma ancora in buono stato. Il seminario con l’annessa chiesa e i fabbricati della tipografia anch’essi tutti bruciati. Per il resto la città era quasi ancora intatta e ora si veniva ripopolando, i treni ripresero le loro corse, insomma la vita sembrava tornata normale”.

“Una cura dimagrante non necessaria”

Dopo alcuni mesi la guerra torna a imperversare in Birmania, con incursioni aeree sempre più frequenti: fratel Santo Pezzotta, che soffriva di cuore, deve rifugiarsi sui monti, dove pure era il vescovo, mons. Alfredo Lanfranconi, in visita pastorale. A Toungoo rimangono padre Ziello, un gruppetto di orfani e fratel Felice, che lavora come sempre a ritmi intensi: raccoglie quel che si può ancora utilizzare dell’antimonio, residuo dei caratteri tipografici, lo fonde in grossi pani e lo sotterra; poi prepara in cattedrale una nuova tomba per mons. Sagrada, perché la prima, colpita da una bomba nella chiesa di S. Teresa del Bambino Gesù, era stata danneggiata: in processione, con p. Ziello, le suore della Riparazione e i ragazzi portano l’amato vescovo nella nuova dimora. Cerimonia solenne, come un nuovo funerale.

Una notte, durante un bombardamento aereo, ben 9 bombe incendiarie cadono sul convento dove sono alloggiate le suore, ma nessuna scoppia! Il mattino seguente, alle 11, giorno di mercato, Toungoo è devastata dalle bombe degli aerei inglesi e americani (che venivano dal Bengala indiano). Mezz’ora di bombardamento, un massacro: circa 420 vittime. Due ore dopo, altri aerei bombardano ancora la città, lanciando anche bombe antipersona, il cui scoppio produceva uno spostamento d’aria tale da sembrare una scossa di terremoto. In uno di questi scoppi, Felice prende un tale spavento che gli dura più di due anni, fino alla fine della guerra.

“Il solo ronzio o rombo di un aereo mi procurava una tremarella tale, da comunicarla anche alle lamiere delle pareti della mia officina alle quali mi tenevo appoggiato durante il bombardamento. All’urto di una tale bomba la cattedrale si sfasciò. Rimasero in piedi solo le colonne di legno, il tetto con il soffitto e la parete a ridosso dell’altare. Il resto – pareti, finestre, porte – crollò e fu ridotto in frantumi”.

Restare in città era davvero impossibile, decidono di andare in un villaggio cattolico a circa tredici miglia da Toungoo. Prima di lasciare definitivamente la città, a Felice viene un’idea che lui chiama “ispirazione”: salvare ad ogni costo la tela del Sacro Cuore, un’opera d’arte arrivata dall’Italia 50 anni prima che troneggiava sulla pala dell’altare maggiore della cattedrale.

“Mi recai, dunque in chiesa, presi una scala di ferro a pioli, e l’appoggiai sulla parete a fianco del quadro. L’artistica cornice in legno, grande e pesante, non era agevole, né del resto necessario, asportarla. Tagliai con una vecchia lama da rasoio la tela vicino alla cornice, la stesi sul pavimento, l’arrotolai e in tutta fretta la portai al villaggio. Ancor oggi non so spiegarmi come la scala, che era di ferro e poggiava sul pavimento di cemento, non sia scivolata e caduta. Certo avvertivo il pericolo, ma non c’era tempo da perdere. Mi raccomandai al mio Angelo custode e con il suo aiuto potei mettere in salvo questo bel quadro, che dopo la guerra fu rimesso nella sua splendida cornice reindorata ed è tuttora ornamento della cattedrale di Toungoo”.

Alla nuova residenza, il villaggio di Donoku, dovettero recarsi di notte per evitare i raids diurni ma fu un viaggio disastroso, su carri trainati da buoi che portavano masserizie e orfanelli e ad un certo punto anche p. Ziello, che con la sua ernia non riusciva più a camminare. Felice fa tutto il viaggio a piedi. Con le strade, piene di buche, i carri senza molle sobbalzano continuamente e impediscono ai viaggiatori di dormire. Ad un certo punto della notte, la luna è oscurata dalle nubi e nel buio pesto si sente l’urlo di un bambino: “Tébi! Tébi!” (Sono morto! Sono morto!). Il piccolo Giorgetto era riuscito ad addormentarsi, ma un sobbalzo più forte degli altri lo scaglia in alto e finisce a terra, mettendosi a piangere e strillare. Felice se lo mette sulle spalle e lo porta così fino a Donoku.

Alcuni giorni dopo arrivano anche le suore con una ventina di orfanelle. Nel villaggio di Donoku rimangono fino alla fine della guerra. Un lungo soggiorno che è “propizio per una buona, sebbene non necessaria, cura dimagrante”: il vitto consisteva in riso cotto in acqua con un po’ di verdura, ossia erbe fornite dal bosco e alcune gocce d’olio; niente carne, né pesce, né uova, anche se orfani e orfane si industriavano a catturare animaletti dei boschi (topi ad esempio, uccellini nei loro nidi) o qualche pesciolino pescato nei torrenti. Gli adulti, specie Felice, avvertivano pesantemente la continua tensione nervosa per l’incertezza della situazione e per i bombardamenti e mitragliamenti lungo le poche strade.

Nonostante questa situazione fratel Tantardini non rimane inattivo. Nel bosco vi è tanto legno teak, tronchi già tagliati o sradicati dal vento. Ottenuto il permesso dalle autorità giapponesi e con l’aiuto di qualche contadino del posto, ma soprattutto con la forza delle sue braccia, li porta alla missione, li sega e con questi costruisce due edifici in legno, uno per gli orfanelli, l’altro per le orfane: lavoro fatto con l’accetta, la sega e con chiodi confezionati da lui stesso usando del filo di ferro! Trova anche lamiere già usate, ma ancora buone.

“Ripensando allo sfacchinare di allora, mi meraviglio come abbia potuto resistere, estenuato com’ero dalla cura dimagrante. Fu appunto in uno degli eccessivi sforzi fatti nel trascinare a casa i tronchi che contrassi l’ernia, da cui non mi sono mai potuto liberare, nonostante ripetute operazioni. Però tiro avanti con un bel cinto – un po’ rustico, perché imbastito da me stesso – che io chiamo la cintura dei forti”.

Altro impegno di quel tempo, di grande utilità, è la manifattura di zoccoli. Ne confeziona molti per le suore e per se stesso. Le scarpe erano poche e le usavano per andare in chiesa o per viaggi lunghi, dato che non era facile camminare, come i locali, a piedi nudi su terreni sdrucciolevoli e fangosi. Anche con gli zoccoli si facevano capitomboli, ma ci si abitua a tutto.

Non più amici, ma nemici dei giapponesi (1943-1945)

Questa situazione disagiata, ma almeno pacifica, cambia dopo il settembre 1943.

“Della resa di Badoglio fummo informati dai giapponesi, quando vennero a portarci il funesto annunzio che ormai eravamo diventati, di punto in bianco, loro nemici e perciò eravamo in arresto. Una squadra di soldati venne ad assediare i nostri locali, piazzando mitragliatrici nei punti più strategici. Poi portarono noi preti e suore in una stanza e ci rivolsero un indirizzo in giapponese (tradotto poi in inglese), per spiegarci il capovolgimento della situazione e intimarci che quanto prima avremmo dovuto essere internati a Toungoo, noi, il vescovo e i padri italiani residenti sui monti, che noi stessi avremmo dovuto richiamare giù con urgenza”.

In pochi giorni padri del Pime e suore della Riparazione sono tutti concentrati a Toungoo, in alloggiamenti di fortuna per l’insufficienza dei locali della missione salvatisi dai bombardamenti. Convocati alla sede della “Kempetai” (la polizia militare), vengono informati sulla situazione in Italia e sono invitati a firmare un foglio in cui dichiarano di accettare il governo Mussolini, rifiutando quello di Badoglio (“un asino” dichiara l’ufficiale giapponese). I missionari firmano senza difficoltà. Mons. Lanfranconi fa notare che Toungoo è un luogo poco sicuro, essendo bersaglio di molte incursioni aeree. L’ufficiale cinicamente risponde: “Morite pure!”. Felice aggiunge che qualche tempo prima, un ufficiale giapponese “vedendomi allarmato alla comparsa di aerei, mi aveva detto: Ma perché avete paura di morire, voi che credete nel Paradiso nell’altra vita? Vedete come noi giapponesi siamo pronti a morire per il nostro Imperatore!””.

E’ di questo tempo un episodio che Tantardini definisce “comico, ma poco mancò che per me riuscisse tragico”. All’inizio dell’occupazione giapponese, la polizia aveva compilato, su informazioni attinte dalle suore, una lista di tutte le suore italiane. Quando gli italiani diventano “nemici”, i giapponesi vogliono controllare quella lista e chiamano fratel Felice alla Kempetai. Seduto fra una decina di ufficiali, al povero fratello viene letto l’elenco e lui deve confermare la giustezza dei nomi e se ci sono altre suore non segnate.

Felice è confuso: i nomi italiani erano pronunziati con una pronunzia orribile e soprattutto lui non conosceva i cognomi di tutte le suore. Ma non c’è verso di farlo capire: Felice deve conoscere tutte le suore, altrimenti boicotta la Kempetai!

“Cominciai a tremare perché capivo di poter essere sospettato di frode e sapevo bene che con quella gente non c’era da scherzare, pronti com’erano a fustigare anche a sangue chiunque avesse destato sospetto. La vertenza era circa la madre Ada, il cui nome figurava due volte nella lista. Io conoscevo una suora con questo nome, ma non ero in grado né di confermare né di negare l’esistenza di un’altra suora omonima. La discussione, ossia la ripetizione delle stesse domande da parte loro e delle stesse risposte da parte mia, si prolungò senza alcun risultato dalle nove del mattino alle due del pomeriggio. Ammirabile la loro pazienza, ma anche la mia. Ero digiuno dalla sera precedente e non mi diedero né cibo né un sorso d’acqua, benché facesse un caldo afoso… Comunque, tanto per finirla, ammisi che c’era una seconda madre Ada e così il doppio nome rimase nella lista. Ero contento di averla passata liscia, cioè senza sperimentare le delizie delle torture giapponesi”.

Ma, solo poco tempo dopo, il doppio nome di madre Ada mette di nuovo nei pasticci Felice. I giapponesi vogliono ricontrollare la lista delle suore e si accorgono subito che la seconda madre Ada non salta fuori.

“Non c’è dubbio, dicono i giapponesi, è scappata! Sarà già in Italia! Starà già tramando ai danni del Giappone! E questo fratello Felice rimasto qui dev’essere complice: arrestiamolo senz’altro!”.

Tantardini è portato alla Kempetai e pensa: “Essere prigioniero dei giapponesi significa, prima o poi, lasciarci la pelle”. Si raccomanda alla “cara Madonna”, ma sa che il semplice sospetto di aver ingannato la Kempetai è già una sicura condanna a morte. Per fortuna l’ufficiale giapponese (“la gente buona c’è dappertutto”, commenta Felice) capisce che Tantardini non c’entra per nulla, s’impietosisce della situazione in cui si trova e lo fa liberare. Ma intanto la Kempetai manda un dispaccio a Tokyo e da Tokyo lo rimandano a Milano, indirizzato alla polizia tedesca: controllate per favore, presso le suore della Riparazione in via Carlo Salerio a Milano, cosa sta facendo una certa madre Ada, se sta boicottando il Giappone e la guerra dell'”Asse Tokyo-Berlino-Roma”… Felice e gli altri missionari vengono a conoscere questa amenità solo a guerra finita. Ci ridono su, ma Tantardini ringrazia ancora una volta la sua “cara Madonna”.

“Dopo essere stato sulla soglia dell’altro mondo…”

Intanto la situazione a Toungoo diventa allarmante. Una serie di bombardamenti a tappeto distruggono quel che rimane della città. Tutti fuggono verso le foreste e i monti. I missionari si recano in delegazione al comando giapponese chiedendo di essere trasferiti in un’altra cittadina non sottoposta agli attacchi aerei, ad esempio a Yedashe, 17 miglia da Toungoo, dove la missione aveva una casa e la scuola per catechisti ora vacante. Il trasferimento è concesso.

Lasciano Toungoo nel pomeriggio, a piedi, con due carri tirati da buoi per portare pentole, tegami e stoviglie, un po’ di biancheria, arredi sacri, e qualche padre o suora anziani o ammalati. Fanno il viaggio in due tappe. A 5 chilometri vi è una specie di masseria della missione: una casa colonica con una cucinetta. Si accomodano alla meglio nel granaio, sul pavimento cosparso di paglia, riposano, ma non dormono. Alle tre del mattino, Felice prepara una bella pentola di caffè. Tutti ne bevono un po’ e riprendono il viaggio.

Il giorno dopo si accorgono che neppure Yedashe è troppo sicura: un bombardiere inglese piomba sulla stazione ferroviaria per mitragliare un treno appena arrivato, facendo parecchie vittime di cui una è portata dalle suore per il pronto soccorso. L’aereo però è sceso troppo a bassa quota, precipita e si fracassa, il pilota è catturato.

I giapponesi passano una certa somma per il vitto che i missionari acquistano dai locali. Felice si offre di fare il cuoco per i missionari. Proposta accettata e Felice commenta: “Immaginatevi un fabbro con le mani callose e sordide improvvisarsi cuciniere, per di più con la carestia che regnava allora! Il menu era elementare: riso cotto nell’acqua, un po’ di pesciolini freschi puliti in qualche modo e trinciati (non c’era carne in vendita); un po’ di verdura o di lenticchie, condite con scarso olio. Portavo a tavola pentola, padella e tegame e ognuno si serviva a piacimento. Meno male che i missionari non sono buongustai!”.

Il nuovo campo di concentramento a Yedashe dura solo otto giorni. Un nuovo comandante della Kempetai, cattolico, buon uomo, pone fine all’internamento perché, “dice nel congedarci, la religione è anche un potente fattore di disciplina civile, per cui voi potete giovare alla causa dell’ordine vivendo in mezzo alla vostra gente, più che stando rinchiusi in un campo”.

Così il vescovo, 5 padri e molte suore possono tornare alle loro stazioni sui monti, mentre p. Ziello con fratel Felice vanno a Donuku con grande gioia delle suore e novizie di quel distretto. A Toungoo erano concentrate una trentina di persone, in maggioranza cattolici, tenute in prigione solo perché di discendenza più o meno inglese (anglo-indiani). Questi cattolici, assieme agli altri pochi residenti in città, formavano una discreta comunità che padre Ziello visitava ogni mese.

“Toungoo era quasi deserta anche in pieno giorno. Percorrendo la strada principale non si vedeva anima viva, nemmeno cani randagi. La missione e il convento, già centri fiorenti con i loro numerosi edifici, ora erano un cimitero su cui si ergeva solitaria la chiesa – cioè gli avanzi che ne restavano in piedi, come s’è detto – e il mio campanile di ferro con la sua croce… Sui volti della rara gente che s’incontrava era dipinta l’interna tristezza e turbamento: scomparso ogni sorriso. E si faceva fatica a incoraggiare!”.

Dopo qualche settimana scoppia un’epidemia che in pochi giorni porta alla tomba. A Donoku, in due settimane muoiono tre suore, due giovani e una anziana. Chi era colpito accusava di solito verso sera mal di testa, poche ore dopo entrava in coma con un rantolo ininterrotto che si protraeva fino a uno-due giorni e cessava solo con la morte. Questo malore prende anche fratel Felice che racconta:

“Mi trovavo a casa da solo, essendo il p. Ziello a Toungoo per la visita mensile ai cattolici. Una sera mi ero appena messo a letto, che ebbi la sensazione di essere disteso su un braciere ardente, impotente a muovermi o a parlare. Poi persi i sensi e non rinvenni che dopo due giorni e due notti. Il mattino dopo le suore (come mi riferirono) non vedendomi né in chiesa né in casa, vennero nella mia stanzetta e mi trovarono in quello stato. Non so quali cure mi prestarono, ma so che non ci fu miglioramento. Il polso era lento e il respiro quasi impercettibile. Allora scrissero un biglietto a p. Ziello che era sulla via del ritorno da Toungoo: gli descrivevano i sintomi della malattia e gli suggerivano di consultare il medico della missione, un indiano, che allora si trovava in una bonzeria situata in quei paraggi.

Era il tempo del solleone birmano. Il padre rifece i suoi passi (parecchi chilometri), a piedi, fino alla bonzeria. Il medico non si sentì di venire personalmente a visitarmi (per non interrompere il suo ritiro spirituale buddhista), ma diede una ricetta. Arrivato a casa, il padre mi trovò nelle stesse condizioni, che si potevano definire disperate. Non so quali rimedi ancora mi diedero le suore, ma trascorsi così un’altra notte.

Il mattino seguente mi destai, aprii gli occhi che erano rimasti tutto il tempo serrati, e non capivo dove mi trovavo e che cosa era avvenuto. Vidi la porticina della stanzetta aperta e provai ad alzarmi e camminare, ma le gambe non mi reggevano. Appoggiandomi alla parete e quasi accoccolato, mi trascinai fin sulla verandina. Avevo la faccia stravolta e mi sentivo intontito, ma dopo alcuni giorni di convalescenza tornai normale. Dico la verità: dopo essere stato sulla soglia dell’altro mondo, quasi mi spiaceva di essere stato richiamato indietro nel mondo terrestre”.

Le ultime avventure prima della liberazione (1945)

Intanto la guerra continua implacabile, ma si avvicina la fine e la sconfitta del Giappone. Dal sud della Birmania avanza l’esercito inglese, che comprende anche truppe canadesi, indiane, africane e i famosi battaglioni dei “gurka” nepalesi, combattenti nati specie per regioni montuose e di giungla come la Birmania. All’inizio del 1945 i giapponesi debbono ritirarsi anche da Toungoo e fuggendo verso il Siam alleato si sparpagliano nei villaggi della regione cariana, proprio quelli assistiti dai missionari del Pime.

Un certo sabato, una banda di fuggiaschi giapponesi arrivano a Donoku e intimano ai missionari, alle suore e a tutti gli abitanti di sloggiare: requisiscono il villaggio.

“Era il pomeriggio di un sabato. Le suore erano riluttanti a lasciare il loro nido, ma una scarica di colpi di mortaio su un villaggio a poca distanza dal nostro le fece rinsavire. Quella notte credo che nessuno chiuse occhio, per paura ma anche per fare il più fagotti che era possibile. Il giorno seguente, alle tre del mattino, ascoltata la santa messa, ci incamminammo verso un altro villaggio. Le suore presero alloggio nella chiesetta, padre Ziello e io nella veranda di una casa privata. Verso le quattro del mattino seguente una squadra di aerei inglesi volò sopra Donoku e lo mitragliò a lungo. I giapponesi non ebbero vittime perché si erano trincerati fuori del villaggio: ormai padroni di Donoku, si diedero ad arraffare tutti i polli ed i maiali che trovarono in giro”.

Anche in questo frangente Felice rischia la morte: la “cara Madonna” ancora lo salva in modo quasi miracoloso. Le suore avevano lasciato nella loro casa a Donoku le coperte con cui coprirsi nelle fredde notti in foresta. Lo dicono a padre Ziello, che manda Tantardini a ricuperarle. Il fratello sa che è un’impresa difficile, quasi disperata: poteva essere sospettato di essere una spia e fatto fuori senza tanti complimenti. Come al solito obbedisce.

Arriva a Donoku del tutto deserto, ma mentre si avvicina alle case dei padri e delle suore, un ufficiale giapponese gli si para dinnanzi con la pistola spianata. Chiama un soldato che gli punta la baionetta alle reni. L’ufficiale chiede al fratello se ha una mappa per trovare la direzione verso Moulmein (città del sud Birmania ai confini con la Thailandia). Felice risponde che nella scuola delle suore ci sono delle carte geografiche.

Si avviano al convento, dove già alcuni giapponesi stanno saccheggiando le stanze del pian terreno. L’ufficiale ripone la pistola nella guaina, affida Felice al militare con la baionetta innestata e si mette a rovistare nelle aule scolastiche per trovare una cartina geografica. Il soldato lo aiuta e sembrano quasi dimenticare la presenza di Felice. Il quale, lesto lesto, sale al piano superiore della casa di legno, dov’erano i dormitori delle suore e delle ragazze. Prende una grande coperta, la stende per terra e vi mette dentro più coperte che può, ben arrotolate; ne fa un grande fagotto e lo getta da una finestra sul retro della casa.

Poi, col cuore che gli batte forte, scende pian piano la scala e passa nella sala in cui ufficiali e militari stanno svaligiando gli armadi: nessuno lo vede, esce dalla porta, abbranca il suo fagotto e si butta con tutta la forza che ha in corpo in un sentiero in foresta, correndo a perdifiato per una ventina di minuti.

Poi si ferma perché il cuore gli scoppia. Posa per terra il grande fagotto, vi si distende sopra e riposa per una decina di minuti “fin che il cuore si calmò”. Poi riprende il cammino e nel pomeriggio giunge al villaggio in cui padre Ziello e le suore erano rifugiati. Accolto con grande gioia, “consegnai tutto alle suore. Poi cena, rosario e a letto. Faceva un caldo soffocante”.

Felice Tantardini è veramente un uomo fuori dell’ordinario. Dopo la difficile esperienza di ricuperare le coperte per le suore a Donoku, qualche giorno dopo si reca ancora nello stesso villaggio per prendere gli arredi sacri, temendo che venissero saccheggiati o distrutti dal fuoco. Entra con cautela a Donoku e ancora i militari giapponesi lo arrestano. Felice ricorda:

“Guardai di fronte a me alla vicina foresta con i suoi alberi giganteschi e pensai che mi avrebbero legato a uno di quei tronchi e con una baionettata o due mi avrebbero finito, come solevano fare con le persone sospette. Mi sentivo già nelle carni la fredda lama della baionetta… Strano, io mi sentivo non solo calmo, ma quasi felice di dover forse incontrare a momenti la morte… I miei custodi mi spianarono il fucile contro, quasi mi sfioravano con le baionette innestate e intanto scrutavano ogni mia mossa. Forse, se avessi dato qualche segno di paura, sarebbe stata per loro una prova della mia colpevolezza, cioè che fossi un inglese. Ero impaziente che facessero presto a mandarmi in paradiso ed ero già pronto a dir loro, nella loro lingua: Arigatò!” (grazie!)”. E ancora una volta la “cara Madonna” lo protegge, lo salva. Un ufficiale giapponese gli chiede come mai si trova in quel villaggio, Felice risponde con calma, racconta, spiega, la tensione crolla e finisce che il fratello offre un buon caffè caldo ai giapponesi, che va a preparare in missione.

“Andai dalle suore, ne preparai una marmitta e l’addolcii con abbondante zucchero di cui sapevo che i giapponesi sono ghiotti. Portai il caffé e ne bevvero prima l’ufficiale che l’aveva chiesto, poi gli altri sopravvenuti. In un batter d’occhio cinque litri di caffé furono tracannati fino all’ultima goccia”.

 

(1) Rocco Perego, “Loilem, Quarant’anni fra i lebbrosi”, Emi, Bologna 1974, pagg. 127.

(2) Loikaw è oggi capitale dello stato federale di Kayah, quello più cristianizzato della Birmania: su 200.000 abitanti, i cattolici sono poco più del 25%.

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