Una strana, immensa compassione – di Renato Zilio

Rabat. Una strana, immensa compassione: ecco cosa provo. Alla sera, uscendo di casa, chiudo il portone e getto un occhio al muretto accanto. Nascosto dalle auto in sosta, sul marciapiede, accovacciato come un cane c’è Ibrahim. Oppure Mohammed insieme a un amico, oppure Abdesalam… insomma, giovani migranti subsahariani, forse appena maggiorenni. Hanno in testa un sogno, un’idea fissa, inchiodata alla mente: arrivare in Europa. Leccano una scatoletta di sardine o succhiano uno yogurt strizzato tra le mani: miserabilissima cena. Hanno invece fame e sete di dignità. «La dignità umana ha la caratteristica di essere assente proprio là dove si presume sia presente, e di comparire sempre dove non c’è» annota Karl Kraus.

Pare una vera scommessa fatta a sé stessi, alla famiglia, alla loro gente: riuscire a passare in Spagna, vivi o morti, inchallah! Assaltano dieci, venti volte le tre barriere spinate alte sette metri e un sistema di sicurezza a tutta prova come quello di Ceuta. Raramente con successo. Non hanno niente da perdere. Hanno solo un immenso coraggio incosciente, una giovinezza da barattare con la libertà. Mentre ti parlano, tirano gli occhi a destra e sinistra, sospettosi di tutto. Possono cadere d’improvviso in una retata e venire trasportati all’istante ai confini con l’Algeria o verso il deserto. Anche se il Marocco ha la noblesse di permettere di vivere nel suo territorio senza documenti…

Vite giovani che fanno compassione. Sanno che questo Paese è solo un corridoio (dove possono rimanere bloccati mesi o anni). Vengono da lontano, attraversando Niger, Mali, Algeria, deserti e frontiere. Vivono sotto un sole che brucia la testa e le spalle, stendendo la mano per strada per un dirham. Vi si avvicinano, senza parole, con un’espressione umile, supplichevole. «Per avere la dignità bisogna passare per tante indegnità» scriveva qualcuno. A fine giornata, si ritrovano in tasca il valore di due, tre euro, a volte nulla. Una vita raminga che fa solo compassione.

«Père, il n’y a pas de choix!», Padre, non c’è scelta!, mi dicono convinti e rassegnati. Riuscire a convincerli a tornare a casa si rivela missione quasi impossibile. Tanto, laggiù nessuno li aspetta. Anzi, nessuno li vuole rivedere. Giovani maledetti. Costretti ad andare avanti contro tutto e tutti. Vivono, dormono, mangiucchiano e si muovono come animali, avvistati già da lontano, perché di pelle nera. Sono i combattenti di oggi per la dignità. Per una vita degna di essere vissuta. Ed è paradossalmente la loro colpa. Sanno di essere loro – giovani in fuga per anni – la speranza delle loro famiglie; non possono permettersi cedimenti. Persino i vescovi di laggiù alzano la voce contro questa emorragia giovanile, che screma ancor più i loro paesi e li impoverisce. «Fate delle proposte, dateci delle alternative!» incalzano loro, senza però avere risposta. Come missionario, nomade e migrante io stesso per oltre quarant’anni in paesi diversi, dove si parla francese o inglese o anche arabo, in Europa e in Africa, il cuore mi si stringe. Questi giovani combattenti mi tormentano l’anima: lottano contro i mulini a vento della nostra indifferenza, per la vita e per la morte.

Mi faccio in quattro per spiegare loro che l’Europa non è il Paese di Bengodi. Racconto ciò che sento da giovani senegalesi, togolesi… arrivati al di là, proprio nel mio territorio veneziano. Arrivati via mare, tra mille peripezie, mi chiamano e mi raccontano. Al telefono l’altro giorno Mamadou mi urlava: «Père, qui si vive da schiavi!». Sono accatastati in un “campo”, una grande e vecchia casa, una settantina di giovani, varie nazionalità, in stanze da nove materassi con un solo bagno, il breve permesso di soggiorno quasi scaduto. La cooperativa dà loro da mangiare, scaricando il cibo una volta al mese, che loro stessi cucinano. Mi inviano la foto di una dose mensile a testa: 5 patate, 3 cipolle, 1 vasetto di conserva di pomodoro, 1 litro d’olio, 1 scatola di piselli, qualche biscotto… niente riso che loro adorano, niente frutta, niente carne. «Per giovani che mangerebbero il mondo!» come si dice dalle mie parti. Ricordo che il nonno paterno era ben più sollecito per il nutrimento dei suoi animali.

La logica del controllo e della verifica dello Stato, che trovo all’estero, da noi pare utopia. Ma neanche questo convince a demordere i giovani migranti di qui. Anzi, l’altro giorno erano in tanti, durante la loro preghiera, a gridare «Hurrà!», perché uno di loro era riuscito a saltare in Spagna. Domenica prossima invece faranno «il sacrificio» per Abdullah, diciotto anni, scomparso l’altra notte in mare. La notizia è corsa qui subito come un fulmine. Ognuno porterà qualcosa per un grande pasto insieme con delle preghiere musulmane.

Emigrare è un fenomeno individuale, ma anche un fatto collettivo: qui lo si tocca con mano. E come missionario mi viene spesso in mente la storia dei Re magi. Dopo aver camminato infinitamente per monti e per valli, inseguendo una stella, hanno condiviso con gioia i loro tesori. La stella per questi giovani è l’Europa. «Perché è il Paese dove ci si rispetta» mi fa uno di loro. Lo guardo negli occhi. Occhi belli e randagi, di una giovinezza calpestata nella sua stessa terra: senza opportunità, senza lavoro, senza prospettive, senza avvenire. E i loro tesori? Sì, la loro gioventù, la voglia di fare, il desiderio immenso di ogni migrante di riuscire, di prendere in mano la propria vita, il senso di responsabilità per una famiglia rimasta indietro e da aiutare. Sì, perché il miracolo è compiuto: sono arrivati finalmente in Europa! Arrivati da noi i loro doni li si getta a terra, li si butta tra le immondizie. Diventano giovani di scarto. Persino della lingua italiana, per una recente ordinanza, se ne scoraggia l’insegnamento. Facendo rivoltare nella tomba quel famoso scrittore portoghese che scriveva «La lingua è la terra dove ci si incontra». Si preferisce forse non l’incontro, ma lo scontro? Si opta per lo scarto? Si prepara forse una società selvaggia, ai margini dell’umanità. Questa compassione che mi prende, in fondo, si chiama vergogna. Provo vergogna. Si dice: «L’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è l’unico ad averne bisogno».

Mi torna in mente l’enorme emozione e la sorpresa di Rachid Benzine, marocchino, caduto per caso un giorno nella lettura del Vangelo. Lo scrive nel suo libro pubblicato in Francia. Caduto su Matteo. 25, non riusciva a capacitarsi: «E il Re della gloria dirà: “Ero straniero e mi avete accolto…». «Ma come è possibile! Ma che grande uomo! Un re che si identifica con i miserabili, i bisognosi, gli ultimi della terra!». Sì, forse questa pagina del Vangelo ci è ancora sconosciuta. Ma il tempo del giudizio di Dio sull’amore verrà. Parola del Signore.

 

Renato Zilio, missionario in Marocco

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