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Sud America oggi

In Sud America il 2009 si è chiuso con tre elezioni presidenziali dagli esiti diversi: due più “scontate”, la conferma di Morales in Bolivia e la vittoria di Mujica in Uruguay, e l’affermazione, dopo 50 anni, della destra in Cile con Piñera. Quali i punti comuni di questi processi elettorali all’apparenza diversi tra loro? Di Alfredo Somoza

In Sud America il 2009 si è chiuso con tre elezioni presidenziali dagli esiti diversi: due più “scontate”, la conferma di Evo Morales in Bolivia e la vittoria di Pepe Mujica in Uruguay, e l’affermazione, dopo 50 anni, della destra in Cile con Sebastiàn Piñera.

 

 

Quali i punti comuni di questi processi elettorali all’apparenza diversi tra loro?

 

Anzitutto si conferma l’orientamento dell’elettorato sudamericano verso un voto di centro-sinistra/sinistra, anche nell’incredibile caso cileno. Sebastiàn Piñera, vincitore al secondo turno per 5 punti sul rivale Eduardo Frei della Concertaciòn, al primo turno sarebbe stato sconfitto se le forze che si richiamano al centro e alla sinistra (democristiani, socialisti e radicali) avessero raggiunto un accordo sul candidato della coalizione. A portare a una scelta perdente è stato il maldestro tentativo dei vertici dei due partiti maggiori di mantenere congelati nel tempo – dopo 20 anni! – gli equilibri creatisi nel dopo Pinochet. Dopo due mandati successivi di socialisti (Lagos e Bachelet) era “il turno” di un democristiano. E quel democristiano era Eduardo Frei, già presidente negli anni Novanta e sicuramente il politico della transizione più a “destra” dell’ultimo ventennio. Frei infatti non viene ricordato come un progressista, ma piuttosto per essere stato il più strenuo difensore del modello neoliberale ereditato da Pinochet e per le sue amicizie “pericolose” nella regione sudamericana, come quelle con l’argentino Carlos Menem e il peruviano Alberto Fujimori, gli alfieri del neoliberismo corrotto e, nel caso peruviano, criminoso, degli anni Novanta.

 

La scelta di non passare per elezioni primarie interne alla coalizione per scegliere il candidato, che avrebbe sicuramente escluso di nuovo i democristiani dal potere, è stata accettata dai socialisti in nome della governabilità. Il problema è che un socialista, Marco Enriquez Ominami, non è stato al gioco e candidandosi a sorpresa da solo ha strappato il 20% dei voti a Frei (fermo al 29,5%). Se a questi voti si aggiunge il 5,5% ottenuto dai comunisti, l’intero schieramento di centro sinistra al primo turno ha portato a casa, con tre candidati, oltre il 53%. Maggioranza persa al secondo turno, nel quale molti elettori delusi si sono astenuti dal voto.

 

Così, dopo 50 anni, la destra cilena festeggia il ritorno al potere e lo sdoganamento sia del partito che fa capo al pinochetismo, l’UDI, sia del nuovo presidente, considerato “il Berlusconi cileno” per via dei suoi interessi nel mondo dell’industria, dei media e dello sport. Ma qual è stata la promessa elettorale di Piñera che più ha convinto i suoi elettori? Una promessa “di sinistra”, o almeno di quel centrosinistra che aveva finora governato in Cile, cioè di non ostacolare il mercato, che in questa nazione è liberissimo, mantenendo le politiche sociali a favore dei settori più deboli della popolazione introdotte dalla Bachelet. In sostanza promettendo la continuità con il modello della transizione coniugata con la novità di una destra più attenta al sociale e che si dissocia del neoliberismo selvaggio. Se si aggiunge l’aspetto spettacolare della figura di Piñera, ricco e famoso, si ha la fotografia completa di un successo che poteva essere stoppato, come accaduto quattro anni prima, quando venne sconfitto dalla Bachelet (donna, ex detenuta, ragazza madre e atea): sarebbe bastato un candidato unico tramite elezioni primarie tra gli ottimi giovani presenti nell’arena politica cilena (come appunto Ominami). L’altissimo indice di gradimento dell’uscente Bachelet non è bastato a trainare il candidato della Concertaciòn. Ciò conferma il fatto che non esistono eredità politiche di successo che possano servire a sostenere un candidato sbagliato. Su questo punto il brasiliano Lula ha molto da riflettere. Basterà il suo carisma per far vincere le elezioni del 2011 a Dilma Rousseff, la debole candidata del PT?

 

In Uruguay invece la vittoria di Pepe Mujica segna sì una continuità rispetto al governo uscente del Frente Amplio, ma in realtà la figura del nuovo presidente, la sua storia e la sua collocazione sono così distanti, almeno in apparenza, da quelle dell’uscente Tabaré Vazquez che si può dire si sia guadagnato da solo la carica di presidente. La candidatura di Mujica è emersa infatti da elezioni primarie nelle quali il candidato designato da Vazquez era l’economista Danilo Astori. Mujica, esponente dell’ala della coalizione che fa capo agli ex-guerriglieri Tupamaros (e che include anche comunisti, socialisti e democristiani), dopo essersi affermato alle primarie, con grande spirito di coalizione, ha offerto la candidatura a vicepresidente allo sconfitto Astori. La destra riproponeva invece l’ex presidente Luis Lacalle, alfiere del neoliberismo tipico degli anni Novanta. La terza forza, i Colorados, si è rivelata un flop al primo turno ed è stata esclusa dal ballottaggio, dove Mujica ha vinto bene.

Il caso uruguaiano conferma ancora una volta, come il Cile perso dal centrosinistra, che l’elettorato sudamericano è ormai adulto e vaccinato e rifiuta le sirene del neoliberismo, votando a destra soltanto davanti a garanzie di “moderazione” rispetto agli eccessi del mercato. Dimostra anche quanto siano salutari per il centrosinistra le primarie. Conferma inoltre l’importanza dell’unità tra le forze progressiste e sancisce la grande rilevanza, nella scelta del candidato, della personalità dello stesso: Mujica, fondatore dei Tupamaros, guerrigliero urbano, detenuto e torturato, nonostante negli ultimi anni avesse ricoperto la carica di presidente del Senato, non ha mai rinunciato alla sua genuinità e semplicità, conquistando una popolarità tale da oscurare le critiche e le diffidenze di molti settori dell’elettorato rispetto al suo passato da guerrigliero. Così come Piñera rappresenta l’uomo di successo, l’imprenditore che si è fatto da solo, Pepe Mujica è quello che parla come mangia, che potrebbe essere il vicino di casa, che non ha mai rinnegato i suoi ideali e del quale ti fideresti a occhi chiusi.

 

Il terzo fronte elettorale si è rivelato in realtà un plebiscito. Evo Morales si candidava al rinnovo della massima carica dello Stato in base alla nuova Costituzione, la quale dichiara la Bolivia uno Stato multietnico, federale e socialista. Il cambiamento più radicale nella storia non soltanto del Paese sudamericano, ma dell’intera regione. Morales è stato confermato con una percentuale altissima, il 63%, anche se il suo è stato prevalentemente un voto indigeno (gli indigeni sono il 62% della popolazione) e concentrato nelle province dell’altopiano. La novità è che questa volta c’è stato anche un certo consenso dei ceti medi, favoriti da alcune misure redistributive messe in atto da Morales. Il suo primo mandato è stato infatti caratterizzato, oltre che dai problemi con le province ricche delle terre basse, da una politica di riappropriazione da parte dello Stato della principale ricchezza del Paese, le risorse minerarie. La rinegoziazione al rialzo del prezzo del metano che la Bolivia esporta in Brasile e Argentina, la nazionalizzazione del sottosuolo e delle miniere di litio (il 50% delle riserve mondiali) e l’aumento dei prezzi dei minerali hanno moltiplicato le entrate, le quali non sono state soltanto destinate a nuovi servizi per i cittadini, ma anche erogate sotto forma di prestiti agevolati ai piccoli e medi imprenditori nazionali. È stata migliorata la ridistribuzione del reddito e l’economia boliviana è cresciuta. L’altro dato da non dimenticare è che, per la prima volta nella storia, gli indigeni – dopo 500 anni di esclusione – sono entrati simbolicamente e concretamente nella gestione dello Stato. In Bolivia la chiave della vittoria di Morales è stata quindi una politica redistribuiva intelligente, basata anche sulla gestione pubblica dei beni comuni e sull’inclusione nella vita politica dei soggetti più deboli. Qualcosa di molto simile allo schema tradizionale della socialdemocrazia europea di 50 anni fa, che però diventa oggi quasi rivoluzionario in un contesto economico e sociale desertificato da secoli di sfruttamento e da decenni di neoliberismo predone. In questo contesto non è stata meno importante la figura di Evo Morales, sindacalista, indigenista convinto, uomo di sinistra sempre coerente, lavoratore infaticabile, mai sfiorato da accuse di corruzione. Anche lui, come Piñera e Mujica, ha rappresentato l’uomo nel quale potersi identificare, in questo caso soprattutto per milioni di indigeni.

 

Quali sono i punti in comune dei tre processi elettorali? Il ruolo centrale della figura pubblica e privata del candidato, la partecipazione popolare all’elezione del candidato, la novità della sua proposta, la riscoperta della militanza (anche per la destra cilena), il rifiuto del neoliberismo selvaggio, l’unità della coalizione che sostiene il candidato (il Frente Amplio in Uruguay, l’alleanza della destra cilena e il MAS boliviano). Queste analisi non escludono il fatto che la vittoria della destra cilena avrà una sua influenza in tutto il Sud America, soprattutto togliendo dal suo isolamento la Colombia di Uribe; bisogna tenere conto però che il Cile, in politica estera, è sempre stato un Paese autonomo rispetto al resto del continente. Nella regione, per le forze di centrosinistra, le cose cambierebbero, e di molto, se nelle prossime elezioni di ottobre tornassero al potere i neoliberisti in Brasile. Ma è ancora presto per immaginare come andrà a finire nel gigante sudamericano.

 

Alfredo Somoza (ICEI)

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