Il tango “creolo” o quello “gringo”…? — Lombardi nel Mondo
Il tango “creolo” o quello “gringo”…?
Benché Jorge Luis Borges facesse finta di non sentirsi attratto da nessuna espressione popolare, il suo acutissimo sguardo e la sua imparagonabile sensibilità ci hanno lasciato definizioni da non perdere.
Il maestro della letteratura argentina si lamentava che il tango avesse cambiato quel suo coraggio originale per un pianto decadente e inverosimile, indegno del “guapo orillero” di fine secolo.
Borges pensava che ciò si sarebbe dovuto alla differenza tra il tango “creolo” e quello “gringo”. Forse perché, il creolo (miscela tra spagnolo e indiano), amava la libertà e si rifiutava delle regole, mentre il gringo (immigrante italiano) amava la famiglia e la terra ormai lontanissima che non rivedrebbe mai più.
Nel parlare del coraggio, Borges sembrava fare riferimento allo spirito indomito del maschio furbo e borderline, sempre disposto alla rissa e a battersi in duello per la sua morosa.
Nel parlare del coraggio, Borges sembrava fare riferimento allo spirito indomito del maschio furbo e borderline, sempre disposto alla rissa e a battersi in duello per la sua morosa.
Invece con quel pianto decadente, inverosimile e indegno del “guapo orillero”, voleva affermare il fatto della nostalgia, la solitudine e la rassegnazione degli emigrati italiani.
Dopo questa disquisizione vorremmo parlare sullo stretto rapporto tra gli italiani e quel linguaggio culturale, che oltrepassa i confini stessi del Rio de la Plata.
Francesca Toti, autrice di “La vera storia del tango argentino”, afferma: “Ballo ibrido di gente ibrida, il Tango si nutre di attriti e vittimismi. Le sue canzoni celebrano l’ombra del non detto, la malinconia di cose perse e lontane, le sfumature dell’indecisione come scelta. Non a caso il suo sigillo musicale è il bandoneon, strumento dal suono denso e dal fraseggio frammentario, il cui pianto lancinante influenza molto il modo di cantare.”
Paradossalmente, agli inizi il tango era ballato tra uomini soli, poi passo ai bassifondi di Buenos Aires già in coppia eterosessuale per recarsi finalmente nei salotti più eleganti dell’Europa del Novecento.
Questo percorso tanghistico intorno al suo vero stile, scatena delle liti tra il tango “arrabalero” cioè di periferia e quello di salotto.
Mettiamo il caso di Alberto Salvador De Lucca, un ragazzo che faceva una carriera lampo negli anni ‘40 sfidando tutti i canoni dell’epoca con uno stile molto singolare di messa a punto precisa, tono provocatorio e fraseggio assai particolare.
Alberto era il quinto figlio dell’italiano Salvatore De Lucca e Lucia Di Paola, nato il 7 dicembre 1914 in via Juan Bautista Alberdi 4700 del quartiere Mataderos, Buenos Aires. Esempio vivente dell’ascesa sociale dei figli di emigrati italiani ha una laurea in medicina, specialità ginecologia.
De Lucca faceva parte dello staff medico sportivo della squadra calcistica del Club Atletico Velez Sársfield -di cui era tifoso proprio “da curva”- e contemporaneamente alternava lo studio medico con il canto del tango alla radio.
Questa doppia carriera non durava di molto e trovava un nome d’arte più creolo: Alberto Castillo, di grande sensibilità e identificazione con i settori popolari, allontanandosi un po’ dagli altri. Ecco perche il suo grande successo fu e lo è ancora oggi “Así se baila el tango“:
Qué saben los pitucos, lamidos y shushetas,
qué saben lo que es tango, qué saben de compás?
Aquí está la elegancia, que pinta, que silueta,
que porte, que arrogancia, que clase pa’ bailar
Queste critiche parole per forza scatenavano delle liti di grande portata con dei pitucos (uomini vani), lamidos (quelli un po’ manierati di pettinatura leccata) e shushetas (del genovese sciucetto: informatore).
Più in avanti, il maestro Ricardo Tanturi, perso Alberto Castillo, trovava Enrico Troncone, sostituto ideale per la sua orchestra che alternava presentazioni dal vivo con trasmissioni di radio.
Anche lui di origine italiana, Enrico Innocenzo Troncone, era figlio di emigrati italiani, nato il 10 marzo 1913 a Montevideo, Repubblica Orientale dell’Uruguay.
Aveva un’inclinazione naturale per il canto, presenza e personalità, voce diversa e fraseggio melodioso.
Come nel caso di De Lucca, il nome gringo doveva essere cambiato per uno più creolo. Infatti, il maestro Tanturi, cercando sull’elenco telefonico di Buenos Aires, disse: ”Eccolo qua, d’ora in poi Lei si chiamerà Enrique Campos”.
Campos fu forse il primo a usare il baffo -sfoggio di virilità in culture maschiliste- sui palcoscenici tanghistici di Buenos Aires e Montevideo, poi lo seguirebbero Edmundo Rivero e Roberto Goyeneche.
Uomini vani, manierati di pettinatura leccata, sciucetti e baffoni maschilisti continuarono a scontrarsi nel variopinto orizzonte tanghistico del Rio de la Plata.
Non solo, l’atteggiamento del cantatore contava anche il fraseggio che faceva parte importante del tango argentino; l’indiscusso, l’intoccabile, l’indimenticabile “Zorzal criollo”, quel che ogni giorno cantava meglio, passava all’immortalità anche per il suo fraseggio cosi particolare.
Non solo, l’atteggiamento del cantatore contava anche il fraseggio che faceva parte importante del tango argentino; l’indiscusso, l’intoccabile, l’indimenticabile “Zorzal criollo”, quel che ogni giorno cantava meglio, passava all’immortalità anche per il suo fraseggio cosi particolare.
Pero, Carlos Gardel non era italiano… certo, per quello che si sa, era nato l’11 dicembre 1890, a Tolosa, Francia.
Comunque, serve analizzare qualche sua canzone per trovare un fraseggio pressoché romanesco.
Romanesco? Sta a scherzà? Mi dirà qualcuno.
Calma, mo vi dico perché.
Nell’ascoltare con cura alcune sue canzoni, mi sono reso conto che Carlitos spesso utilizza la R al posto d’altre lettere, per lo più la N o la L, qualche volta anche al posto della M. Forse per far più facile l’intonazione e impostazione della voce senza forzare di troppo la respirazione. C’è chi dice che il fatto di questa pronuncia con la R andava incontro ai precarissimi mezzi di registrazione dell’epoca.
E’ vero che la voce, nelle prime registrazioni, era condotta attraverso un corno in cui il cantante doveva introdurre quasi tutto il volto. Ci volevano quindi delle consonanti forti perche quelle deboli potevano non rimanere incise.
Sarebbe bellissimo che, i nostri utenti, nel leggere quest’articolo ascoltassero simultaneamente la colonna sonora per capire meglio quello che sto dicendo.
Siamo pronti? Bene, analizziamo un po’ le parole dell’ormai leggendario pilastro musicale gardeliano “Mi Buenos Aires querido” cioè Mia cara Buenos Aires.
Mi Buenos Aires querido, cuaRdo yo te vueRva a ver,
no habrá más penas ni olvido.
El farolito de la calle en que nací, fue el ceRtinela de mis promesas de amor,
bajo su quieta lucecita yo la vi, a mi pebeta luminosa como un sol.
Hoy que la suerte quiere que te vueRva a ver, ciudad porteña de mi único querer,
oigo la queja de un baRdoneón, dentro del pecho pide rienda el corazón.
Mi Buenos Aires, tierra florida doRde mi vida terminaré.
Bajo tu aRparo no hay desengaño, vuelan los años, se olvida el dolor.
…
La veRtanita de mi calle de Arrabal, donde sonríe una muchachita en flor;
quiero de nuevo yo voRver a contemplar aquellos ojos que acarician al mirar.
En la cortada más maleva una caRción, dice su ruego de coraje y de pasión;
una promesa y un suspirar borró una lágrima de pena aquel caRtar…
O ascoltiamo “El dia que me quieras”:
Acaricia mi eRsueño, eR suave murmullo de tu suspirar
como rie la vida si tus ojos negros me quieren mirar
Y si es mio el aRparo de tu risa leve que es como un caRtar
ella aquieta mi herida, todo todo se oRvida
el dia que me quieras la rosa que engalana se vestirá de fiesta
con su mejor color y al viento las caRpanas diran que ya eres mia
y locas las foRtanas se coRtaran su amor
la noche que me quieras, desde el azul del cielo las estrellas celosas
nos miraran pasar y un rayo misterioso hara nido eR tu pelo
luciérnagas curiosas que verán que eres mi coRsuelo
Que dire di “Volver”
Volver, con la freRte marchita,
las nieves del tiempo platearon mi sien
seRtir, que es un soplo la vida,
que veinte años no es nada
que febril la mirada, erraRte en las sombras
te busca y te nombra
Terig Tucci, nel suo libro “Gardel a New York”, ricorda che Gardel inseriva nel suo repertorio canzoni napoletane come Marechiare di Salvatore Di Giacomo e Paolo Tosti.
Anche il tenore Tito Schipa si sorprendeva di come Gardel potesse cantare in dialetto napoletano con tanta autenticità.
Benché non esistesse alcuna registrazione di quella canzone, cantata alla radio dal vivo, esiste invece la registrazione di un’altra canzone napoletana interpretata da Carlos Gardel: Como se canta en Napoles, (Comme se canta a Napule) di E. A. Mario, incisa da Gardel nel 1931.
Pare che l’11 settembre dello stesso anno, Gardel cantava in pubblico questa canzone e subito era accusato, dai puristi, di allontanarsi dallo stile creolo.
Non so chi abbia ragione però il tango argentino continuerà ad appassionare al di qua e al di la dell’oceano Atlantico.
Di Jorge Garrappa Albani – 13/02/2016
jgarrappa@hotmail.com – jorgegarrappa@gmail.com – www.jgarrappa.blogspot.com.ar
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