Schiavi di Hitler — Lombardi nel Mondo

Schiavi di Hitler

Quest’anno, 69° anniversario del terribile bombardamento del 2.12.1944 sul Bacino della Ruhr, riportiamo una testimonianza tratta da «Gli I.M.I» (Trento,1955) con un breve commento del curatore Bruno Betta.
Schiavi di Hitler

Cimitero Hagen

 

La notte del 2 dicembre 1944, a causa di un bombardamento sul Bacino della Ruhr, morirono a Dortmund, Hagen, Bochum, Essen, Duisburg (e negli altri centri minori) centinaia di civili e di internati militari di diverse nazionalità. Nella città di Hagen furono più di 50 le vittime tra gli internati militari italiani. I loro resti, oggi, riposano nel cimitero di Hagen-Delstern.

In più occasioni Lombardi nel Mondo ne ha dato notizia. Quest’anno, 69° anniversario di quella terribile notte, riportiamo una testimonianza tratta da «Gli I.M.I» A.N.E.I – Federazione Provinciale di Trento (1955) con un breve commento del curatore, Bruno Betta.

 

I nostri morti

 

«I morti fra gli IMI in Germania raggiungono un numero che oscilla fra i 50.000 e i 60.000.

[…] I nostri morti, comunque siano morti – per mitragliamento e bombardamento aereo, per malattia, per t.b.c., per estenuazione, perché fucilati dai detentori – sono morti con l’animo decisamente determinato a resistere, col capo fieramente eretto contro chi ingiustamente infieriva senza umanità, e talvolta, con sadica barbarie, sono morti sognando un’altra nuova epoca di intesa e di pace, di solidarietà e di giustizia, in cui fosse rispettata la dignità umana, fossero tolti i privilegi che hanno divisi gli uomini e i popoli, sono morti carezzando in cuore i propri cari, la mamma, la moglie, i figli.

Col loro estremo sacrificio essi sono testimoni, da una parte, della durezza della vita imposta dai nazisti e spesso della loro disumanità, e, dall’altra sono esempio della forza d’animo popolare, e talvolta degli ideali più alti d’amor patrio, per la costituzione d’una società migliore. E sotto questo aspetto essi ci ammoniscono a non tradire per opportunismo e per comodità egoistica quegli ideali di giustizia e di libertà che erano allora così luminosi nell’intimo di tutti e ci facevano desiderare d’essere in avvenire i fondatori di questa società nuova, ispirata prima di tutto, nella nostra personale condotta, all’amore fattivo e operante dell’uomo verso il proprio prossimo, alla vera solidarietà, all’opposizione a qualsiasi forma di sopruso, di arrangismo, di disonestà.

Se potessero risorgere, oggi, che cosa ci direbbero? Siamo noi stati, ciascuno nel nostro posto, fedeli all’impegno che avevamo preso insieme a loro, lì fuori?

Essi sono per noi i taciti, ma sempre presenti ammonitori a tener fede all’impegno che avevamo preso di essere d’esempio nella vita civile e politica, nel rinnovato clima del dopoguerra, in patria e nell’Europa, e per migliorare le condizioni del nostro popolo e costruire un avvenire migliore, in una società resa migliore dalla nostra volontà.

Non dimentichiamo il monito loro. Allora, soltanto, essi vivranno, perché noi ne avremo mantenuto vivo lo spirito nella nostra stessa vita, con la nostra condotta e le nostre azioni. Questo solo è il modo di onorare i nostri morti, e di mostrare che essi non sono dimenticati».

Bruno Betta (op. cit., pag. 207-208

 

L’artigliere Notar-Angelo Carlo di Felice racconta:

«Ho lavorato presso la Ditta Putzalaie in Dortmund (costruzione carri armati e pezzi d’apparecchi) dal 28 ottobre 1943 al gennaio 1944. Il lavoro era molto pesante e si svolgeva in turni di 12 ore coll’interruzione di una sola mezz’ora per consumare l’unico rancio caldo (rape e acqua) della giornata. Il trattamento da parte dei sorveglianti e operai tedeschi era bestiale, poiché senza tener conto delle nostre menomate forze fisiche per la fame, punivano ogni arresto sul lavoro o scarso rendimento dovuto alla fame stessa ed alla stanchezza come pure alla scarsa pratica, con busse, bastonature d’ogni genere e perfino col gettarci addosso specie in inverno dei secchi d’acqua gelata. Io stesso ebbi più di una volta ad essere picchiato e asperso d’acqua quale «soldato di Badoglio» – come essi ci chiamavano. La sveglia al campo N. 1011, dove eravamo circa 600 italiani, avveniva dalle ore 2 alle 2½ di notte e venivamo fatti partire alle 5½ dimodochè arrivavamo in fabbrica alle sei. Lo spazio di tempo tra le due e le cinque e mezzo veniva occupato dai tedeschi con un appello nominale all’aperto anche d’inverno con l’evidente scopo di tormentarci giacché facevano contrasto con i loro guanti, pellicciotti e stivali i nostri pochi stracci che ci ricoprivano. All’uscita del campo venivamo presi in consegna da 5 o 6 polizei della ditta – che ci accompagnavano al lavoro. I polizei a loro volta punivano chi di noi non stesse allineato o non portasse il passo, qualunque ne fosse la causa col prendere nome e cognome e segnalarlo al comandante del campo, un maresciallo tedesco che faceva rimanere il soldato così denunziato senza la razione di pane giornaliera, o senza sigarette, o senza, companatico e in più lo bastonava. Si rientrava al campo di ritorno dal lavoro alle ore 18, si consumava prima d’andare a dormire la razione giornaliera di pane e companatico. Il vitto era scarsissimo: un rancio caldo di rape di circa un litro, un filone di pane in sette (280 gr. circa) e un po’ di companatico (pochi grammi di margarina o di salame o di marmellata). Le conseguenze di tale trattamento disumano si fecero ben presto sentire e posso attestare che nel periodo che trascorsi nel detto campo ho visto con i miei occhi portare al cimitero circa 400 miei compagni morti di fame e di freddo. Oltre a ciò vi era pure il nostro capo baracca, un sergente maggiore, del quale non ricordo il nome, che fungeva pure da interprete e che ho visto morire in seguito t.b.c a Fullen, che ci maltrattava peggio quasi dei tedeschi. Riferisco due episodi che possono dare un’idea del suo modo di fare nei nostri riguardi.

Un giorno egli è venuto a sapere che 4 miei compagni avevano mormorato contro di lui dicendo che egli facendo camorra sui nostri viveri (difatti li ritirava lui dalla cucina tedesca) era riuscito a comperarsi una bicicletta (era in possesso di una), gambali, orologi ecc. lo riferì al polizei tedesco e questo lo autorizzò a picchiare i 4 malcapitati, cosa che egli eseguì di persona denudandoli fino alla cintola, e picchiandoli con un nerbo di gomma e facendoli rimanere in prigione per 4 giorni senza pane. Così il giorno di Natale del 1943 col pretesto che avevo dei pidocchi (e tutti ne avevano poiché la pulizia non si poteva mai fare) mi fece rimanere all’aperto sotto la pioggia per tutta la distribuzione del rancio, facendomi inoltre rimanere senza, tanto che il maresciallo tedesco del campo, impietosito forse data la ricorrenza del S. Natale, mi regalava una parte di quello della cucina della truppa tedesca».

(op. cit., pag. 72-73)

 

a cura di Luigi Rossi (Bochum)

www.luigi-rossi.com

 

 

Gli I.M.I. – Italiener Militär Internierten

A.N.E.I

Federazione Provinciale di Trento

1955

A cura di Bruno Betta

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