Come evitare un web ristretto ed elitario? — Lombardi nel Mondo

Come evitare un web ristretto ed elitario?

Da buon americano mi guardo da ogni forma di football che non sia quello in cui ad affrontarsi in campo sono degli omoni più grossi di me. Ma quest’anno è stata dura ignorare i Mondiali, e fra gli argomenti che andavano per la maggiore su Twitter, giravano strani termini, “Vuvuzela”, “Furia Roja”, “Octopus”…

Per due settimane sul popolare servizio di social networking e microblogging ha imperato “Cala Boca Galvao”. Non conoscendo altro che l’inglese americano, non capivo cosa volesse dire. Per fortuna ci sono stati diversi amici brasiliani disposti a illuminarmi via Twitter. Mi hanno spiegato che “Cala Boca Galvao” significa “Salvare il Galvao”, che è lo slogan di una campagna internazionale per salvare un uccello raro, il Galvao, appunto… una specie in via di estinzione. (E qui c’è un video che ci fa vedere in che triste condizione versa questa creatura – da non perdere, veramente 🙂

Sul serio, è un caso pietoso – il Galvao non è solo molto bello, ha anche effetti stupefacenti (narcotici), il che ovviamente ha spinto certi svitati spostati a commettere atti assurdi, di vero e proprio abuso ai danni del Galvao.

E grazie al cielo stanno cominciando ad arrivare gli aiuti. C’è perfino Lady Gaga che per esempio ha lanciato un nuovo singolo, no, addirittura ne ha sfornati un”intera serie dal titolo Cala Boca Galvao. ?Allora, siccome si è poi saputo che tutti rilanciavano su Twitter “Cala Boca Galvao” perché così si devolvevano dieci centesimi alla fondazione per salvare il Galvao, dovevo farlo anch’io, e così è stato.

Naturalmente era tutto un bello scherzo, e ha funzionato alla grande. Non esiste la specie Galvao, macché donazioni, niente singolo di Lady Gaga, per non parlare di quello che Diego Maradona dovrebbe o non dovrebbe sniffare. Galvao Bueno è in realtà il telecronista calcistico di Rete Global e i suoi commenti devono aver infastidito non poco gli utenti brasiliani di Twitter, se si sono inventati questa campagna per dirgli di stare zitto: “Cala boca” in realtà vuol dire “tappati la bocca”.

Da questa storia un paio di cosette da imparare ce le abbiamo. Prima di tutto che c’è il rischio di vedere americani e giapponesi insidiati dai brasiliani nel loro primato di generatori di meme [sorta di tormentoni] su Internet. Così finiranno per circolare sempre più bufale incomprensibili a ritmo di capoera e sempre meno riferimenti ai Pokemon, cosa alquanto positiva, del resto. E poi impariamo che a chiedere in giro adesioni per una petizione online non si sbaglia mai – per quanto demenziale possa essere – basta che il massimo sforzo da compiere sia il taglia/incolla di una frase. Ma più che altro mi preme evidenziare questo: impariamo che il mondo è molto più grande di come lo percepiamo di solito.

Ogni mese sono circa 170 milioni le persone che nel mondo usano Twitter, e, di queste, 19 milioni (l’11,2%) sono brasiliani. In Brasile, ogni mese, è un utente internet su dieci a usare Twitter, più di quasi tutti gli altri Paesi – fra quelli con il maggior numero di utenti internet, il Brasile è superato solo dal Giappone per i “tweet”. Praticamente su Twitter ci sono milioni di giapponesi e di brasiliani. E se la cosa vi sorprende è solo perché avete pochi amici giapponesi o brasiliani su Twitter. Da un sondaggio telefonico condotto dall”azienda stessa, si è visto che un quarto degli utenti USA è afro-americano … cosa che ha meravigliato gran parte degli americani, i quali erano convinti che Twitter fosse uno strumento prediletto da gente bianca con la fissazione della Rete.

 

Ciò che sorprende è che abbiamo a portata di click l’intero panorama del Twitter afro-americano; gli argomenti che vi fanno tendenza normalmente non comprendono i Mondiali di calcio – più spesso sono conversazioni scambiate fra persone afro-americane. A maggio Fernanda Viegas e Martin Wattenberg – due esperti che si occupano di effetti visivi, e ideatori della suite IBM ManyEyes hanno monitorato alcuni tag di Twitter per un fine settimana, rilevando che, in questo strumento di microblogging, esiste un alto tasso di segregazione razziale … che però si manifesta anche in modi inaspettati – per esempio il termine “cookout” è stato usato su Twitter più che altro dai neri, mentre a parlare di “oil spill” sono stati soprattutto i bianchi.?

Strumenti come Twitter, con cui ci formiamo una visione del mondo grazie ai vari amici, possono intrappolarci dentro una specie di camera di risonanza che il mio amico Eli Pariser chiama “filter bubbles”. Internet è troppo grande per poterla comprendere nel suo complesso, perciò ce ne facciamo un quadro che somiglia a quello che vedono i nostri amici. Se abbiamo amici brasiliani o conosciamo qualche brasiliano, magari lo scherzo su Cala Boca Galvao riusciamo a capirlo subito – diversamente non lo coglieremo. Il resto del mondo è a portata di click, ma che ci piaccia o no, normalmente lo facciamo passare attraverso questo filtro.?

Ma non è mica così che doveva andare. Nel 1995, Nicholas Negroponte, allora direttore del MIT Media Lab, comincia a lavorare al suo libro “Being Digital”, spiegando la differenza che passa fra atomi e bit. Mentre si trova a un incontro sul futuro dell’high-tech USA, si fissa sul fatto che l”acqua, a quel tavolo della Florida, viene da Evian, una località della Francia – e pensa a chi ha fatto tutta la fatica di portarla fin lì negli Stati Uniti. Ma in futuro [secondo lui], non saranno più questi atomi “pesanti” a essere movimentati e fatti oggetto di scambio commerciale – saranno invece dei bit immateriali e veloci a spostarsi. A questo proposito, sarebbe poi emerso che Negroponte si sbagliava. Nel 2010, si dà il caso che gli atomi continuino a essere più mobili dei bit. A insidiare il primato di Evian nel mercato americano delle “minerali d’importazione” è l’acqua delle Fiji – e vi risparmierò la filippica sull’assurdità dell’esistenza stessa di questa classificazione, limitandomi a dire che in un giorno qualunque, negli USA ci sono più probabilità di imbattersi nell’acqua delle Fiji che non di trovare, sorvolando su film e musica, informazioni da quell’area del mondo, nonostante le profonde ingiustizie politiche in atto nel Paese. ?Le infrastrutture della globalizzazione ci inducono a credere che stiamo vivendo nel mondo piatto [descritto da Thomas Friedman].

Da Londra fai un salto e sei a Bangalore, poi un altro e arrivi a Suva. ?Ma se invece di guardare all”infrastruttura – reti stradali, aerovie, rotte di navigazione, cablaggi – cominciamo a considerare i flussi di traffico, risulta chiarissimo come ci siano parti del mondo che sono molto più collegate di altre. La globalizzazione è distribuita in modo diseguale. Londra e New York sono molto più vicine fra loro di quanto non lo siano Johannesburg e Rio. ?Ho trascorso gran parte degli ultimi dieci anni a studiare come i new media si interessino al mondo, e l’ho fatto perché c’è un fenomeno che trovo decisamente sconcertante.?

Quando negli anni Settanta ero un ragazzino, il 35-40% delle notizie dei telegiornali serali era di contenuto internazionale. Oggi, quella percentuale, in un telegiornale medio, è scesa al 12-15%.? Come fece notare nel suo intervento a TED 2008 la Presidente di Public Radio International, Alisa Miller, c’è il rischio che si producano visioni del mondo assai distorte. ?Se qualcuno volesse obiettare che il problema riguarda i soli telegiornali americani – vi faccio notare che il fenomeno per me è in atto anche nei migliori quotidiani degli Stati Uniti, per esempio il New York Times, dove si presta decisamente più attenzione alle nazioni ricche che a quelle povere, il che si traduce in una probabilità otto volte superiore di leggere qualcosa sul Giappone che non sulla Nigeria, pur se i due Paesi hanno popolazioni numericamente equivalenti.? La maggior parte dei mezzi di comunicazione, nei Paesi compresi nel mio studio, rivela questa tendenza fondata sul PIL.

La BBC mostra invece una tendenza diversa – la copertura dei Paesi poveri che rientrano nell’ex impero britannico è ottima, mentre tende a essere inferiore la copertura dei Paesi non segnati in rosa [colore tradizionale dei domini britannici sulle cartine].? Mi ero augurato che l’imporsi di Internet e dei media digitali ci avrebbe portato ad avere un quadro più ampio del mondo, essendo oggi molto più agevole fare servizi dall”estero rispetto a una trentina di anni fa – invece di dover fisicamente inviare nel Regno Unito spezzoni di filmati dalle zone di guerra per farli poi sviluppare e trasmettere, oggi si possono caricare dei video su YouTube. ?Ci sono illustri eccezioni, certo, e sono per esempio i blogger che hanno dato risalto al movimento verde in Iran, ma dalla mia ricerca emerge che, al pari dei mezzi di informazione tradizionali, i blogger più noti si rivolgono maggiormente ai Paesi ricchi e a quelli che sono già oggetto di ampio interesse. Esistono online tantissimi blogger del mondo in via di sviluppo (infrastruttura) – ma ai loro siti si presta pochissima attenzione (flusso).?E sui mezzi partecipativi come Wikipedia si riscontra lo stesso tipo di parzialità – questo è uno studio condotto da Mark Graham dell”Oxford Internet Institute […], che evidenzia gli articoli su Wikipedia dotati di geocodifica. Ci fa capire certune delle distorsioni sul piano geografico che si osservano nel progetto complessivo, e quali sono i punti di forza e le criticità di Wikipedia rispetto alla copertura delle varie parti del mondo, anche se, non trattandosi di una mappatura di tutti gli articoli di Wikipedia in base alla geografia, potrebbe sovrastimare le disparità cui facevo riferimento.

La promessa di Internet – l’idea che tutto potesse essere a portata di click – prevedeva che qui in Gran Bretagna, senza alcun costo aggiuntivo, si leggessero giornali australiani, indiani, nigeriani, ghanesi, canadesi e si potesse così arrivare ad avere una visione più ampia del mondo. La verità è che mediamente questo non accade. Analizzando i dati ricavati da DoubleClick Ad Planner, e considerando i primi 50 siti di notizie in ciascun Paese da una rosa di trenta – si nota che in Gran Bretagna, oltre il 95% del traffico verso i siti di notizie più popolari si riferisce a siti nazionali. Ed è uno dei rari casi, fra l”altro, in cui gli statunitensi possono accusare i britannici di essere più campanilisti di loro – a noi americani la BBC, il Telegraph e il Guardian piacciono, e ben il 6% dei nostri lettori fa ricorso a mezzi di informazione britannici. Ma non è solo il caso degli Stati Uniti o del Regno Unito – anche il 94% delle notizie lette dagli utenti internet indiani – che di norma sono molto più ricchi, mondani e conoscitori della lingua inglese rispetto al medio cittadino indiano, visita per il 94% del tempo siti di news nazionali.

Sono questi i dati da cui giungo alla conclusione che internet non ci sta portando verso l”appiattimento ipotizzato da Nicholas Negroponte. Quel che temo, invece, è che faccia di noi dei “cosmopoliti immaginari”. Crediamo che la nostra visione del mondo oggi sia più vasta di quella dei nostri genitori o dei nostri nonni perché magari la televisione, i giornali e l”internet che abbiamo a disposizione possono offrirci un quadro più ampio di quello cui avevano accesso loro. Ma se osserviamo quanto succede in realtà, può darsi che la nostra visione del mondo in effetti vada restringendosi.

 

La sopravvivenza globale ha un cruciale bisogno di questa visione più ampia. Nei quattro giorni di incontri qui a TED Global, sentiremo parlare di riscaldamento globale, pandemie, sicurezza collettiva, tutti problemi che non si possono risolvere a livello individuale, né a livello di singole nazioni. Sono problemi globali che richiedono soluzioni globali. E poiché il tema della conferenza è “The Good News”, vale la pena di ricordare che le opportunità più interessanti – se si vuole fare la differenza, che si voglia realizzare qualcosa di bello o fare utili – sono di portata mondiale. C’è bisogno di creare soluzioni basate su una piena cooperazione transnazionale, a partire da un dialogo capace di attraversare i confini linguistici, sociali, nazionali.

Ecco dunque la buona notizia – abbiamo gli strumenti per farlo, abbiamo l’infrastruttura per ampliare gli spazi del mondo. E ora cominciamo a capire di cosa c’è bisogno per costruire nel mondo collegamenti concreti, non solo teorici.?Negli ultimi sei anni, fra le cose che mi hanno allietato la vita c’è senz’altro l’appartenere alla comunità di Global Voices Online. Questo gruppo di blogger da tutto il mondo ha lavorato verso l”obiettivo di riformare i media del pianeta amplificando le voci che di solito si sentono di meno – le voci di coloro che dal mondo in via di sviluppo si esprimono online. E già so che vi meraviglierete se vi dico che non ci siamo ancora riusciti a riformare tutti i media globali – ci vorrà ancora qualche annetto, a occhio e croce. Ma una cosa l’abbiamo imparata, ed è che per farsi l’idea di un mondo più ampio e, quel che più conta, per costruire strumenti, sistemi e istituzioni che consentano a tutti di parteciparvi a questo mondo più ampio, due sono le azioni ?di importanza decisiva da mettere in campo. Due strumenti di grande utilità.??

Attirare sempre più persone e più voci in Rete.

Vale innanzi tutto la pena di ricordare che il World Wide Web non rappresenta certo il mondo intero. Questa immagine composita della superficie terrestre risale ormai a un decennio fa, ma è ancora abbastanza rappresentativa degli 1.8 miliardi di persone che sono online e dei 4.8 miliardi che non ci sono.

Quelle zone scure che vedete sulla mappa non sono regioni che se ne stanno in silenzio – semplicemente sono quelle di solito non ben rappresentate dai media globali. Grazie a Global Voices, ora ho molti amici in Madagascar, e vi posso assicurare che a infastidirli di più è il fatto di essere più famosi per l”omonimo film della Dreamworks che per le bellezze naturali del loro Paese.?

Foko Club non si è sviluppato come progetto per modificare la percezione che avevano all”estero del Madagascar. Inizialmente non era che un club di liceali per apprendere l’inglese, poi si è trasformato in un club di persone interessate a internet, e in seguito è diventato un club di blogger che si è diffuso a livello nazionale.? Foko si è trasformato in qualcosa di diverso all’inizio del 2009, quando la politica malgascia è finita nel caos per via del sindaco della capitale malgascia che ha spodestato il presidente con l’appoggio dell”esercito. Il nuovo governo ha messo a tacere la maggior parte dei media indipendenti; internet era uno dei pochi spazi in cui la gente poteva informare sulle manifestazioni, e così i liceali associati a Foko si sono d’un tratto trovati a riportare le ultime notizie sui loro blog e con le foto fatte dai cellulari. Se vogliamo aprirci a un mondo più grande, dobbiamo trovare il modo di far crescere le voci nei luoghi come il Madagascar, di cui non sentiamo parlare spesso.

 

Traduzione: distribuita, umana e trasparente, accessibile per default

 

Ed ecco la fregatura – il malgascio magari non lo conoscerete. Ma anche se così non fosse, si dà il caso che internet si appresti a diventare un luogo intrinsecamente poliglotta, perciò, mentre i contenuti online crescono di giorno in giorno, c”è una porzione decrescente di internet a cui ciascuno di noi riesce ad avere accesso individuale, perché aumenta il numero delle lingue presenti che non conosciamo.?Quando incontriamo parole che non conosciamo – nel mondo reale come in quello online – tendiamo a ignorarle. Anche internet è strutturato per ignorarle – se cercate su Google la parola “apple” troverete delle pagine in spagnolo che la contengono, ma non pagine contenenti la parola “manzana” o “ringo”.?

 Nel  nuovo browser Chrome, Google ha adottato una soluzione molto ingegnosa – rileva la lingua della pagina che state visitando e si offre di tradurla per voi. Potete per esempio impostare il browser in modo che vi traduca sempre i testi dal cinese… il che significa che se cliccate su un link che vi porta a un sito in lingua cinese, non dovrete più uscire, scoraggiati da caratteri incomprensibili.

Il problema è che Google ricorre alla traduzione automatica, che funziona abbastanza dignitosamente fra l”inglese e il francese, ma assai male fra inglese e cinese. Quello che invece io mi immagino è che si possa avere un tasto che ci consenta di richiedere la traduzione umana di una pagina che ci interessa. e quindi di pagare attraverso appositi sistemi qualcuno disposto a pubblicarla, oppure di far sapere a un volontario che c’è qualcuno che desidera leggere quella pagina tradotta.

Si è visto che i volontari riescono a tradurre molto più di quanto non si immagini. Questo è Zhang Lei, che nel periodo precedente alle olimpiadi di Pechino viveva negli Stati Uniti, dove molti erano i media estremamente attenti alla questione dei diritti umani che vedeva coinvolta la Cina in Tibet. Zhang Lei ha intuito che la barriera linguistica fra chi parlava cinese e chi inglese era portatrice di molti conflitti evitabili, e così, insieme ai suoi amici, ha preso a tradurre in cinese i più influenti media di lingua inglese.?Yeeydiritan, che conta 150,000 volontari iscritti, pubblica ogni giorno dai cinquanta ai cento articoli, riprendendo contenuti dal New York Times e da siti come Read Write Web. Prima che il governo li facesse temporaneamente chiudere, collaboravano con The Guardian alla redazione di un”edizione ufficiale del quotidiano. Allora la domanda che mi pongo io è: dove è mai la versione inglese che ci consenta di capire cosa dicono i media cinesi? Se aspiriamo ad aprirci a un mondo più vasto, dobbiamo prendere sul serio l”opera di traduzione, e fare in modo che diventi un processo costante e trasparente, un”impostazione predefinita (default).

Quando i filtri non aiutano: servono ‘curatori’ per portarci fuori dal branco?

Possiamo allora immaginare un futuro in cui progetti come Foko favoriranno l”ascolto di voci provenienti da ogni angolo della terra, e in cui Yeeyan tradurrà verso lingue che conosciamo. Come si fa a decidere cosa leggere??

Il mondo è troppo grande per noi come singoli, e internet è altrettanto travolgente. Di recente YouTube ha annunciato che complessivamente si producono ogni giorno 24 ore di video al minuto, vale a dire che per guardare i video pubblicati in un singolo giorno, ci vogliono almeno quattro anni, e questo senza considerare pause per dormire, andare in bagno e fare la psicoterapia di cui abbiamo un gran bisogno. Servono filtri per gestire tutte queste informazioni.?

 

Quelli che di solito si utilizzano per gestire internet sono due – i motori di ricerca, che funzionano benissimo per dirci cosa vogliamo sapere, e i social network, che promettono di dirci cose che non sapevamo di voler sapere. Molti stanno lavorando a progetti per trovare le cose in modo fortuito, basandosi sul fatto che in internet navigate voi, ma anche i vostri amici. E se i vostri amici – o anche solo qualcuno che abbia interessi simili ai vostri – trova qualcosa di interessante, anche voi potreste fare la stessa scoperta fortuita. ?Questo metodo ha solo un problema. Gli esseri umani sono animali da branco. Come gli uccelli siamo gregari e ci muoviamo in gruppo. Perciò, quello che troviamo su siti come Reddit o Digg – o i link che ci passano i nostri amici su Facebook o Twitter – non è altro che ciò che stanno guardando quelli del branco. Può darsi che il branco vi faccia trovare cose inaspettate e utili, ma è difficile che si tratti di cose che si trovano all”altro capo del mondo.

 

E questa è Amira Al-Hussaini, redattrice della sezione Medio Oriente e Nord Africa di Global Voices. Fa uno dei lavori più impegnativi che io conosca, riuscendo a tirare fuori dal caos della blogosfera medio-orientale storie che noi andiamo poi a pubblicare sul sito. E il fatto è che deve farlo in modo che le persone che rappresenta – israeliani e palestinesi, siriani e iracheni – si sentano rappresentate equamente. Ma la vera sfida per lei è individuare la storia capace di attirare la nostra attenzione, perché divertente, o magari surreale, commovente o anche solo ben scritta.

Scoprire cose affascinanti, ma al di fuori della vostra orbita abituale è quello che di solito fanno i bravi DJ,  i curatore di mostre, oppure i redattori. Ci sono casi di vera eccellenza, veri esperti, che sono ben consapevoli di ciò che conoscete, di quanto non conoscete e di quello che potrebbe piacervi. Automatizzare non è cosa facile – non credo in effetti che ci si arriverà – e va bene così – questi curatori potrebbero però essere impiegati via internet nel compito di orientare il pubblico verso scoperte interessanti. Per aprire spazi più ampi ci vuole questo terzo tipo di filtro – certo, servono motori di ricerca e social network, ma anche guide che ci conducano fuori dal branco alla scoperta di voci diverse.

Contestualizzare: il ruolo delle “persone-ponte”???

Quando ascoltiamo voci provenienti da parti del mondo di cui si parla poco, quando riusciamo a leggere voci in lingue diverse dalla nostra, quando chi lo sa fare bene riesce a condurci fuori dalla nostra personale confort zone, potremmo trovarci in territorio sconosciuto.

Parliamo un attimo di Afrigadget, uno dei migliori blog di tecnologia su internet. Dà spazio a diversi programmatori e tecnici africani, dagli sviluppatori di software ai fabbri. Il blog, con il suo messaggio, non vuole certo insegnarci come si ricava uno scalpello da un albero motore della Land Rover – ma raccontarci come può essere creativo riciclare e come si possano produrre innovazioni anche in estrema economia di mezzi.

La comprensione di un messaggio e di un immagine come questi richiede la presenza di un contesto. Creare tale contesto è il compito svolto appunto da questa guida. Il fondatore di Afrigadget è Erik Hersman, un “geek” statunitense, direttore operativo di una prestigiosa software house che ha già vinto numerosi premi, e anche africano. Nato nel Sudan meridionale, ha frequentato il liceo in Kenya e parla swahili correntemente. Insomma, ha i piedi in due mondi diversi, e la sua passione è spiegare l’uno all’altro. Erik è un personaggio-ponte: uno dei pochi che può far interessare i geek americani ai fabbri kenioti, e viceversa, proprio perché comprende bene entrambi gli universi, ed è in grado di creare collegamenti tra i due.

Se aspiriamo a un mondo più ampio, dobbiamo riconoscere e rendere merito a questi personaggi-ponte amplificandone l”influenza, e poi dobbiamo far sì che questi ponti vengano attraversati.

Fossi stato al posto di Dhani Jones, difensore di una squadra di football americano, credo che avrei dedicato le vacanze a curarmi le ferite, e a spendere e spandere. Lui invece passa il tempo libero a viaggiare in vari Paesi, alla ricerca di atleti di varie discipline con cui allenarsi e da cui imparare. Conduce un programma sul canale satellitare Travel Channel che secondo me è degno di nota – e non solo perché è molto interessante starsene a guardare un atleta professionista che apprende le nozioni necessarie per giocare a pallanuoto o praticare la boxe thailandese: trovo sia affascinante perché Dhani, in un certo qual modo, riesce a trasmettere un senso di apertura, buonumore e ospitalità che invita la gente a entrare in contatto con lui in qualunque Paese si trovi. Dhani è uno xenofilo, ovvero una persona che fa la fatica che serve per attraversare i ponti e interagire con un mondo sempre più vasto. Guardo la sua trasmissione perché per me è fonte d”ispirazione e insegnamento, e mi permette di conoscere il mondo in tutta la sua diversità e complessità.

La sfida che lancio a tutti voi non è semplicemente di diventare xenofili, o di farvi “ponti” – la maggior parte di voi ponte lo è già, altrimenti non stareste qui ad assistere a una conferenza dedicata a idee provenienti dal mondo. La sfida che vi propongo è questa: aiutatemi a capire come poter costruire nuovi strumenti, come riformare i sistemi educativi, di immigrazione e di governo nel complesso, per poter potenziare il lavoro di chi è impegnato ad aprire nel mondo spazi sempre più vasti. Come facciamo a coltivare questi xenofili, a rendere onore ai costruttori di ponti, a ri-sintonizzare i media, affinché ci consentano di capire com’è il resto del mondo, e non solo il nostro piccolo gregge? È a questo che sto lavorando, e vorrei tanto poter contare sul vostro aiuto.

 

Testo originale: A wider world, a wider web, di Ethan Zuckerman. Traccia dell’intervento tenuto al TED Global: Listening to global voices, qui anche via slide share. Traduzione collettiva di “Voci Globali”.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/vociglobali/grubrica.asp?ID_blog=286&ID_articolo=119&ID_sezione=654&sezione=

 

Ernesto R Milani

Ernesto.milani@gmail.com

24 luglio 2010

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