Bruno, australiano con Mantova nel cuore — Lombardi nel Mondo

Bruno, australiano con Mantova nel cuore

La Gazzetta di Mantova racconta la sua storia: 70 anni nella terra promessa, pensando sempre ad Ostiglia. Ecco un breve racconto della vita di Bruno Ravagnani

MAGNACAVALLO. Bruno Ravagnani (nella foto a sinistra) è nato a Correggioli di Ostiglia. Era il 1915, il paese scosso dal fremito della guerra alle porte. Quella di Ravagnani era una famiglia povera, tante bocche da sfamare. Una vita di stenti, campando con il poco che dava la terra. «Ogni tanto arrivavano le lettere della zio materno» dice l’arzillo 85enne. «Dall’Australia. Raccontavano di lavoro che c’era, mentre da noi si pativa». Lo zio era partito nel nove, anche lui richiamato da quell’Eldorado lontano e quasi mitico.

Una terra promessa che il governo regalava, tutta buona per essere lavorata.Così, finita la guerra, nel 24 parte il padre Archipo. Dopo cinque anni, mentre infuria la grande crisi, tutta la famiglia prende la strada dell’incognito. «Il viaggio me lo ricordo come fosse ieri» racconta. «Quaranta giorni di nave, sull’Orient Line. Ancora oggi rivedo il canale di Suez, poi la fermata a Colombo, sull’isola di Sri Lanka. Quindi Melbourne, Brisbane e Sidney».

L’Orient Line è carica di speranze e di disperazione. Gente che non aveva mai visto il mare, sradicata dalla propria terra, catapultata a decine di migliaia di chilometri da casa. «Mia madre ha sempre continuato a parlare il dialetto mantovano» dice sorridendo Ravagnani «e io penso sempre a Ostiglia. Ma nella zona dove sono andato, il Queensland, al Nord, in molte zone la maggioranza dei residenti era immigrata. Interi paesi parlavano mantovano, veneto, bresciano. Ci si trovava tutte le sere agli hotel a giocare a bocce, a carte». E’ una piccola Italy australiana. Ma l’integrazione che piano piano avanza subisce un duro colpo nel 40′. «Era l’11 luglio. L’Italia dichiarò guerra all’Inghilterra e da noi 7mila immigrati vennero arrestati in un solo giorno. Eravamo considerati nemici» dice, mentre gli occhi s’inumidiscono. «Io ho fatto quattro anni in un campo d’internamento più il lavoro coatto. Ma non sono stato trattato male e ho avuto la fortuna di conoscere gente colta che mi ha trasmesso la passione per lo studio».

Così Bruno Ravagnani inizia a lavorare e alla sera studia. Completa a 28 anni il liceo e quindi s’iscrive a psicologia. Intanto decide di dedicarsi agli altri immigrati creando una scuola dove volontariamente insegna inglese e che sarà presa a modello dei futuri istituti governativi.

E l’integrazione? «In un paese anglosassone gli italiani sono visti con diffidenza, perché è gente che si dà da fare, che lavora il doppio e raggiunge posti di responsabilità. Ho dovuto rinunciare al mio cognome, trasformato in Ravel per farmi assumere nell’azienda dove poi sono diventato direttore. Se non l’avessi fatto mi avrebbero destinato a spazzare la fabbrica. Ma sono orgoglioso di quello che l’Australia ha fatto e anche d’essere italiano. Quando sono arrivato qui facevo lo stalliere ed il tagliatore di canna da zucchero. Oggi mio figlio Adriano è avvocato e Marco è conferenziere universitario».

Quanto basta per decidere di non tornare in Italia, per fare dell’Australia la seconda patria dopo tanto sudore e fatiche oggi ripagate. «Ma io e i miei figli ci sentiamo italiani. Anzi di più: sono mantovano».

 

Roberta Bassoli

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