Van de Sfroos a Mantova — Lombardi nel Mondo

Van de Sfroos a Mantova

L’artista cresciuto sul Lago di Como e nella città virgiliana per un concerto rilascia un’intervista alla Gazzetta di Mantova in cui parla, tra l’altro, del suo rapporto con il dialetto lagheé

“Pica!”, urlavano i minatori di Frontale, in Alta Valtellina, per incoraggiarsi a vicenda ad aggredire la roccia. “Pica!”, canta oggi Davide Van De Sfroos dalle rive del Lago di Como.
 Davide Van De Sfroos, è il suo momento d’oro. “Pica!” resiste in classifica, in aprile ha fatto il tutto esaurito al Datch Forum di Assago e ovunque vada riempie le piazze. Che effetto le fa?
 «Vivo questo momento come uno di quei coltivatori che hanno lavorato col bel tempo e con la grandine, sempre nel nome della credibilità. Dopo tot anni questa cosa mi ha premiato, nel senso che, rimanendo fedele alle mie scelte e facendo crescere i suoni, sono riuscito ad affermare la mia musica come un prodotto italiano e non solo locale».
 Lei ha il merito di aver sdoganato il laghée facendone una lingua da cantare anche nel salotto buono della musica. Perché il dialetto le piace così tanto? Cosa le consente di dire in più rispetto all’italiano?
 «Il dialetto è fondamentale. Il mio genere si basa sul racconto di storie che avvengono o sono riportate in dialetto, con tutti i suoi colori, la metrica felice e la sua visionarietà. Avendo fatto il militare a Villafranca, dove ero spesso in compagnia di commilitoni mantovani, conosco bene anche il vostro dialetto, che non è così allucinantemente diverso dal nostro. Lo stesso vale per il modenese e il veronese. Il bello del dialetto è che ti permette di visitare territori non ancora esplorati dalla musica italiana. C’è una miniera di cose raccontabili che è tutta libera».
 Alcune canzoni del suo ultimo album hanno il testo in italiano e il ritornello in laghée, è un compromesso per raggiungere un pubblico più ampio?
 «È semplicemente una cosa libera, non è che io abbia questo marchio per cui devo cantare per forza in dialetto. I brani in italiano sono “Il minatore di Frontale”, perché volevo che lo capissero tutti, “L’Alain Delon de Lenn”, perché è lui a parlare così, e poi c’è una poesia che ho trovato scritta in un taccuino».
 Premio Tenco, Notte della Taranta, French Quarter Festival a New Orleans, Festival Gaber, Mmf e pure Festivaletteratura. Davide Van De Sfroos è al di là di qualsiasi sospetto di arroccamento culturale e il suo pubblico è eterogeneo. Lei è molto amato anche dai militanti leghisti, che spesso hanno fatto delle sue canzoni una bandiera. Questa attenzione la lusinga o la infastidisce?
 «All’inizio era un po’ fastidioso essere collegato in ogni momento a questa cosa. Come dire, canti in dialetto allora sei. Però è ancora più fastidioso non cantare in dialetto perché se no pensano che magari sei. Non è assolutamente possibile preoccuparsi di chi ti ama, ti guarda e ascolta la tua voce. Io sono responsabile di quello che canto nelle mie canzoni. Poi è chiaro, vivo al Nord e non è un mistero che mi ascoltino militanti e politici leghisti. Ma è anche abbastanza ovvio che a Bossi piaccia più Van De Sfroos di Marilyn Manson».
 Nessun imbarazzo, quindi?
 «No, devo dire che non c’è mai stata una scorrettezza tale per cui mi abbiano messo in bocca cosa che non avevo detto. Semmai c’è stato qualche cronista che ha fatto di tutta l’erba un fascio. Se è per questo, sono andato anche a tantissime feste dell’Unità, senza essere militante

dell’altra parte. Andrò pure al Meeting di Rimini, e sarà la mia terza volta. Ho cantato anche per i giovani di An, due volte. M’incuriosisce sapere che persone diversissime tra loro per credo politico, o quel che ne rimane, si trovino sotto la mia bandiera. Ad ascoltare le mie canzoni».
 I suoi personaggi hanno un respiro epico, ma sono tutti degli antieroi. Perché la scelta di cantare gli “ultimi”?
 «Perché nascondono dei tesori. È come lavorare in miniera, se hai la forza di scavare a fondo nell’animo di queste persone, allora vengono alla luce delle storie preziose. Modi di dire, poesie involontarie, lezioni di vita o di sconfitta. E poi mi piace l’idea che tra gli eroi epici di oggi ci siano i minatori, oppure quelli che scavano per il metano o fanno cose che noi non vediamo. Mi piace sapere che i figli o i nipoti dei minatori riconoscano i loro nonni come eroi. Insomma, m’interessa ribadire che va tutto bene, ma se applaudiamo i vincitori di un campionato di calcio, o delle persone che stanno dentro una casa per tre mesi, maledicendosi a vicenda, allora credo che almeno una canzone dedicata ad un minatore sia una cosa dovuta».
 Una contrapposizione ricorrente nei suoi testi è quella tra provincia e metropoli. Lei ha scelto di vivere nella prima, perché?
 «È capitato. È andata così».
 D’accordo, però lei sembra contento di vivere a Mezzegra.
 «Certo, sono fortemente legato a questa terra e al suo modo di vivere. Non sono del tutto a mio agio con la città, anche se nel corso degli anni ho superato diversi tabù. Ci sono i cinema, i teatri, i negozi di libri e di dischi, ma mi piace sapere che casa mia è qui».
 Lascerebbe mai il lago per vivere sul mare?
 «Ci sono dei mari che mi hanno molto colpito, come quelli della Sardegna e del Salento. Ho anche una casa a Cesenatico, dove mio padre ha vissuto i suoi ultimi anni. Insomma, non avrei grossi problemi a trascorrere un lungo periodo in una zona di mare, anche se credo che prima o poi mi verrebbe il bisogno di vedere l’altra sponda».

 

IGOR CIPOLLINA

Gazzetta di Mantova

31.07.08

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